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Autore: WhiteWitch    09/02/2015    7 recensioni
Léo, studentessa di storia dell'arte alla Sorbona, sembra avere una vita perfetta. Tanti amici, feste e bei vestiti, un fidanzato intraprendente che non fa troppe domande. Sa di essere bella e si mette in mostra, dispiega le sue ali di farfalla perché tutti possano ammirarle, fa sentire in colpa gli altri per non sprofondare a sua volta, ha una morale tutta sua e ne è così consapevole da odiarsi. Ma Léo porta con sé una fragilità così profonda da renderla delicata come una goccia di vetro. Qualcosa le sfugge, qualcosa nel suo rapporto con Paul non funziona, forse è lei stessa a non funzionare. Léo è un'artista che deve scoprire l'Arte della Felicità.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Nda: Stavolta sarò breve, mi limiterò a ringraziare coloro che hanno recensito il precedente capitolo, mi avete caricata di coraggio per continuare a pubblicare <3 E di nuovo vi ricordo che il capitolo si trova anche su Wattpad. Se poi vi andasse, fate un salto sul mio blog personale, Gaiman in the T.A.R.D.I.S., l'ho aperto di recente. In più volevo comunicare che la storia, a partire da oggi, verrà aggiornata settimanalmente di lunedì. Baci baci.


Capitolo 2.

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Marie ed io consumammo una cassa di birra in solitaria, nel pomeriggio, e quando arrivammo alla festa eravamo già brille. Lei si aggrappava a Jeannot per stare in piedi.
L'appartamento di Max – un bellissimo attico nella Villette, che in realtà apparteneva ai suoi genitori – era così affollato che sarebbe stato un miracolo trovare Marie se l'avessi persa di vista. Alcuni degli invitati erano amici dell'università, molti dei quali avevano portato un partner o un amico, o entrambi, mentre di tutti gli altri non avrei saputo dire nemmeno il nome. Capii di non conoscere quasi nessuno dopo appena cinque minuti di osservazione.
La musica era quasi assordante, all'inizio: c'era un dj che aveva tutta l'aria di essere un tossico che metteva su dischi pop tenendoli ad un volume al limite della sopportazione umana. Fu Louise, la ragazza di Max, a chiedergli di abbassare i toni dopo le prime lamentele. Per la prima volta da che la conoscevo le fui grata per qualcosa.
Lui, Max, venne da noi per la prima volta dopo più di un'ora, con un sorriso smagliante e un bicchiere di vino bianco in mano.
«Eleonora, Marie!», esclamò. Sembrava alticcio e una ciocca di capelli era sfuggita al gel. «Ragazze, meno male che ce l'avete fatta a venire».
Marie gli sorrise e lo baciò sulle guance. «Max, lui è Jeannot, il mio ragazzo».
Il nostro Max era un tipo simpatico, che amava conoscere gente per il solo gusto di farlo. Certo, Louise lo teneva un po' al guinzaglio, ma la sua indole non poteva non prendere il sopravvento. Non avevo mai conosciuto qualcuno che organizzasse cene e feste più belle delle sue. Abbracciò Jeannot come se lo conoscesse da sempre, scarmigliandogli i capelli castani. «Benvenuto, amico, fai come fossi a casa tua».
Qualcuno, da qualche parte, chiamò il suo nome, così il nostro anfitrione ci salutò e ci lasciò da soli. Mi guardai intorno, in cerca di qualcuno che potesse darmi un bicchiere. Avrei voluto anche io presentargli il mio bellissimo e sciccosissimo fidanzato: lo avrei anche fatto, se solo il suddetto uomo si fosse presentato alla festa come mi aveva promesso.
E dire che Max, dopo aver saputo che sarei andata, mi aveva fatto arrivare un bel bigliettino: “Eleonora Gentilini +1”, dicevano le letterine dorate sul cartoncino rosso. Fanculo, il mio +1 aveva addotto un miserevole mal di testa e mi aveva chiesto di poter rimanere a casa.
«Era una scusa», dissi a Marie quando mi chiese spiegazioni. «Lo vedevo lontano un chilometro che non aveva affatto mal di testa».
