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Autore: grenade_    10/02/2015    1 recensioni
Non avrebbe ancora saputo dirlo, ma era innamorato.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Harry non amava le feste. Certo, un pensiero insolito per un diciottenne, ma si trattava della pura verità. Odiava quegli ambienti stretti in cui in un modo o nell’altro finivi con lo scontrarti con una persona a destra, una a sinistra, e così via finché l’aria – già pesante – non diventava irrespirabile, ed eri costretto a farti spazio tra una decina di adolescenti ubriachi e in preda agli ormoni per raggiungere la porta principale e prendere finalmente una boccata d’aria sana, prima che cominciassi a trattenere il respiro così a lungo da rischiare un attacco cardiaco. Nel migliore dei casi, riuscivi a trovare un posticino tranquillo e silenzioso dove rifugiarti, ad attendere che i tuoi amici abbiano passato una delle “serate migliori della loro vita”, per poi fare da spalla quando avrebbero vomitato anche l’anima nel giardino sul retro, o peggio ancora sul tappeto pulito del bagno. Se le cose ti andavano di traverso, invece eri obbligato a passare preziosissime ore rinchiuso in un salotto sovraffollato, ad assistere agli eccessivi scambi di effusioni tra tuoi coetanei, che per qualche assurda ragione non sembravano cogliere la banalità di tutta quell’euforia. Era risaputo che la parola “festa” fosse solo un sinonimo di “bevo a spese degli altri e magari ci ricavo una scopata”, ed era senza dubbio qualcosa che gli adolescenti della sua stessa scuola o città adoravano, ma lui proprio non riusciva a capire cosa ci fosse di talmente emozionante nel bere come una spugna o ritrovarsi nel letto di uno sconosciuto il giorno dopo.
Lui era un ragazzo tranquillo, sua madre glielo ripeteva di continuo, con quella sottile nota di orgoglio che vorrebbe dire grazie al cielo, ho fatto un buon lavoro. Sin da piccolo aveva preferito riversare il suo entusiasmo in hobby più sani come la musica o la cucina, non aveva mai avuto ambizioni così folli tipo diventare astronauta o pilota di formula 1. E mentre i suoi amici delle elementari passavano i pomeriggi a inventarsi strani e pericolosi percorsi nel giardino di casa, e farsi puntualmente male in qualche punto del corpo, lui passava il suo tempo libero con le cuffie nelle orecchie, la chitarra tra le braccia e in cucina in compagnia della mamma, ad aiutarla a decorare i cupcakes. Col tempo però, quello che le parole ricche d’amore di una mamma avevano definito come “tranquillo”, era passato ad essere considerato “strano”.
Era strano quando a 7 anni non andava matto per i modellini d’auto, e non si fermava davanti alle vetrine dei negozi con lo sguardo ammaliato, a desiderare di possedere l’ultima novità.
Era strano quando a 12 anni non gli piacesse giocare ai videogiochi, né tantomeno sapesse giocarci. Quante volte era stato escluso dalle riunioni tra amici, perché perdeva di continuo ai match di wrestling?
Era strano quando a 15 anni non si inseriva mai nei discorsi dei suoi amici, che comprendevano quasi sempre le parole “tette”, “culo” o “sesso”. Né tantomeno guardasse le ragazze della sua scuola come oggetti da conquistare.
Era strano infine, quando a 18 anni preferiva di gran lunga starsene rinchiuso nella sua stanza in compagnia di un buon libro anziché andare ad una di quelle stupide feste, dove finiva per annoiarsi tutte le volte.
Forse sarebbe stato etichettato come “strano” all’infinito, ma poco gli importava.
Avrebbe volentieri continuato ad evitare qualsiasi cosa sentisse inadatta a sé stesso, ed era certo sarebbe andato bene così. Non aveva bisogno di fingere di essere qualcun altro solo per piacere e farsi accettare da teste vuote quali erano i suoi compagni, né tantomeno provare ad essere entusiasta per qualcosa che non lo interessava minimamente. Aveva il suo mondo, il suo innocente mondo, composto da tonnellate di cd, la sua chitarra, libri, e le dolci parole della mamma, che lo rassicuravano che infondo quello strano non era lui, ma solo ciò che lo circondava.
