Libri > Percy Jackson
Ricorda la storia  |      
Autore: Pathetic    09/02/2015    2 recensioni
Jason è stato messo ko da un mal di pancia malefico e un ladruncolo un po' impacciato verrà a fargli visita ...
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Connor Stoll, Jason Grace
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Attenzione: alti livelli di nonsense e fluff (sì, decisamente fluffuosa, questa fanfic ^^)

 

La cosa giusta


Era passata una settimana dalla guerra contro Gea e il Campo Mezzosangue viveva le sue giornate in balia della tranquillità e della pace che era venuta a crearsi in seguito all’alleanza col Campo Giove. Le varie lezioni avrebbero avuto inizio il Lunedì successivo, Chirone aveva deciso di lasciare ai ragazzi qualche giorno di ferie dopo gli avvenimenti poco piacevoli che avevano avuto luogo e che avevano interessato in modo sfacciatamente diretto i due Campi.
Jason era stanco morto, disteso a pancia in giù sul suo letto nella cabina uno, con la statua del padre che lo fissava contrariato dall’alto. Leo aveva fatto ritorno al campo insieme a Calypso il giorno prima così avevano organizzato una grande festa in suo onore e si era fatto piuttosto tardi. Ora Jason si pentiva di aver mangiato tutti quei bignè e di aver ingurgitato tutto quel gelato. Si teneva lo stomaco con una mano, mugugnando frasi incomprensibili in latino e lamentandosi qualche minuto sì e qualche minuto no.
“Smettila di frignare come una ragazzina”  si redarguiva col pensiero“Pensa a Piper, lei sta molto peggio di te in questo momento.”  Non poté che ritornare con la mente a poche ore prima, quando -forse a causa della poca luce, forse a causa della goffaggine- era inciampata su una radice, cadendo a terra e sbattendo violentemente la faccia sul pavimento bagnato della foresta. Jason era più che sicuro che si fosse rotta il naso, oltre alle ginocchia sbucciate e al livido violaceo sulla fronte. Molto probabilmente, ora se ne stava sdraiata in uno dei letti dell’infermeria con il naso fasciato e con un notevole emicrania da costringerla a tenere le palpebre chiuse e pregare che nessuno intorno a lei provocasse il benché minimo rumore. Avrebbe dovuto stare lì con lei a tenerle la mano e invece si trovava nella sua capanna a tenersi il suo di stomaco e non riuscendo nemmeno a trattenere qualche smorfia. Si girò su di un fianco, chiudendosi sempre più a riccio. Sperò vivamente che quel dolore lancinante sparisse rapidamente, ‘ché non aveva proprio voglia di passare l’intera giornata nell’oscurità della casa di Zeus. Era lì, tutto solo a contemplare i suoi stessi pensieri quando, molto timidamente, qualcuno aprì la porta e -dopo essersi guardato attorno in modo circospetto- entrò, chiudendosi la porta alle spalle e avanzando nell’ombra fino a giungere a pochi passi dal figlio di Giove. Jason non aveva idea di chi fosse, magari era Leo ch’era venuto a controllare perché mai non si fosse ancora degnato di farsi vivo, oppure Annabeth che, mossa dalla preoccupazione, era venuta a controllare che stesse bene, oppure ancora poteva trattarsi di Percy. Inizialmente non erano andati molto d’accordo, entrambi avevano percepito una sensazione di sfida tra di loro, come se avessero dovuto dimostrare a chissà chi il loro valore, avevano lottato mutamente per il comando della missione ,e solo in seguito, avevano finalmente imparato a collaborare l’uno con l’altro. Quando pensava al rapporto che ormai aveva instaurato con Testa d’Alghe, come amava soprannominarlo la sua fidanzata, non riusciva a non provare un moto di orgoglio e superbia. Partendo dal presupposto che i loro genitori vivevano in un’atmosfera di tensione e guerra e che in oltre tremila anni non erano ancora riusciti a dare origine ad una tregua, Jason si sentiva in un certo senso potente a collaborare con Percy e guardargli le spalle.
