Attenzione: alti livelli di nonsense e fluff (sì,
decisamente fluffuosa, questa fanfic
^^)
La cosa giusta
Era passata una settimana dalla guerra contro Gea e
il Campo Mezzosangue viveva le sue giornate in balia della tranquillità e della
pace che era venuta a crearsi in seguito all’alleanza col Campo Giove. Le varie
lezioni avrebbero avuto inizio il Lunedì successivo, Chirone aveva deciso di
lasciare ai ragazzi qualche giorno di ferie
dopo gli avvenimenti poco piacevoli che avevano avuto luogo e che avevano
interessato in modo sfacciatamente diretto i due Campi.
Jason era stanco morto, disteso a pancia in giù sul suo letto nella cabina uno,
con la statua del padre che lo fissava contrariato dall’alto. Leo aveva fatto
ritorno al campo insieme a Calypso il giorno prima così avevano organizzato una
grande festa in suo onore e si era fatto piuttosto tardi. Ora Jason si pentiva
di aver mangiato tutti quei bignè e di aver ingurgitato tutto quel gelato. Si
teneva lo stomaco con una mano, mugugnando frasi incomprensibili in latino e
lamentandosi qualche minuto sì e qualche minuto no.
“Smettila di frignare come una ragazzina”
si redarguiva col pensiero“Pensa a Piper,
lei sta molto peggio di te in questo momento.” Non poté che ritornare con la mente a poche
ore prima, quando -forse a causa della poca luce, forse a causa della
goffaggine- era inciampata su una radice, cadendo a terra e sbattendo
violentemente la faccia sul pavimento bagnato della foresta. Jason era più che
sicuro che si fosse rotta il naso, oltre alle ginocchia sbucciate e al livido
violaceo sulla fronte. Molto probabilmente, ora se ne stava sdraiata in uno dei
letti dell’infermeria con il naso fasciato e con un notevole emicrania da
costringerla a tenere le palpebre chiuse e pregare che nessuno intorno a lei
provocasse il benché minimo rumore. Avrebbe dovuto stare lì con lei a tenerle
la mano e invece si trovava nella sua capanna a tenersi il suo di stomaco e non
riuscendo nemmeno a trattenere qualche smorfia. Si girò su di un fianco,
chiudendosi sempre più a riccio. Sperò vivamente che quel dolore lancinante
sparisse rapidamente, ‘ché non aveva proprio voglia di passare l’intera
giornata nell’oscurità della casa di Zeus. Era lì, tutto solo a contemplare i
suoi stessi pensieri quando, molto timidamente, qualcuno aprì la porta e -dopo
essersi guardato attorno in modo circospetto- entrò, chiudendosi la porta alle
spalle e avanzando nell’ombra fino a giungere a pochi passi dal figlio di
Giove. Jason non aveva idea di chi fosse, magari era Leo ch’era venuto a
controllare perché mai non si fosse ancora degnato di farsi vivo, oppure
Annabeth che, mossa dalla preoccupazione, era venuta a controllare che stesse
bene, oppure ancora poteva trattarsi di Percy. Inizialmente non erano andati
molto d’accordo, entrambi avevano percepito una sensazione di sfida tra di loro,
come se avessero dovuto dimostrare a chissà chi il loro valore, avevano lottato
mutamente per il comando della missione ,e solo in seguito, avevano finalmente
imparato a collaborare l’uno con l’altro. Quando pensava al rapporto che ormai
aveva instaurato con Testa d’Alghe,
come amava soprannominarlo la sua fidanzata, non riusciva a non provare un moto
di orgoglio e superbia. Partendo dal presupposto che i loro genitori vivevano
in un’atmosfera di tensione e guerra e che in oltre tremila anni non erano
ancora riusciti a dare origine ad una tregua, Jason si sentiva in un certo
senso potente a collaborare con Percy
e guardargli le spalle.