E avrebbe mantenuto quel suo equilibrio anche quella sera, se solo Niall non lo avesse quasi supplicato di accompagnarlo. Ho bisogno del mio migliore amico, lo aveva pregato. Ho bisogno che qualcuno rimanga al mio fianco, aveva aggiunto. Ho bisogno di scoprire se posso piacerle, e poi ci divertiremo.
Harry non aveva creduto neppure per un istante che si sarebbe divertito. Anzi pensava che la serata sarebbe trascorsa come al solito, accantonato in un angolo a sperare che prima o poi tutti quanti si sarebbero stancati di bere, ballare, pomiciare, vomitare. Ed è quello che pensava anche in quell’esatto momento, dato che non aveva notizie di Niall da una buon’ora.
Aveva provato a cercarlo dopo i primi quindici minuti, ma si era detto che il suo migliore amico non era il tipo da costringerlo ad accompagnarlo da qualche parte e poi lasciarlo in solitudine per i suoi affari. Questo portava all’ovvia conclusione che fosse impegnato a fare qualcos’altro, magari con quella biondina per la quale aveva speso le sue giornate scolastiche nel solo scopo di guardarla da lontano con lo sguardo da pesce lesso. Ed Harry sapeva che nel caso avesse avuto ragione, Niall non gli avrebbe mai perdonato quella interruzione brusca solo perché soffriva di un po’ di solitudine.
Sbuffò ancora, e abbandonò la schiena contro la poltrona in pelle, lasciandosi abbandonare nei suoi stessi pensieri. Spostò giusto per un secondo lo sguardo sul bicchiere ancora per metà pieno che teneva nella mano destra, nonostante si dondolasse il drink tra le dita ormai da mezz’ora. Aveva chiesto al ragazzo moro e robusto che stava in cucina dell’acqua, ma non era sicuro che lo fosse davvero. Probabilmente si trattava di vodka, e preferiva andarci piano con certe bevande, se non voleva aggiungersi alla massa di ragazzi che stavano in fila per il bagno, se per pisciare o per vomitare.
Decise che la scelta più saggia sarebbe stata posare il bicchiere e andare a cercare finalmente il suo migliore amico, quando scoprì che era già mezzanotte inoltrata. Maura avrebbe finito col perdere la fiducia che riponeva in lui, se avesse perso di vista suo figlio. D’altronde sapeva che, nonostante fosse di un anno più grande, Niall non era da considerarsi il più maturo tra i due.
Comunque, era parecchio indeciso sul da farsi. Non voleva contribuire a peggiorare l’immagine di Niall come adolescente immaturo, ma non era nemmeno così sicuro di volere andare a cercarlo così, senza meta precisa, con l’ulteriore preoccupazione di stare interrompendo qualcosa di importante.
Si limitò a sospirare, e a riportare il bicchiere alla bocca, per ingurgitare il resto della bevanda. Per quella sera, Niall avrebbe potuto cavarsela benissimo senza di lui.
La musica nell’abitacolo continuava a rimbombare contro le pareti e l’aria si appesantiva, e nemmeno due dita premute contro le tempie riuscivano a placare il crescente mal di testa. Harry si guardò intorno, a scrutare la stanza per cercare un’eventuale via di uscita. Individuò così una porta in vetro nascosta dalle tende color crema, e senza chiedersi cosa avrebbe potuto trovare oltre, si alzò per raggiungerla. Dovette scansare  alcuni ragazzi e qualche coppietta, ma si avvicinò alla maniglia in legno e la tirò verso il basso, addentrandosi in quello che sembrava un balcone o una terrazza, vista l’aria leggermente più fredda che Harry cominciava ad avvertire sulle braccia scoperte. Diede una veloce occhiata intorno a sé e la ringhiera adesso visibile confermò la sua teoria sulla natura del posto. Era rincuorato che qui ci fossero giusto due o tre persone, impegnate per lo più a chiacchierare tra loro per donargli attenzioni, e si richiuse la porta alle spalle.
Per un attimo si lasciò riempire i polmoni d’aria, rilasciando finalmente quella impregnata d’alcool e sudore da cui era stato circondato sino ad allora, ed abbozzò un piccolo sorriso. Tuttavia, non avrebbe saputo dove andare. Davanti a lui si estendeva un giardino oscurato, al quale sarebbe stato possibile accedere tramite dei gradini a destra del soppalco. Ma lui non amava il buio, e non si sarebbe di certo inoltrato lì dentro. Invece fece qualche passo in avanti, e curvò la schiena, incrociando le braccia sulla ringhiera in metallo per appoggiarsi. 