«Sei tu, Leo?» domandò con fatica, ma la voce gli uscì come un rantolo di sofferenza e non poté che pregare gli dei, affinché si trattasse realmente di lui. Era un buon amico, il migliore e non avrebbe di certo spifferato la sua imbarazzante situazione ad anima viva. Insomma, siamo sinceri, il figlio del padre degli dei -il dio del cielo e sovrano indiscusso dell’impero d’Occidente- messo k.o. da un mal di stomaco. Avrebbe perso tutta la sua credibilità, oltre al fatto che si sarebbe sentito uno schifo e si sarebbe fermato a rimuginarci sopra per molto tempo.
«Come dici?» domandò una voce che non riconobbe all’istante, non era nessuno della sua ciurma di semidei, accumunati dalla follia di Era e di sicuro non era Nico, dato che la voce di quest’ultimo fosse nettamente meno viva. No, il ragazzo che era entrato dalla porta d’ingresso senza alcun preavviso, aveva una voce suadente, giovane e allo stesso tempo felice, anche se Jason non era propriamente sicuro che una voce potesse essere considerata felice. Eppure era così, ma non era una voce felice perché colui che parlava era effettivamente felice. No, era una voce che guizzava di gioia, come se il suddetto interessato fosse un giovane pieno di entusiasmo e positività. Jason prese in rassegna tutti i volti dei suoi amici più cari, ma non riuscì a collegarla a nessuno di essi. Si costrinse a voltare stancamente la testa verso di lui e aprire le palpebre. Connor Stoll lo fissava attentamente con quelle sue iridi azzurre come il cielo, con qualche nuvola qua e là, Jason dovette strizzare gli occhi un paio di volte per metterlo a fuoco e un altro paio di volte per assicurarsi di vederci bene. Forse doveva prendere gli occhiali, ma si trovavano sul comodino e non aveva la forza per allungarsi nella loro direzione. Fece vagare lo sguardo per la stanza semi oscurata e si sorprese notevolmente, quando si rese conto che fossero soli, già era strano che il giovane Stoll fosse venuto a trovarlo, ma il fatto che non fosse in compagnia del fratello rendeva la situazione ancora più bizzarra.
«Connor?» chiese confuso, fissandolo di sbieco. Non riusciva a capire se fosse la sua vista a non essere particolarmente invidiabile -come anche Asclepio gli aveva fatto notare- o fosse il figlio di Hermes a tenere la testa leggermente storta.
Il ragazzo in piedi annuì in risposta, spostando il peso da un piede all’altro, ora completamente a disagio. Jason non aveva idea del perché si trovasse lì in quel momento, che fosse successo qualcosa? Chirone aveva forse convocato un’assemblea? Il silenzio dell’Oracolo di Delfi aveva avuto fine? Rabbrividì a quest’ultima ipotesi, avrebbe voluto tenersi lontano dalle profezie ancora per un po’.
«Che .. che cosa ci fai qui?» domandò, cercando di mettersi seduto, azione che riuscì perfettamente, non contando il leggero capovolgimento di testa e i crampi che divenivano via via più insopportabili.
«Hai .. hai mal di stomaco?» Jason strabuzzò gli occhi verso di lui, non  c’era bisogno nemmeno di chiederlo. Annuì comunque, stringendosi maggiormente la pancia e lasciandosi sfuggire l’ennesima smorfia.
«Dovrei avere della camomilla, vuoi … vuoi che te ne porti un po’?» non riuscì a comprendere perché mai fosse così impacciato, ma allontanò qualunque dubbio o perplessità alla possibilità di estirpare quella terribile indigestione. Lo guardò allontanarsi rapidamente dal suo capezzale e varcare la soglia di uscita, quasi correndo. Inciampò in uno degli scalini, ma Jason non se ne preoccupò più di tanto. Era un ragazzo un pochino maldestro.