«Quindi che fa?», domandò lei, ballonzolando a tempo di musica e stringendo convulsamente la mano di Jeannot. «Resta a casa da solo?».
«No», risposi con un'espressione imbronciata. «Ha telefonato a suo fratello, passeranno il capodanno insieme guardando film e bevendo birra. E dire che a lui piacciono, le feste! Perché non è venuto?».
La mia amica aggrottò la fronte, mettendo il broncio. «In effetti non se ne perde una. Però magari a capodanno voleva fare qualcos'altro».
«Beh, non è certo un mio problema», sbottai.
Jeannot, il dolce e cordiale Jeannot che sembrava così perfetto per Marie, mi strinse la spalla in un gesto amichevole. «Non ti preoccupare, Léo, vedrai che aveva dei buoni motivi».
Non ce la facevo ad essere scortese, non con quei due: nonostante fossi incazzata come una faina erano troppo stucchevoli ed altruisti per divenire oggetto di risposte brusche. Gli sorrisi con aria mesta. «Non dubito che avesse dei buoni motivi», risposi, «ma lo aveva promesso. Sai quante partite di calcio sono andata a vedere con lui, anche se non me ne fregava niente? Però lo avevo promesso e ci sono andata».
Mi faceva arrabbiare non ricevere lo stesso trattamento, anche se a ben pensarci era anche colpa mia: gli avevo dato troppo spazio e Paul si era abituato. Chissà, magari era genuinamente convinto che per me andasse bene così.
Sospirai, guardandomi intorno, e con sgomento mi resi conto che erano quasi tutte coppie quelle presenti al party. Figurarsi, quando si trattava di incontri tra single Paul era sempre in mezzo ai piedi ed ora che avevo bisogno che ci fosse era a casa sua.
Afferrai un bicchiere di spumante da un tavolino pieno di calici e tracannai il contenuto con stizza. I palloncini sparsi sul pavimento mi davano sui nervi, il vestito della sciacquetta bionda in fondo al salone mi dava sui nervi, gli occhiali anteguerra di Max mi davano sui nervi.
«Perché non cerchi di conoscere qualcuno?», propose Marie.
Mi rendevo conto di non essere una compagnia facile da sopportare e mai come in quel momento apprezzai la pazienza dei miei amici. Dovevo aprire la porta del mio bozzolo di sociopatia e fare uno sforzo. «Con chi?».
Mi indicò un gruppo di ragazze che parlavano animatamente vicino alla finestra. Sembravano allegre e tranquille, una di loro aveva l'aria simpatica e un'altra era così paffuta che provai per lei un istintivo senso di fiducia. «Con loro, magari. Fai nuove amicizie».

Stavo quasi per annuire, ma all'ultimo momento cambiai idea. Sembravano così affiatate e bellissime. Una di loro, quella con i capelli neri, aveva delle gambe così lunghe. Provai un'improvviso moto di terrore. Scossi il capo. «No, dai, avranno i fatti loro di cui parlare».
«E quel ragazzo?».
Mi indicò un tipo carino, non troppo alto e tuttavia nemmeno basso, con i capelli castani e un bicchiere di Coca Cola in mano. Si portò la bevanda alle labbra, buttò giù qualche sorso e all'improvviso fece una smorfia, strizzando gli occhi.
«Che tenero!», commentai con un sorriso materno. «Gli sono andate le bollicine nel naso!».
Non era il tipo di persona con cui sarei andata d'accordo, ammetto con una punta di vergogna che all'epoca tendevo a prendere un po' in giro i ragazzi come lui. Marie lo sapeva e scartò a sua volta l'idea.
Lasciammo vagare lo sguardo sugli invitati, cercando qualcuno quasi disperatamente. Non avevo la minima intenzione di importunare gli amanti – se dovevo fare il terzo incomodo, tanto valeva che lo facessi con Jeannot e Marie – né mi intrigava il pensiero di insinuarmi in un gruppetto di sconosciuti. Trovare qualcuno che fosse solo era praticamente impossibile.
«Lo sai», commentai dopo un istante, «avevo una gran voglia di venire qui. Non vedevo l'ora che arrivasse capodanno solo per questa festa. Ero eccitatissima».