Ne approfittò per dare un’occhiata intorno. Nonostante la fioca luce, era possibile individuare una coppia parlottare nella sua lontana destra, appoggiati alla parete in mattonelle beige. Una ragazza continuava a fare avanti e indietro sull’erba, sembrava impegnata in una telefonata.
E poi lo notò. Una figura seduta contro la parete, i piedi che affondavano sull’erba. Precisamente, un ragazzo non troppo alto, con una lunga frangia di capelli mori che coprivano maggior parte del suo viso. Teneva le ginocchia piegate e le braccia poggiate mollemente sulle ginocchia, lo sguardo rivolto verso il basso. Sembrava non spostarsi di un millimetro, e Harry sgranò gli occhi in una nota di preoccupazione – perché non si muove?.
Solitariamente non parlava mai con gli sconosciuti, ma quel ragazzo aveva qualcosa di strano. Decise che se mai avesse potuto fare qualcosa l’avrebbe fatto, e discese i gradini per raggiungere il giardino, camminando fino a fermarsi giusto qualche centimetro lontano dal ragazzo. Quello dovette avvertire la sua presenza o notare l’ombra sull’erba, perché alzò prontamente gli occhi azzurri su di lui, e incurvò il sopracciglio in un’espressione confusa. Non sembrava star male, quindi le teorie di Harry si erano rivelate errate, come vano si era rivelato il suo eroico gesto di aiuto.
Si sentì avvampare a causa di quel contatto. Era come se l’azzurro degli occhi del ragazzo si immergesse nel suo verde, e sebbene si trattasse di un emerito sconosciuto, Harry era in imbarazzo.
Il ragazzo mantenne il contatto visivo per qualche secondo, e poi parlò. «Hai bisogno di qualcosa?» mormorò, col tono di voce incerto di chi si trova davanti uno sconosciuto a fissarlo preoccupato. Fece vagare lo sguardo su di Harry, come ad effettuare una strana radiografia, e tornò poi a puntarlo sui suoi occhi. Aspettava una risposta.
«Io…» cominciò a balbettare, le guance più rosate del solito e lo sguardo adesso rivolto verso un punto indefinito, pur di non incrociare i suoi occhi. Si grattava la nuca in imbarazzo, e tirò un lungo respiro, prima di scuotere la testa, fingendo un certo contegno. «Ti ho scambiato per qualcun’altro.» mentì.
Il ragazzo sotto di lui continuava a fissarlo incuriosito, ma sembrò sorridere. «Per chi mi avresti scambiato?»
«Per il mio migliore amico» rispose, frettoloso. «Non lo vedo da un’oretta» aggiunse, lasciandosi andare anche a lui a un sorriso divertito di circostanza. Infondo non stava mentendo poi così tanto.
Quello annuì, tornando a rivolgere lo sguardo al suolo, con chissà quali pensieri a passargli per la testa. Poi improvvisamente sembrò ricordarsi della presenza di Harry, e rialzò lo sguardo su di lui.
«Puoi restare qui con me, se ti va.»
Gli occhi di Harry slittarono velocemente dal viso del ragazzo al posto libero sull’erba accanto a lui, e si concesse qualche secondo per riflettere. E’ uno sconosciuto.
Il ragazzo dagli occhi azzurri dovette capire la sua esitazione, perché si aprì in un largo sorriso e cominciò a battere la mano sull’erba alla sua destra, con aria amichevole.
Per qualche strana ragione, Harry ricambiò quel sorriso. E cosa altrettanto strana, si calò in basso a sedersi sull’erba, le ginocchia piegate, il viso rivolto a sinistra. Adesso che quel viso era a pochi centimetri dal suo, quegli occhi azzurri  sembravano quasi brillare.
«Io sono Louis.» proruppe, tendendo la mano destra.
Esitò per un momento, ma si aprì in un dolce sorriso. «Harry.» 


Quella sera la tv era la più inutile e noiosa fonte di distrazione. Harry continuava a fare zapping tra i canali del televisore satellitare del quale sua sorella Gemma era così gelosa, ma niente aveva attirato la sua attenzione da convincerlo a rimanere su quel canale più di qualche secondo. Se ne stava stravaccato sul divano, le gambe fin troppo lunghe per rientrare nella lunghezza dei due posti, e la testa schiacciata contro un soffice cuscino con dei fiorellini azzurri ricamati, a sbuffare annoiato ogni qualvolta l’ennesimo programma non riusciva a soddisfare il suo interesse.