«Sei tu, Leo?» domandò con fatica, ma la voce gli uscì come un rantolo di
sofferenza e non poté che pregare gli dei, affinché si trattasse realmente di lui.
Era un buon amico, il migliore e non avrebbe di certo spifferato la sua
imbarazzante situazione ad anima viva. Insomma, siamo sinceri, il figlio del
padre degli dei -il dio del cielo e sovrano indiscusso dell’impero d’Occidente-
messo k.o. da un mal di stomaco. Avrebbe perso tutta
la sua credibilità, oltre al fatto che si sarebbe sentito uno schifo e si
sarebbe fermato a rimuginarci sopra per molto tempo.
«Come dici?» domandò una voce che non riconobbe all’istante, non era nessuno
della sua ciurma di semidei,
accumunati dalla follia di Era e di sicuro non era Nico, dato che la voce di quest’ultimo
fosse nettamente meno viva. No, il
ragazzo che era entrato dalla porta d’ingresso senza alcun preavviso, aveva una
voce suadente, giovane e allo stesso tempo felice,
anche se Jason non era propriamente sicuro che una voce potesse essere considerata
felice. Eppure era così, ma non era
una voce felice perché colui che
parlava era effettivamente felice. No,
era una voce che guizzava di gioia, come se il suddetto interessato fosse un
giovane pieno di entusiasmo e positività. Jason prese in rassegna tutti i volti
dei suoi amici più cari, ma non riuscì a collegarla a nessuno di essi. Si
costrinse a voltare stancamente la testa verso di lui e aprire le palpebre. Connor Stoll lo fissava attentamente con quelle sue iridi
azzurre come il cielo, con qualche nuvola qua e là, Jason dovette strizzare gli
occhi un paio di volte per metterlo a fuoco e un altro paio di volte per
assicurarsi di vederci bene. Forse doveva prendere gli occhiali, ma si trovavano
sul comodino e non aveva la forza per allungarsi nella loro direzione. Fece
vagare lo sguardo per la stanza semi oscurata e si sorprese notevolmente,
quando si rese conto che fossero soli, già era strano che il giovane Stoll
fosse venuto a trovarlo, ma il fatto che non fosse in compagnia del fratello
rendeva la situazione ancora più bizzarra.
«Connor?» chiese confuso, fissandolo di sbieco. Non
riusciva a capire se fosse la sua vista a non essere particolarmente
invidiabile -come anche Asclepio gli aveva fatto
notare- o fosse il figlio di Hermes a tenere la testa leggermente storta.
Il ragazzo in piedi annuì in risposta, spostando il peso da un piede all’altro,
ora completamente a disagio. Jason non aveva idea del perché si trovasse lì in
quel momento, che fosse successo qualcosa? Chirone aveva forse convocato
un’assemblea? Il silenzio dell’Oracolo di Delfi aveva avuto fine? Rabbrividì a
quest’ultima ipotesi, avrebbe voluto tenersi lontano dalle profezie ancora per
un po’.
«Che .. che cosa ci fai qui?» domandò, cercando di mettersi seduto, azione che
riuscì perfettamente, non contando il leggero capovolgimento di testa e i
crampi che divenivano via via più insopportabili.
«Hai .. hai mal di stomaco?» Jason strabuzzò gli occhi verso di lui, non c’era bisogno nemmeno di chiederlo. Annuì
comunque, stringendosi maggiormente la pancia e lasciandosi sfuggire l’ennesima
smorfia.
«Dovrei avere della camomilla, vuoi … vuoi che te ne porti un po’?» non riuscì
a comprendere perché mai fosse così impacciato, ma allontanò qualunque dubbio o
perplessità alla possibilità di estirpare quella terribile indigestione. Lo
guardò allontanarsi rapidamente dal suo capezzale
e varcare la soglia di uscita, quasi correndo. Inciampò in uno degli scalini,
ma Jason non se ne preoccupò più di tanto. Era un ragazzo un pochino maldestro.