«Ma...?».
Piegai le labbra in una smorfia infantile. «Ma Paul mi ha fatta infuriare ed ora vorrei solo andare a casa. Non lo farò, tranquilla», la anticipai. «No, io voglio divertirmi, davvero».
Il dj mise su un lento così lento che mi sentii una lepre in mezzo a tutte le coppiette che si muovevano come tartarughe. Guardai di sottecchi Jeannot: si vedeva a distanza che voleva ballare, che voleva portare la sua Marie in mezzo alla pista per sbattere in faccia a tutti la loro felicità.
«Hey», dissi all'improvviso. «Andate, coraggio, non dovete stare qui con me».
Marie scosse la testa. «No», replicò, categorica, «non ti lascio da sola».
«Figurati», mentii, esibendo un bel sorriso. «Sopravviverò. Sarò qui, quando tornerete, e se non ci sarò probabilmente mi troverete al tavolo del cibo».
Era un'altra bugia: ero così delusa e intristita che il solo ricordare l'esistenza del mio apparato digerente mi dava la nausea. Tuttavia Marie parve credermi, perché mi sorrise dolcemente e prese la mano di Jeannot, sparendo in mezzo alla gente.
Max aveva trasformato il salone in una vera pista da ballo, sgombrandolo di tutti i mobili. Rimanevano solo il tavolo del buffet, quello degli alcolici e le sedie lungo le pareti. In pochi secondi persi di vista i miei amici, fagocitati dai ballerini.
Presi un altro bicchiere, cercando di centellinarne il contenuto. Mi sentivo ridicola. Nel mio corto vestito blu elettrico pieno di paillettes, con i miei tacchi da dieci e la mia pochette, con l'aria annoiata e un po' triste mentre fissavo il vino, era come se il mio intero essere stesse gridando a gran voce: “Sono sola e patetica, aiutatemi! Cercasi compagnia disperatamente”.
In un lampo di genio particolarmente filosofico mi ritrovai a chiedermi se Eleonora Gentilini non fosse in realtà la ragazza di Paul Duval. Era lui a definirmi? Dissi a me stessa di no, ma allora come mai senza di lui non sapevo esattamente dove mettermi, in quella sala affollata? Se non avessi avuto il calice frizzante non avrei saputo nemmeno in che posizione tenere le mani. Non mi capitava di sentirmi tanto fuori posto da mesi e mi sarei strappata la faccia piuttosto che provare quella sensazione. Mi accorsi di avere un groppo in gola e gli occhi lucidi: alcool e rancore sono amici di lunga data. Non volevo piangere, chissà cosa avrebbero detto tutte quelle persone.
Stavo per dileguarmi verso il bagno per darmi una sistemata quando una voce alle mie spalle disse: «Ciao».
Mi voltai e vidi il ragazzo della Coca Cola nel naso. Non ci potevo credere: era quello il mio salvatore? Beh, era la prova che la vita ci sorprende sempre. Chiusi gli occhi per un momento, sperando che quando li avessi riaperti lui sarebbe come evaporato. Non accadde: era ancora lì, con un sorriso dolce e gli occhioni spalancati.
«Heylà», risposi.
Mi tese la mano. Con accento straniero annunciò: «Sono George Addison, vengo da Londra».
Per il fatto di essere britannico guadagnò parecchi punti. Cercai di figurarmelo al posto del principe Henry. Gli sorrisi, ma non gli strinsi la mano. «Eleonora Gentilini».
Lo ascoltai biascicare il mio nome in un disperato tentativo di pronunciarlo.
«Chiamami Léo», quasi lo supplicai.
«Sei italiana?».
“Però, che spirito di osservazione”. «Eh, già».
Non so cosa sperassi: forse stavo cercando di essere poco loquace per farlo scappare a gambe levate. Non che stessi facendo fatica, dato che non avevo la minima voglia di parlare. Mi dipinsi sul volto un'espressione di circostanza, quella che la gente assume quando non sa cosa dire. Lui continuò a guardarmi con occhi allegri.