Non aveva fatto granché, quella mattina. Non faceva mai granché, durante il periodo estivo. Certo, gli piaceva starsene rintanato in camera ad ascoltare gli stessi album musicali innumerevoli volte – trovava sempre qualcosa di nuovo: un verso specifico di una canzone, l’intonazione del cantante, l’intensità con cui gli strumenti accompagnavano la melodia – o a leggere un libro, ma finiva quasi sempre con l’addormentarsi col sottofondo musicale, o le dita diventavano così sudate che l’idea di sfogliare pagine non gli sembrava così più allettante.
Faceva un gran caldo. Piuttosto strano per una città britannica, e Harry non avrebbe saputo dire se quell’aria afosa fosse un bene oppure no. Era rilassante uscire di casa e godersi il cielo azzurro, l’erba verde, ed osservare la miriade di persone che si riversava sulle strade sorridente, quasi solo l’avvento dell’estate potesse instaurare il buonumore comune. Tuttavia non importava dove ti trovassi, finivi comunque per trasformarti in una pozza di sudore vivente, specialmente per chi come Harry preferiva passare i suoi pomeriggi in casa a differenza degli altri.
Quell’aria non fruttava granché al suo studio, questo era chiaro. E lui aveva proprio bisogno di concentrarsi e studiare, nella più completa tranquillità, per l’imminente esame di letteratura inglese.
Si trattava dell’ultimo esame, quello che gli avrebbe permesso finalmente di abbandonare gli studi e laurearsi. Aveva scelto di tenere letteratura inglese come ultimo esame non perché si sentisse insicuro sulla materia, ma semplicemente perché era quella che più gli piaceva. Il professor Barnes lo ripeteva di continuo, studiare è più facile quando ami ciò che studi. E’ così che invogliava i suoi studenti ad impegnarsi giorno dopo giorno, nella speranza che almeno qualcuno di loro sarebbe arrivato a cogliere quel suo insegnamento. E sebbene la maggior parte continuasse a frequentare le lezioni con disinteresse o spinti dal dovere, Harry rientrava in quella cerchia ristretta che non solo otteneva i voti più alti, ma provava un senso di attrazione verso quelle lettere classiche. Era interessante scoprire i modi di scrivere del tempo passato, chi aveva segnato la storia della letteratura e in quale modo, con quale intensità, con quale passione. Ognuno degli scrittori che aveva studiato possedeva una diversa maniera di scrivere, una diversa tecnica di narrazione, semplicemente un diverso modo di pensare. Ognuno di loro aveva subito una chiara influenza dall’ambiente che li circondava, ed era curioso come quei tratti potessero essere trovati nelle opere di quelli, ciascuna che aveva avuto effetti differenti sul mondo di allora, e sul mondo attuale.
Harry cercava di trarre più insegnamento possibile, eseguendo in perfetto orario i compiti assegnati dal professore, e incrementando le sue conoscenze con libri attinenti, fascicoli, ricerche. E tutto questo nella più completa autonomia, senza che nessuno lo obbligasse. Trovava quella materia affascinante, ed era abbastanza sicuro che il suo esame basato su Thomas Hardy avrebbe fatto la sua meritata figura davanti alla commissione, garantendogli l’ultimo buon voto che necessitava per raggiungere il traguardo della laurea. Gli sarebbe piaciuto diventare scrittore, confrontarsi così con gli artisti di quel tempo, o sarebbe stato felice di trasmettere le sue conoscenze in una scuola, animato dal desiderio di tramandare l’insegnamento più importante che il suo professore gli aveva donato, oltre alle innumerevoli nozioni che sentiva di conoscere quasi a memoria.
Diventare insegnante non era poi una così cattiva idea. Avrebbe messo alla prova le sue conoscenze e le sue abilità di socializzazione, rapportandosi a ragazzini che probabilmente gli avrebbero dato del filo da torcere, ma ne sarebbe valsa la pena. E poi, anche nel peggiore dei casi, avrebbe sempre avuto Louis.
Un tenero sorriso andò ad incorniciargli il volto quando si ritrovò ad affrontare quel pensiero, e le fossette gli incavarono le guance, finalmente poté concentrare la sua mente su un argomento che fosse ben differente dai programmi demenziali in televisione e dai suoi studi universitari.