Passarono
una manciata di minuti, forse una decina prima che il ragazzo della casa undici
rientrasse con in mano una grande tazza di camomilla fumante. Gliela passò,
cercando di non rovesciare il contenuto sulle sue lenzuola mezze aggrovigliate.
Gli venne da ridere a quella vista.
«A volte mi sveglio con le lenzuola sotto il letto e la coperta tutta
arrotolata intorno alle gambe, ci metto sempre un po’ per riuscire a liberarmi.»
ridacchiò, divertito.
«Ci hai messo il miele.» lo interruppe Jason, che aveva iniziato a sorseggiare
la bevanda, attento a non scottarsi la lingua.
«Non ti piace?» chiese all’istante, forse un po’ troppo velocemente, si ritrovò
a pensare il figlio di Giove.
«No. No, va bene. Grazie.» si affrettò a spiegare il più grande, facendo segno
all’amico di sedersi sul materasso, invece che restare in piedi a torturarsi
disagiatamente le mani. Connor prese posto, spostando
di poco il lenzuolo bianco e si appoggiò la caviglia destra sul ginocchio della
gamba opposta, guardandosi attorno. Fissò titubante la grande statua del dio e
ne sembrò quasi intimorito. Jason trovò quasi comico il fatto che, nonostante
avessero appena un anno di differenza, il ragazzo che aveva a così pochi
centimetri di distanza fosse il figlio del suo fratellastro divino.
«Sarei una specie di zio per te» si ritrovò a constatare ad alta voce.
«Già … è strano, però. Sei così …»
«Giovane?» il suo sorriso compensò la sua muta risposta. Connor
possedeva i lineamenti elfici di tutti i figli di Hermes; naso all’insù,
orecchie praticamente a punta, alto e magro, con un groviglio di ciocche ricce
e nere a contornargli il viso e un volto simile alle bambole di porcellana che
siedono in vetrina, mentre passeggi per la città e i fiocchi di neve si posano
sul tuo capo. Era una ragazzo allegro e spensierato, amava le feste e si
dilettava con degli scherzi talvolta irritanti e fastidiosi. Era identico a suo
fratello, se non per la statura, girava per il Campo insieme a lui e facevano
tutto, e sottolineo tutto, insieme. Jason non sapeva da quanto tempo fossero lì
al Campo, ma a giudicare dal numero delle perle di terracotta che portava al
collo, doveva trattarsi di molti anni. Spostò lo sguardo sulle sue mani,
muoveva le dita agitatamente in modo molto simile a Leo, doveva essere una
caratteristica del dio dei ladri. Jason non aveva idea di cosa volesse dire
rubare ed esserne compiaciuti, non riusciva a capacitarsi di come qualcuno
potesse provare appagamento nel sottrarre ad altri oggetti di valore o di poco
conto, lui davvero non ci riusciva. Non sarebbe mai stato un bravo figlio di
Hermes, troppo fedele alle regole e alla giustizia per il dio degli inganni.
«Posso farti una domanda?»
«Uhm?» si riscosse il giovane, incatenando i suoi occhi celesti a quelli più
limpidi del ragazzo che, ancora un po’ maldisposto, era appoggiato con la
schiena al cuscino. Era a petto nudo, quella notte stava morendo di caldo, per
questo la maglia del suo pigiama era distesa sul pavimento.
«Perché rubi?»
«C-come?»
«Non fraintendermi, ma voi della casa undici rubate un sacco di cose e alcune,
lasciamelo dire, piuttosto inutili. Perché lo fate? Vi viene d’istinto oppure …?»
«Perché i ragazzi della casa nove costruiscono marchingegni strani e contorti?
Perché la casa di Afrodite è piena di specchi e aggeggi per il trucco a dir
poco improponibili? Perché i figli di Atena sono così dediti allo studio?»