Passarono una manciata di minuti, forse una decina prima che il ragazzo della casa undici rientrasse con in mano una grande tazza di camomilla fumante. Gliela passò, cercando di non rovesciare il contenuto sulle sue lenzuola mezze aggrovigliate. Gli venne da ridere a quella vista.
«A volte mi sveglio con le lenzuola sotto il letto e la coperta tutta arrotolata intorno alle gambe, ci metto sempre un po’ per riuscire a liberarmi.» ridacchiò, divertito.
«Ci hai messo il miele.» lo interruppe Jason, che aveva iniziato a sorseggiare la bevanda, attento a non scottarsi la lingua.
«Non ti piace?» chiese all’istante, forse un po’ troppo velocemente, si ritrovò a pensare il figlio di Giove.
«No. No, va bene. Grazie.» si affrettò a spiegare il più grande, facendo segno all’amico di sedersi sul materasso, invece che restare in piedi a torturarsi disagiatamente le mani. Connor prese posto, spostando di poco il lenzuolo bianco e si appoggiò la caviglia destra sul ginocchio della gamba opposta, guardandosi attorno. Fissò titubante la grande statua del dio e ne sembrò quasi intimorito. Jason trovò quasi comico il fatto che, nonostante avessero appena un anno di differenza, il ragazzo che aveva a così pochi centimetri di distanza fosse il figlio del suo fratellastro divino.
«Sarei una specie di zio per te» si ritrovò a constatare ad alta voce.
«Già … è strano, però. Sei così …»
«Giovane?» il suo sorriso compensò la sua muta risposta. Connor possedeva i lineamenti elfici di tutti i figli di Hermes; naso all’insù, orecchie praticamente a punta, alto e magro, con un groviglio di ciocche ricce e nere a contornargli il viso e un volto simile alle bambole di porcellana che siedono in vetrina, mentre passeggi per la città e i fiocchi di neve si posano sul tuo capo. Era una ragazzo allegro e spensierato, amava le feste e si dilettava con degli scherzi talvolta irritanti e fastidiosi. Era identico a suo fratello, se non per la statura, girava per il Campo insieme a lui e facevano tutto, e sottolineo tutto, insieme. Jason non sapeva da quanto tempo fossero lì al Campo, ma a giudicare dal numero delle perle di terracotta che portava al collo, doveva trattarsi di molti anni. Spostò lo sguardo sulle sue mani, muoveva le dita agitatamente in modo molto simile a Leo, doveva essere una caratteristica del dio dei ladri. Jason non aveva idea di cosa volesse dire rubare ed esserne compiaciuti, non riusciva a capacitarsi di come qualcuno potesse provare appagamento nel sottrarre ad altri oggetti di valore o di poco conto, lui davvero non ci riusciva. Non sarebbe mai stato un bravo figlio di Hermes, troppo fedele alle regole e alla giustizia per il dio degli inganni.
«Posso farti una domanda?»
«Uhm?» si riscosse il giovane, incatenando i suoi occhi celesti a quelli più limpidi del ragazzo che, ancora un po’ maldisposto, era appoggiato con la schiena al cuscino. Era a petto nudo, quella notte stava morendo di caldo, per questo la maglia del suo pigiama era distesa sul pavimento.
«Perché rubi?»
«C-come
«Non fraintendermi, ma voi della casa undici rubate un sacco di cose e alcune, lasciamelo dire, piuttosto inutili. Perché lo fate? Vi viene d’istinto oppure …?»
«Perché i ragazzi della casa nove costruiscono marchingegni strani e contorti? Perché la casa di Afrodite è piena di specchi e aggeggi per il trucco a dir poco improponibili? Perché i figli di Atena sono così dediti allo studio?» Jason doveva ammettere che non aveva tutti i torti, faceva parte del loro modo di essere. Hermes era il dio dei ladri, colui che da bambino sottrasse un grande porzione di mucche alla mandria sacra ad Apollo e le nascose in un luogo dove nessuno riuscì più a ritrovarle, quindi anche i suoi figli possedevano uno spiccato talento per l’arte del furto. Sapevano essere silenziosi, rapidi e astuti più di chiunque altro mezzosangue, non seguivano esattamente le regole e rifiutavano la disciplina come la peste. Gli ritornarono in mente i figli di Mercurio al Campo Giove e quanto fosse risultato arduo emendarli alla legione, erano ragazzi liberi che amavano divertirsi in ogni modo possibile, relegarli ad una vita di restrizioni e comandi era stata un’impresa, oltre che una crudeltà, ma allora non se ne era reso conto. Confrontando i due Campi, Jason si era reso conto di quante libertà i Romani negassero, Roma era una potenza basata sulle tattiche e sullo studio minuzioso ed assiduo di nuove tecniche di attacco e difesa. I Greci, al contrario, erano guerrieri cresciuti con l’onore, la gloria e l’entusiasmo. I Romani vantavano forza, uniformità e potere, ma la Grecia possedeva quella grinta, che brillava negli occhi dei suoi protetti, che avrebbe compensato ogni mancanza.
«Probabilmente hai ragione. Scusa, sono stato uno stupido.»
«Non preoccuparti. Non sei né il primo né l’ultimo.» avrebbe voluto rassicurarlo, ma il tono con cui lo disse mascherava una nota di amarezza che non sfuggì al biondo. Non gli chiese nulla in proposito, ma poteva benissimo immaginare a cosa fosse dovuta, quella lieve tristezza. Non doveva essere facile essere così portati per rovinare le cose e ingannare le persone, non erano doti invidiabili in un combattimento se non la velocità. Ma Jason sapeva perfettamente che la velocità poteva provocare derisione e che, spinto dall’invidia, qualcuno avrebbe associato la loro rapidità alla fuga e perciò alla codardia. E non vi era niente di più vergognoso per un Graecus di essere vile.
Non si accorse di aver bevuto tutta la camomilla finché non si ritrovò a stringere una tazza vuota.
«Sei stato veloce.» sgranò gli occhi, il figlio di Hermes.
«Ancora non ho capito da dove vi procuriate tutte queste cose.» mormorò, impensierito.
«Segreti del mestiere.» risero entrambi, poi Connor allontanò nuovamente lo sguardo verso la parete opposta, cercando di non prestare troppa attenzione alla statua che si ergeva prominente alla sua destra.
«Non è … inquietante dormire con …» indicò con la testa la figura imponente di Zeus.
«Non più di tanto, sinceramente mi aspettavo peggio.» seguì un’altra pausa di silenzio e Jason percepì nuovamente gli artigli della curiosità graffiargli la mente.
«Quindi cosa ci fai qui?» domandò per la seconda volta, deciso ad ottenere una risposta.
«B-be’ io … ecco vedi ero  … ero venuto per …» balbettò, ricominciando a torturarsi ossessivamente le mani.
«Connor, falla breve.»
«Volevo vederti.» esalò il figlio di Hermes e Jason poté giurare di averlo visto arrossire.