Da quello strano incontro alla festa di Thompson, il ragazzo dagli occhi azzurri non l’aveva mai abbandonato. Quella stessa sera era stato lui ad accompagnarlo a casa, e a donargli un ultimo sorriso prima di dargli la buonanotte. Il giorno dopo, forse per qualche strano segno del destino, Harry aveva sbattuto contro qualcosa nel corridoio principale del loro liceo, e si era sentito mancare quando aveva incrociato ancora quegli occhi. Lo aveva deciso la sera prima, non c’era niente di più bello di quel paio di occhi.
Da quel giorno, non si erano più staccati. Come due calamite, avevano cominciato a passare giornate scolastiche e pomeriggi insieme. Louis aveva scoperto quanto Harry fosse impedito in ogni sorta di videogame, ed Harry aveva iniziato a riscrivere il suo diario, inondandolo di frasi smielate e note di felicità.
Non avrebbe ancora saputo dirlo, ma era innamorato.
Innamorato del modo in cui Louis  curvava gli angoli della bocca in uno dei sorrisi più dolci che avesse mai visto, come rideva sguaiatamente al suo ennesimo errore in campo di videogames, e come gli accarezzava il viso con la punta delle dita, quasi temesse di infrangere la pelle rosea.
Innamorato del modo in cui assottigliava gli occhi azzurri quando non capiva qualcosa, o come sporgeva il labbro inferiore nel tentativo di addolcirlo. Come fosse sempre lui quello a finire tutti i popcorn quando andavano al cinema, e a parlare durante l’intera durata del film, o stringere la sua mano quando non voleva ammettere di avere paura. E infine come aveva sfiorato le sue labbra con delicatezza e premura, dopo aver deciso che un semplice buonanotte non poteva bastare per quella sera.
Era innamorato. Lo aveva capito da molto, ma risvegliarsi quella mattina di febbraio nello stesso letto aveva di gran lunga confermato la sua teoria.  Buon compleanno, piccolo aveva mormorato ancora assonnato, e lui avrebbe voluto registrare quel momento: il corpo di Louis più piccolo addossato al suo, le braccia avvolte attorno al suo busto e le gambe ad impedirgli qualsiasi tentativo di fuga; il viso rilassato sul suo petto, gli occhi azzurri ad osservarlo e le labbra incurvate in un sorriso.
Era perdutamente innamorato di quel ragazzo, e più il tempo passava più si convinceva che volesse tenerlo al suo fianco a tutti i costi. Era diventato qualcosa di così naturale che pensare che un giorno avrebbe finito col dover fare a meno di lui sembrava assurdo. Non voleva assolutamente fare a meno di Louis, ed era disposto a tutto pur di continuare ad averlo nella sua vita, come punto centrale delle sue giornate. L’unica persona per la quale valesse sorridere, anche quando senti che il mondo ti sta crollando addosso.
Il sorriso non aveva smesso di illuminargli il viso mentre si lasciava andare ai pensieri su Louis, e solo allora si rese conto di quanto gli mancasse. Nell’ultimo periodo, tra i suoi studi assillanti e gli allenamenti di calcio di lui, avevano occasione di vedersi poche volte alla settimana e per poco tempo. Entrambi troppo impegnati per concedersi quelle attenzioni di cui necessitavano, e di cui sentivano la mancanza.
Louis gli mancava. Proprio in quel momento, avrebbe voluto starsene disteso col suo ragazzo in qualche bel parco, ad osservare la comica scena del gelato che finiva per colargli ogni volta lungo la maglietta. Non gli piaceva starsene da solo rinchiuso in casa a far niente, se non in compagnia di Louis.
Improvvisamente però, qualcosa gli balenò in testa. Perché starsene in casa a rimuginare, quando avrebbe potuto raggiungere il suo ragazzo? Il campo di calcio non era poi così lontano, e avrebbe potuto raggiungerlo in minuti.
Entusiasta dell’idea di poter baciare nuovamente il suo ragazzo, balzò giù dal divano con un enorme sorriso in viso. A piedi scalzi raggiunse la sua stanza, per disfarsi del pigiama e indossare qualcosa di più consono. Optò per un paio di jeans ed una camicia, indossò gli stivaletti e corse in bagno, a domare l’ammasso di capelli. Non impiegò molto tempo, e in pochi minuti era già in strada, col sole estivo a battergli in pieno viso. Forse portare degli occhiali da sole sarebbe stato meglio.