Jason doveva ammettere che non aveva tutti i torti, faceva parte del loro modo
di essere. Hermes era il dio dei ladri, colui che da bambino sottrasse un
grande porzione di mucche alla mandria sacra ad Apollo e le nascose in un luogo
dove nessuno riuscì più a ritrovarle, quindi anche i suoi figli possedevano uno
spiccato talento per l’arte del furto. Sapevano essere silenziosi, rapidi e
astuti più di chiunque altro mezzosangue, non seguivano esattamente le regole e
rifiutavano la disciplina come la peste. Gli ritornarono in mente i figli di
Mercurio al Campo Giove e quanto fosse risultato arduo emendarli alla legione,
erano ragazzi liberi che amavano divertirsi in ogni modo possibile, relegarli
ad una vita di restrizioni e comandi era stata un’impresa, oltre che una
crudeltà, ma allora non se ne era reso conto. Confrontando i due Campi, Jason
si era reso conto di quante libertà i Romani negassero, Roma era una potenza
basata sulle tattiche e sullo studio minuzioso ed assiduo di nuove tecniche di
attacco e difesa. I Greci, al contrario, erano guerrieri cresciuti con l’onore,
la gloria e l’entusiasmo. I Romani vantavano forza, uniformità e potere, ma la
Grecia possedeva quella grinta, che brillava negli occhi dei suoi protetti, che
avrebbe compensato ogni mancanza.
«Probabilmente hai ragione. Scusa, sono stato uno stupido.»
«Non preoccuparti. Non sei né il primo né l’ultimo.» avrebbe voluto
rassicurarlo, ma il tono con cui lo disse mascherava una nota di amarezza che
non sfuggì al biondo. Non gli chiese nulla in proposito, ma poteva benissimo
immaginare a cosa fosse dovuta, quella lieve tristezza. Non doveva essere
facile essere così portati per rovinare le cose e ingannare le persone, non
erano doti invidiabili in un combattimento se non la velocità. Ma Jason sapeva
perfettamente che la velocità poteva provocare derisione e che, spinto
dall’invidia, qualcuno avrebbe associato la loro rapidità alla fuga e perciò
alla codardia. E non vi era niente di più vergognoso per un Graecus
di essere vile.
Non si accorse di aver bevuto tutta la camomilla finché non si ritrovò a
stringere una tazza vuota.
«Sei stato veloce.» sgranò gli occhi, il figlio di Hermes.
«Ancora non ho capito da dove vi procuriate tutte queste cose.» mormorò, impensierito.
«Segreti del mestiere.» risero entrambi, poi Connor
allontanò nuovamente lo sguardo verso la parete opposta, cercando di non
prestare troppa attenzione alla statua che si ergeva prominente alla sua
destra.
«Non è … inquietante dormire con …»
indicò con la testa la figura imponente di Zeus.
«Non più di tanto, sinceramente mi aspettavo peggio.» seguì un’altra pausa di
silenzio e Jason percepì nuovamente gli artigli della curiosità graffiargli la
mente.
«Quindi cosa ci fai qui?» domandò per la seconda volta, deciso ad ottenere una
risposta.
«B-be’ io … ecco vedi ero … ero venuto per …» balbettò, ricominciando a
torturarsi ossessivamente le mani.
«Connor, falla breve.»
«Volevo vederti.» esalò il figlio di Hermes e Jason poté giurare di averlo
visto arrossire.
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Piper
stava blaterando riguardo a qualche stupida litigata avuta con Drew appena
poche ore prima, con quel suo enorme cerotto bianco sul naso. Si era
completamente ristabilita, osò constatare Jason, che sedeva sul prato accanto
alla ragazza e non prestava la benché minima attenzione alle sue parole. Più
volte in quei giorni si era ritrovato a ragionare sulle parole di Connor Stoll e si sentiva ancora in colpa per essere
rimasto totalmente zitto a ciò che, senza ombra di dubbio, si era trattato di
una confessione, magari un po’ tirata e tentennante, ma pur sempre una confessione.