Erano begli occhi: azzurri, chiarissimi, contornati da ciglia scure lunghe come quelle di una donna. Anche le labbra erano attraenti, piene e dall'aria morbida. I capelli, beh, probabilmente se li avesse pettinati prima di uscire non li avrebbe avuti così in disordine. Ora che lo avevo di fronte notai che era alto come lo ero io su quei tacchi. Non molto, considerando che con dieci centimetri di trampoli raggiungo a malapena il metro e settanta. Per essere un uomo era decisamente un tappetto.
Pensai che Paul lo avrebbe guardato dall'alto in basso con il suo metro e novantasei di bellezza.
Sembrava in attesa che dicessi qualcosa. Pensai in fretta. «E cosa ci fa un londinese a Parigi?».
«Mi sono trasferito dopo la laurea», spiegò. La sua voce aveva una nota sgradevole, qualcosa che non mi piaceva per niente, era troppo bassa. «Scienze della comunicazione».
«E che lavoro fai, George?».
«Sono uno youtuber».
Rimasi di stucco. «Youtuber», ripetei. «Ma è un lavoro vero?».
Temetti che si offendesse per la mia domanda – che in realtà era sorta spontanea. Invece scoppiò a ridere. «Sì, certo che è un lavoro vero».
La cosa si faceva sempre più sorprendente. «E ti... Ti pagano per questo?».
George annuì. «Con le visualizzazioni, sai».
Non potevo credere che qualcuno guadagnasse abbastanza da campare solamente caricando video su Youtube. Insomma, sapevo che c'era gente che faceva i soldi mettendo divertenti video di gattini e di neonati, ma chi poteva davvero definirlo un lavoro?
George poteva, lo capii dal suo sguardo tranquillo. Non me la sentii di dissentire, non con quel ciuffo ribelle che ammiccava sulla sua fronte e quell'aria da cucciolo. Preferii cambiare argomento, prima di dire qualcosa di troppo: non volevo davvero dargli un dispiacere.
«E così conosci Max».
Lui annuì e i suoi capelli ondeggiarono. «Ci siamo conosciuti quando è stato a Londra due anni fa», mi raccontò. «Faceva il cameriere per un'estate. Quando gli ho scritto dicendo che mi trasferivo si è offerto di farmi incontrare un po' di gente».
Gli sorrisi, pensando che parlava un ottimo francese, fatta eccezione per la pronuncia. «E sono come ti aspettavi, gli amici di Max?».
Si strinse nelle spalle. «Le ragazze sono così... Così...».
«Così chic?», suggerii.

«Così francesi».
Non so perché, ma quella battuta mi fece ridere. Rimasi quasi sorpresa dal suono che emise la mia gola: con Paul non ridevo mai molto.
Quello che mi stava attraversando la mente era un pensiero pericoloso: George era carino, con quei capelli carini, il suo maglione bianco e blu carino – chi avrebbe messo un maglione a una festa come quella? – e gli skinny jeans, carini anche quelli. Perfino la sua barba un po' troppo lunga era carina. Pensai che era meglio allontanarmi, prima di fare qualche cazzata. Stavo facendo fatica a non erigere sulla testa di Paul un paio di corna alte un metro. E poi lui era stato così stronzo, la comparsa di George non poteva capitare in un momento peggiore. Lo guardai di sottecchi.
Paul o no, George aveva un'aria così sperduta che anche solo baciarlo sarebbe stato come confonderlo ed illuderlo. Capiamoci, non ero certo la più bella tra le belle, lì dentro, ma facevo la mia figura e George non sembrava indifferente al mio abitino scollato e cortissimo, lo capivo dal modo in cui evitava accuratamente di guardare le mie gambe.
Era tutta colpa sua, santa pace, come si era permesso di farmi ridere?
Non sembrava voler demordere: tuttora non mi è chiaro come mai la gente si ostini a voler conversare. «Cosa fai nella vita?».
«Studio».
«Fantastico!», commentò con sorprendente entusiasmo. «Che cosa?».
“Porca puttana”, pensai, “perché si interessa a quello che faccio? Paul non si interessa mai”. Finsi tranquillità. «Storia dell'arte, alla Sorbona».