*************************************************************************************

Piper stava blaterando riguardo a qualche stupida litigata avuta con Drew appena poche ore prima, con quel suo enorme cerotto bianco sul naso. Si era completamente ristabilita, osò constatare Jason, che sedeva sul prato accanto alla ragazza e non prestava la benché minima attenzione alle sue parole. Più volte in quei giorni si era ritrovato a ragionare sulle parole di Connor Stoll e si sentiva ancora in colpa per essere rimasto totalmente zitto a ciò che, senza ombra di dubbio, si era trattato di una confessione, magari un po’ tirata e tentennante, ma pur sempre una confessione. Ritornò con la mente indietro nel tempo, alla mattina in cui i campeggiatori della cabina numero undici lo avevano affiancato durante la guerra contro Gea e a come Connor si fosse rivolto a lui. Al tempo non aveva fatto caso alla cosa, ma il giovane Stoll si era sempre comportato un po’ diversamente nei suoi confronti, rispetto che con gli altri. Qualche sorriso più entusiasta, qualche mossa un po’ maldestra e, ora che ci pensava bene, non aveva subito nemmeno uno dei loro terribili scherzi. Jason sospettava che Travis ne fosse a conoscenza, questo avrebbe spiegato perché mai Connor fosse riuscito ad isolarsi dalla sua presenza per fargli visita e poi non riusciva nemmeno a credere che quei due potessero mai nascondersi qualcosa l’un l’altro. Erano troppo legati, troppo …
«Perché sorridi?» domandò Piper, bloccando all’improvviso il suo sproloquio.
«C-cosa
«Perché stavi sorridendo? Scommetto che non mi prestavi nemmeno attenzione. Avevi quello sguardo perso e sognante di un ragazzina di tredici anni, fall in love con il suo idolo.»
«Ma sta’ zitta.» la riprese lui, scherzando e le scompigliò giocosamente i capelli. Quando però alzò lo sguardo, non riuscì ad ignorare un ragazzo dall’aria malinconica che li fissava di sfuggita. Jason mise fine a quel gesto troppo smielato, fino a pochi giorni prima si sarebbe volto e l’avrebbe baciata sfrontatamente sulle labbra, ma ora non ci riusciva. Non ci riusciva perché non sopportava l’idea che qualcuno potesse soffrirne, non lo trovava giusto.
«Puoi scusarmi? Devo andare da una persona.» non le diede nemmeno il tempo di rispondere. Avanzò a grandi passi per il Campo Mezzosangue, schivando alcuni semidei che si allenavano con le spade e superando alcuni destrieri che si preparavano al trotto. Cercò di non perderlo di vista, dato che accelerava il passo ad ogni metro percorso. Provò a prevedere le sue mosse e non fu difficile, puntava dritto alla casa di Hermes. Jason poteva già immaginarlo distendersi sul letto con la faccia premuta contro il cuscino e sospirare, lasciando che tutti i colori del suo umore vaporassero nell’aria.
Aspettò qualche istante, giunto davanti alla porta chiusa. Si chiese cosa stesse facendo, cosa gli avrebbe detto. Non lo sapeva, però sapeva che doveva farlo. Era giusto così.
«Connor?» domandò, mentre si chiudeva la porta alle spalle. C’era più luce nella cabina di Hermes, i raggi del sole filtravano dalla finestra e da tutti gli spifferi delle assi in legno. Jason non poté che chiedersi se facesse molto freddo d’inverno. Connor era, come aveva previsto, sdraiato su uno dei letti bassi, si teneva un ginocchio con le mani e aveva gli occhi chiusi. Non si era preoccupato nemmeno di sistemare le scarpe al loro posto, le aveva buttate svogliatamente sul pavimento e si era lasciato cadere sul soffice materasso. Jason sapeva due cose: la prima era che Connor fosse sveglio e che lo stesse ascoltando e la seconda era che fosse consapevole che due mezzosangue non potessero categoricamente rimanere soli in una cabina o in qualunque altro luogo chiuso. Ma, per una volta, se ne fregò delle regole. Forse era l’aura di Hermes a fargli quell’effetto o forse il suo cervello riteneva più importante aiutare un amico che rispettare uno stupido regolamento.