Ritornò con la mente indietro nel tempo, alla mattina in cui i campeggiatori
della cabina numero undici lo avevano affiancato durante la guerra contro Gea e a come Connor si fosse
rivolto a lui. Al tempo non aveva fatto caso alla cosa, ma il giovane Stoll si
era sempre comportato un po’ diversamente nei suoi confronti, rispetto che con
gli altri. Qualche sorriso più entusiasta, qualche mossa un po’ maldestra e,
ora che ci pensava bene, non aveva subito nemmeno uno dei loro terribili
scherzi. Jason sospettava che Travis ne fosse a conoscenza, questo avrebbe
spiegato perché mai Connor fosse riuscito ad isolarsi
dalla sua presenza per fargli visita e poi non riusciva nemmeno a credere che
quei due potessero mai nascondersi qualcosa l’un l’altro. Erano troppo legati,
troppo …
«Perché sorridi?» domandò Piper, bloccando
all’improvviso il suo sproloquio.
«C-cosa?»
«Perché stavi sorridendo? Scommetto che non mi prestavi nemmeno attenzione.
Avevi quello sguardo perso e sognante di un ragazzina di tredici anni, fall in love con il suo idolo.»
«Ma sta’ zitta.» la riprese lui, scherzando e le scompigliò giocosamente i
capelli. Quando però alzò lo sguardo, non riuscì ad ignorare un ragazzo
dall’aria malinconica che li fissava di sfuggita. Jason mise fine a quel gesto
troppo smielato, fino a pochi giorni prima si sarebbe volto e l’avrebbe baciata
sfrontatamente sulle labbra, ma ora non ci riusciva. Non ci riusciva perché non
sopportava l’idea che qualcuno potesse soffrirne, non lo trovava giusto.
«Puoi scusarmi? Devo andare da una persona.» non le diede nemmeno il tempo di
rispondere. Avanzò a grandi passi per il Campo Mezzosangue, schivando alcuni
semidei che si allenavano con le spade e superando alcuni destrieri che si
preparavano al trotto. Cercò di non perderlo di vista, dato che accelerava il
passo ad ogni metro percorso. Provò a prevedere le sue mosse e non fu
difficile, puntava dritto alla casa di Hermes. Jason poteva già immaginarlo
distendersi sul letto con la faccia premuta contro il cuscino e sospirare,
lasciando che tutti i colori del suo umore vaporassero nell’aria.
Aspettò qualche istante, giunto davanti alla porta chiusa. Si chiese cosa
stesse facendo, cosa gli avrebbe detto. Non lo sapeva, però sapeva che doveva
farlo. Era giusto così.
«Connor?» domandò, mentre si chiudeva la porta alle
spalle. C’era più luce nella cabina di Hermes, i raggi del sole filtravano
dalla finestra e da tutti gli spifferi delle assi in legno. Jason non poté che
chiedersi se facesse molto freddo d’inverno. Connor
era, come aveva previsto, sdraiato su uno dei letti bassi, si teneva un
ginocchio con le mani e aveva gli occhi chiusi. Non si era preoccupato nemmeno
di sistemare le scarpe al loro posto, le aveva buttate svogliatamente sul
pavimento e si era lasciato cadere sul soffice materasso. Jason sapeva due
cose: la prima era che Connor fosse sveglio e che lo
stesse ascoltando e la seconda era che fosse consapevole che due mezzosangue
non potessero categoricamente rimanere soli in una cabina o in qualunque altro
luogo chiuso. Ma, per una volta, se ne fregò delle regole. Forse era l’aura di
Hermes a fargli quell’effetto o forse il suo cervello riteneva più importante
aiutare un amico che rispettare uno stupido regolamento.