«Ah, wow, sembra troppo... come si dice...». Parve riflettere a lungo. «Insomma, cool, non so se mi segui». Mi regalò un sorriso così caldo da accigliarmi. «Io non sono mai stato un granché in storia dell'arte. Non ti offendere».
«Nessuna offesa».
Si passò una mano tra i riccioli scuri in un modo così infantile che quasi mi sciolsi. Quasi. «Come mai hai deciso di studiare arte?».
«Davvero ti interessa?».
Lui annuì ed io non seppi cosa dire, sul momento. Ero a una stramaledetta festa di capodanno, c'era gente che ballava al ritmo di Everybody dance now ed avevo una voglia matta di divertirmi e lui voleva parlare di arte?
Ero poco abituata: a parte Marie, con la quale condividevo il corso di laurea, a nessuno importava dell'arte tanto quanto importava a me. Paul non mi chiedeva mai cosa studiassi e quando gliene parlavo di mia iniziativa mi liquidava con un “Che dolce che sei”. Per di più erano un ambiente ed un momento così strano, per affrontare un discorso simile. Lui, però, sembrava interessato sul serio.
«Beh, è la mia passione da sempre», replicai. «Fin da piccola».
«Sei un'artista anche tu?».
Ridacchiai. «No, figurati. Mi piace dipingere, ma non sono affatto brava», risposi, «e poi non è un mestiere che paga molto».
«Potresti provare, tentar non nuoce».
«Non lo so...», commentai. «Io...».
George mi sfiorò la spalla con la mano. Notai che non era solito mangiarsi le unghie, proprio come Paul. Era una cosa che apprezzavo in un uomo. «Mi piacerebbe vedere un tuo quadro», disse annuendo. «Certo, non ne capisco poi molto, ma sarebbe davvero grandioso».
La cosa stava assumendo connotati inattesi. «Io non faccio mai vedere i miei lavori», dissi con determinazione, il tono deciso che non ammetteva repliche.
«Perché?».
Come potevo spiegargli che ero terrorizzata all'idea di sentirmi dire che i miei disegni facevano schifo? Era già abbastanza difficile ammetterlo con me stessa, con uno sconosciuto sarebbe stato anche peggio.
Non dipingevo nulla da anni. Dai tempi del liceo, quando ancora vivevo in Italia. Non mi sarei certo rimessa a farlo per quel bambolotto inglese.
Stavo per rispondere, quando Jeannot e Marie, entusiasti e un po' sudati, riemersero ridacchiando e saltellando dalla pista da ballo. Il sorriso che aveva la mia amica era così soddisfatto che per un attimo mi chiesi se non avesse avuto un orgasmo.
«Dio, dovevi vedere», esclamò Marie. «Jean e Nicole sono scivolati su una chiazza di aranciata sul pavimento e si sono trascinati dietro Louise nella caduta».
Ero incredibilmente grata per quel salvataggio inconsapevole. Bisognava che qualcuno mi distraesse dalle labbra invitanti di George. Ero al terzo bicchiere di vino, reduce da parecchia birra e non mangiavo nulla dall'ora di pranzo. Era già un miracolo che non fossi ancora sbronza: è uno stato d'animo molto difficile da gestire e se di fianco a te c'è un tenero e innocente George Addison...
«Accidenti, me lo sono perso», replicai, sforzandomi di provare entusiasmo.
Jeannot lanciò uno sguardo al mio nuovo amico. «Eleonora, non ci presenti?».
Avevo evitato di farlo, sperando che l'inglesotto si offendesse e si allontanasse. Ovviamente non ci ero riuscita. Finsi di essermene semplicemente dimenticata. «Oh, sì, scusate! Jeannot, Marie, lui è George Addison», declamai. «Un amico di Max».
Ci tenevo a puntualizzare che era Max, e non io, il tratto d'unione tra loro. Non so perché.
«Di che parlavate?».
Notai che George stava per rispondere. Mi affrettai a precederlo: «Nulla. Sciocchezze, del più e del meno».
Marie mi lanciò uno sguardo penetrante. Riuscivo a mentire a tutti, ma non a lei. Le risposi con un sorriso eloquente, come a dirle che ne avremmo parlato in seguito.