Era stato poche volte al campo di calcio, e quasi tutte era stato Louis a costringerlo ad andarci. Per sostegno morale tentava di convincerlo, come se non riuscisse ad essere il miglior attaccante della squadra anche senza il suo “sostegno morale”. Però a Harry piaceva stare lì ad osservarlo muoversi in campo, fare qualcosa che amava fare, e finiva così per trasformarsi in una specie di cheerleader, che teneva gli occhi fissi su di lui per tutti i novanta minuti, e saltava in preda all’entusiasmo ad ogni goal. Era arrossito, quando Louis aveva spostato qualche volta lo sguardo su di lui dopo aver segnato: un tacito e segreto contatto che stava a significare questo è per te. E anche se il calcio non gli piaceva né fosse riuscito a capirne il meccanismo esatto dopo anni, stare lì per Louis era più che piacevole.
Quella volta il campo era molto più vuoto rispetto al solito. Erano semplici allenamenti, non c’era bisogno che tutti quanti vi assistettero. E ovviamente Harry ne costituiva un’eccezione.
Raggiunse una delle tribune laterali e prese posto tra i sedili più alti, così che potesse osservare il suo ragazzo senza essere notato. Aguzzò lo sguardo davanti a sé, e lo individuò: il capitano della squadra stava effettuando un dribbling con un suo avversario, e si muoveva velocemente. Ma Harry riusciva a distinguere il numero 17 e la scritta TOMLINSON ancora perfettamente, anche se non lo avrebbe mai perso nemmeno tra diecimila.
Osservò il tabellone: 84esimo minuto. La partita stava per terminare, perciò avrebbe presto potuto riabbracciarlo. Seguì gli ultimi minuti con attenzione, senza mai distogliere lo sguardo da Louis, e dovette trattenersi dallo scattare in piedi ed esultare quando andò in porta, segnando il goal decisivo. Si limitò a sfoderare un largo sorriso, cercando di nascondere gli stessi moti di entusiasmo che aveva riscontrato nell’attaccante, rincuorandosi che presto avrebbe potuto saltargli addosso e riempirlo di baci.
Il fischio dell’arbitro segnò la fine della partita amichevole, e tutti i calciatori in campo cominciarono a correre verso l’interno della struttura, agli spogliatoi. Harry seguì Louis finché non scomparve all’interno, dove non osava inoltrarsi. Gli era successo una volta, e si era ritrovato in mezzo ad almeno una quindicina di ragazzi nudi o seminudi, che gli avevano riservato occhiate infastidite o maliziose. Naturalmente, Louis gli aveva severamente vietato di farlo un’altra volta.
Per quel motivo, ritenne più saggio appostarsi all’esterno della struttura e aspettare che fosse Louis ad andargli incontro. Aspettò quindi fuori per svariati minuti, e man mano che tutti i ragazzi uscivano, si sentiva euforico al pensiero che avrebbe rivisto il suo ragazzo.
Li contò. Dieci ragazzi erano usciti dall’abitacolo, così adesso ne rimaneva soltanto uno. Ovviamente, non poteva trattarsi che di Louis. Si parò quindi davanti alla porta lasciata aperta e fece qualche passo nella stanza, stando attento al pavimento reso bagnato dal vai e vieni dalle docce. Svoltò superando alcuni degli armadietti, e finalmente lo vide. Ma per qualche ragione, il suo sorriso divenne presto un’espressione seria e immobile.
Doveva aver fatto male i suoi calcoli, perché Louis non era l’unico in quello spogliatoio. No, c’era un altro ragazzo con lui. E adesso lo stava abbracciando, le labbra premute contro la guancia del suo Louis.
E lui sorrideva. Lo stesso sorriso che riservava ad Harry stesso, adesso era dedicato a quello che Harry considerava uno sconosciuto.
Improvvisamente, non ebbe più voglia di rivederlo. Quel desiderio di riabbracciarlo che gli aveva attanagliato lo stomaco per l’intera durata di quel pomeriggio era svanito. Tutto quello che avrebbe voluto fare ora era tornare nella solitudine della sua stanza, e piangere.