“Non è il cervello” si disse istintivamente e si rabbuiò un poco del pensiero che autonomamente aveva formulato. Era stato involontario, senza riflessione, naturale e soprattutto sincero.
«Va tutto bene.» sussurrò al suo orecchio, sporgendosi ad accarezzargli i capelli. Non sapeva perché lo stesse facendo, ma non ci vedeva nulla di malsano o sbagliato nel farlo. Lo vide rilassarsi sotto al suo tocco, per poi irrigidirsi di nuovo e spalancare gli occhi. Si fissarono intensamente, due cieli che si scontravano l’un l’altro e si perdevano in sé stessi. Jason si distese accanto a lui, non mettendo mai fine al contatto visivo.
«Va tutto bene.» ripeté, non c’era disagio dentro di lui, si sentiva così libero e vero che avrebbe voluto rimanere lì per sempre. Si sporse un poco, poteva sentire i loro respiri che si mischiavano, profumava di tè ai frutti di bosco. Jason adorava il tè ai frutti di bosco, lo faceva tornare indietro nel tempo, a quando da bambino stringeva il biberon davanti alla tv e coccolava un tenero pupazzo dalla morbida forma di un coniglietto bianco. Gli scostò quel ciuffo che gli ricadeva sempre sugli occhi e lasciò che le sue dita scivolassero teneramente sulla sua guancia fino a posarsi sul suo mento. Si avvicinò ancora un po’, le loro labbra si sfioravano adesso. Jason poteva vedere il suo desiderio vagare per le strade infinite dei suoi occhi, poteva leggere una preghiera silenziosa tra le righe della sua anima, ma vedeva anche il timore che provava e l’insicurezza che, nonostante tutto, ancora lo costringeva ad astenersi da ogni partecipazione. Per questo lo fece, per infrangere ogni barriera che lo allontanava dal mondo, per donargli nuovamente quel caldo sorriso accogliente che aveva perduto durante il cammino, perché era giusto così, perché infondo anche Jason lo voleva. Lo baciò dolcemente, lo baciò come una madre bacia per la prima volta il figlio in fasce in una camera d’ospedale, lo baciò con la leggerezza con cui una rondine vola leggiadra nel vento, con l’innocenza di un tenero agnellino dal pelo candido e vellutato. Lo baciò mentre il cielo si tingeva di rosso e gli animali si affrettavano a far ritorno, lo baciò con il sole che andava a dormire, con il vento che cominciava a soffiare più forte, con le stelle che attendevano l’oscurità della notte per risplendere orgogliose e illuminare la Terra. Lo baciò timidamente e con sicurezza, spezzò le catene che li legavano e lo strinse maggiormente a sé, coccolandolo tra le sue braccia. Quando finalmente si staccarono, Connor gli lanciò uno sguardo indefinito, fissandolo in soggezione. Jason non pensò a Piper in quel momento, non riusciva a staccare gli occhi di dosso al ragazzo che stringeva con forza, come a temere di poterlo perdere. Gli posò un bacio leggero sulla fronte e rimasero lì su quello stesso letto, finché Connor non si addormentò e Jason pensò che fosse bellissimo.
«Sei adorabile, piccolino.» gli sussurrò all’orecchio e gli posò un altro bacio sulla guancia.

 

 

Non chiedetemi come abbia fatto ad inventarmi una cosa simile o da dove essa sia venuta fuori, si tratta semplicemente di un’idea di passaggio alquanto bizzarra e senza senso. Spero comunque l’abbiate gradita e vi invito a lasciarmi una recensione (anche piccolina) tanto per sapere cosa ne pensate. ;D
Connor è il mio personaggio preferito e, se devo essere sincera, non lo shippo esattamente con Jason, ma la mia mente ha creato in modo autonomo e totalmente improvviso la trama di questa oneshot e chi sono io per non pubblicarla?


   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: Pathetic