“Non è il cervello” si disse
istintivamente e si rabbuiò un poco del pensiero che autonomamente aveva
formulato. Era stato involontario, senza riflessione, naturale e soprattutto sincero.
«Va tutto bene.» sussurrò al suo orecchio, sporgendosi ad accarezzargli i
capelli. Non sapeva perché lo stesse facendo, ma non ci vedeva nulla di malsano
o sbagliato nel farlo. Lo vide rilassarsi sotto al suo tocco, per poi
irrigidirsi di nuovo e spalancare gli occhi. Si fissarono intensamente, due
cieli che si scontravano l’un l’altro e si perdevano in sé stessi. Jason si
distese accanto a lui, non mettendo mai fine al contatto visivo.
«Va tutto bene.» ripeté, non c’era disagio dentro di lui, si sentiva così
libero e vero che avrebbe voluto rimanere lì per sempre. Si sporse un poco,
poteva sentire i loro respiri che si mischiavano, profumava di tè ai frutti di
bosco. Jason adorava il tè ai frutti di bosco, lo faceva tornare indietro nel
tempo, a quando da bambino stringeva il biberon davanti alla tv e coccolava un
tenero pupazzo dalla morbida forma di un coniglietto bianco. Gli scostò quel
ciuffo che gli ricadeva sempre sugli occhi e lasciò che le sue dita
scivolassero teneramente sulla sua guancia fino a posarsi sul suo mento. Si
avvicinò ancora un po’, le loro labbra si sfioravano adesso. Jason poteva
vedere il suo desiderio vagare per le strade infinite dei suoi occhi, poteva
leggere una preghiera silenziosa tra le righe della sua anima, ma vedeva anche
il timore che provava e l’insicurezza che, nonostante tutto, ancora lo
costringeva ad astenersi da ogni partecipazione. Per questo lo fece, per
infrangere ogni barriera che lo allontanava dal mondo, per donargli nuovamente
quel caldo sorriso accogliente che aveva perduto durante il cammino, perché era
giusto così, perché infondo anche Jason lo voleva. Lo baciò dolcemente, lo
baciò come una madre bacia per la prima volta il figlio in fasce in una camera
d’ospedale, lo baciò con la leggerezza con cui una rondine vola leggiadra nel
vento, con l’innocenza di un tenero agnellino dal pelo candido e vellutato. Lo
baciò mentre il cielo si tingeva di rosso e gli animali si affrettavano a far
ritorno, lo baciò con il sole che andava a dormire, con il vento che cominciava
a soffiare più forte, con le stelle che attendevano l’oscurità della notte per
risplendere orgogliose e illuminare la Terra. Lo baciò timidamente e con
sicurezza, spezzò le catene che li legavano e lo strinse maggiormente a sé,
coccolandolo tra le sue braccia. Quando finalmente si staccarono, Connor gli lanciò uno sguardo indefinito, fissandolo in
soggezione. Jason non pensò a Piper in quel momento,
non riusciva a staccare gli occhi di dosso al ragazzo che stringeva con forza,
come a temere di poterlo perdere. Gli posò un bacio leggero sulla fronte e
rimasero lì su quello stesso letto, finché Connor non
si addormentò e Jason pensò che fosse bellissimo.
«Sei adorabile, piccolino.» gli sussurrò all’orecchio e gli posò un altro bacio
sulla guancia.
Non chiedetemi come abbia fatto ad inventarmi una cosa
simile o da dove essa sia venuta fuori, si tratta semplicemente di un’idea di
passaggio alquanto bizzarra e senza senso. Spero comunque l’abbiate gradita e
vi invito a lasciarmi una recensione (anche piccolina) tanto per sapere cosa ne
pensate. ;D
Connor è il mio personaggio preferito e, se devo
essere sincera, non lo shippo esattamente con Jason,
ma la mia mente ha creato in modo autonomo e totalmente improvviso la trama di
questa oneshot e chi sono io per non pubblicarla?