George, però, era ben deciso a farmi fare una figura di merda. «Léo mi stava dicendo che studia arte».
Jeannot commentò con pacata ed amichevole ironia: «Ah, siamo già a “Léo”, abbiamo saltato i convenevoli».
Sbattei le palpebre. “Hey”, avrei voluto dire, “sono qui, idioti, non parlate di me come se non ci fossi”.
Marie corse in mio aiuto: «Eleonora è difficile da pronunciare. Ricordi quanto ci abbiamo messo a impararlo?».
Non era affatto difficile per i dannati francesi, ma ringraziai mentalmente la mia amica per quel commento, impersonale quanto la sala d'attesa di un dentista. «Già», confermai. «George, perché non dici ai miei amici che lavoro fai?».
Non so perché volessi sputtanarlo. Dal mio punto di vista era una tentazione e in quanto tale andava fermato. Sì, decisamente mi sarebbe piaciuto vedere gli sguardi di muta disapprovazione di Marie e l'aria imbarazzata di Jeannot.
Ciò che ottenni, invece, fu un'ovazione.
«Deve essere interessantissimo», disse Jeannot. «Immagino che per fare video con un certo stile uno debba vedere il mondo e provare nuove esperienze».
George sorrise. «Sì, è vero».
«Oh, allora devo assolutamente mandarti un libro», aggiunse un'entusiasta Marie. «È un elenco di novantanove cose interessanti da fare a Parigi».
«Lo leggo molto volentieri», disse George, tracannando mezzo bicchiere di Coca Cola come fosse stato un flûte di Chardonnay. «Non vedo l'ora di provare tutto quello che si può».
Mi sentii presa in giro. Erano i miei amici e lui era una presenza scomoda. Avevo gli ormoni a mille, l'alcool nel cervello e male ai piedi per le scarpe: non chiedevo di meglio se non cadergli fra le braccia, farmi portare su un divano e spupazzarlo fino a morirne.
“Paul”, pensai. “Paul. Paul. Cazzo. Paul”.
All'improvviso, la musica cessò di martellare i nostri timpani con un grattare di dischi e un sibilo fastidioso annunciò a tutti che qualcuno aveva acceso il microfono. «Ok, gente», disse la voce di Max. Lo cercai con lo sguardo e lo individuai abbracciato a Louise, il volto arrossato e il tono un po' ubriaco. «Tra un minuto sarà mezzanotte. Pronti per il conto alla rovescia?».
Avevo bisogno di andarmene. Entro un minuto sarebbe iniziato il nuovo anno e Marie avrebbe iniziato ad abbracciare e baciare Jeannot, Max avrebbe sbaciucchiato Louise e tutti gli altri avrebbero fatto la stessa cosa. Alcuni si sarebbero perfino lanciati con la lingua nella bocca di uno sconosciuto.
Accanto a me, però, c'era solo George, non Paul.
Le luci si spensero e un coro di voci iniziò un conto alla rovescia stonato e allegro. Mi assicurai che lo sguardo di George fosse rivolto verso Max, approfittai del momento e mi dileguai. Nemmeno Marie mi notò mentre mi chiudevo in bagno.
Mi accasciai sul pavimento, la mano aggrappata alla maniglia, e mi presi il volto fra le mani. Era ora di andare a casa, avevo bevuto troppo e mangiato troppo poco. Mi consolai pensando che sarei andata a casa mia, nell'appartamento condiviso con altri studenti fuori sede, lontana da Paul, da George, da Marie, da tutti.
Ero sul punto di piangere. Perché Paul non era venuto con me? Era colpa sua se ero stata tentata da George, cazzo, non certo mia. Allora perché mi sentivo in colpa? E mi sentivo ancora peggio all'idea di aver lasciato quel tenero agnellino con un palmo di naso. Beh, quantomeno non avrei dovuto rivederlo mai più.
Un boato entusiasta investì l'intera abitazione: mezzanotte era arrivata. Buon anno, Eleonora. Mi rimisi in piedi, contando sulla confusione di quella specie di rave in cui si sarebbe trasformato il party ora che l'attesa era finita. Sentivo già la musica hardcore attraverso la porta chiusa.

   
 
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