Un ennesimo sbuffo irato si diffuse nell’abitacolo della stanza, ed Harry dovette mordersi l’interno della guancia un’altra volta per trattenersi dal ridere. Da svariati minuti sua sorella Gemma faceva la trottola da una stanza all’altra in preda al nervosismo, nonostante camminare fosse un’impresa ben ardua visti i vertiginosi tacchi che portava ai piedi. Eppure pareva non sentire alcun tipo dolore mentre camminava freneticamente sul parquet, sistemandosi le pieghe del vestito di tanto in tanto e col telefono fisso all’orecchio, ad inveire contro chissà chi.
Scosse la testa e un piccolo sorriso gli decorò il viso, e il suo sguardo andò a finire inevitabilmente verso il basso, alle punte lucide delle elegantissime scarpe. Batté i piedi un paio di volte, divertendosi nell’udire il leggero ticchettio delle suole sul pavimento, e allargò il sorriso in una risatina, nonostante si sentisse un po’ infantile in quel gesto. Ma non poteva fare a meno di sfoderare un enorme sorriso e comportarsi come fosse la persona più felice al mondo, perché lo era.
Continuò a giocherellare coi piedi, fin quando non prestò attenzione al riflesso nello specchio, che dava una perfetta immagine del suo pantalone nero. E mentre il suo sguardo saliva, si imbatté nella camicia di un bianco candido ancora sbottonata verso la parte superiore, e sul tessuto nero della cravatta abbandonata sulle spalle dai due lati. Osservò con attenzione le rifiniture sul colletto della camicia, e scese verso i polsini ancora slacciati, andando poi a concentrarsi sull’immagine del proprio viso.
Chiunque l’avesse visto dall’esterno avrebbe detto che non c’era granché nulla di diverso, se non alcuni piccoli dettagli che solo lui e qualche altra persona sarebbero stati in grado di notare. I suoi capelli, come primo punto della lista: non si trattava più della solita massa informe e indefinita che era solito portare, ma erano stati sistemati ordinatamente e con cura dalle mani di sua sorella Gemma. Aveva impiegato un bel po’ di tempo per riuscire nel suo scopo e non l’aveva fatto con il massimo dell’approvazione, visto il diniego assoluto che Harry aveva espresso riguardo la lunghezza dei suoi capelli. Nonostante le proteste di sua sorella, si era fatto valere ed era stato irremovibile: l’incontro dal parrucchiere era da considerarsi annullato. D’altronde i suoi capelli piacevano a lui e non solo, e tagliarli avrebbe significato rinunciare alle tenere carezze di Louis sul divano. Era chiaro che mai e poi mai avrebbe potuto acconsentire.
Ma c’era da riconoscerlo: Gemma ci sapeva fare. Quando in seguito alla grande notizia si era autoproclamata organizzatrice ufficiale dell’evento, Harry aveva avuto i suoi dubbi. Non era sicuro che sua sorella potesse essere davvero capace di far fronte a così tante responsabilità ed eventuali problemi, e aveva insistito a lungo affinché abbandonasse l’incarico. Ma come suo fratello Gemma non si era mostrata insicura di sé stessa e delle sue capacità nemmeno per un momento, e si era data da fare dal primo giorno, prendendo questo nuovo compito come un’emozionante avventura. Era questo ciò che più gli piaceva della sua sorellina: la positività.
Alla fine, aveva dovuto rimangiare le sue parole: l’organizzazione dell’evento sembrava procedere a gonfie vele, Gemma era più radiosa e positiva che mai nonostante le diverse telefonate al telefono, ed era persino riuscita a procurare al suo testardo fratellino un taglio di capelli degno di un parrucchiere professionista. Si era occupata di tutto: cerimonia, ricevimento, decorazioni, catering e animazione. Nei suoi improvvisati panni di wedding planner, aveva svolto gran parte del suo lavoro con successo, e sembrava andarne estremamente fiera.
Cominciò a guardarsi attorno. Almeno una decina di persone stavano nella sua stessa stanza, tutte indaffarate in modi diversi: chi correva da una stanza all’altra, chi definiva gli ultimi ritocchi, chi sistemava l’attrezzatura da fotografia, e chi gli si avvicinava ogni tanto a chiedere conferma per una luce, un’angolazione, una disposizione, o semplicemente gli rivolgeva un tenero sorriso, che tanto somigliava al suo quella mattina.
Il suo sorriso, ne era certo, sarebbe stato impossibile non notarlo. Sembrava quasi che il verde dei suoi occhi brillasse in preda all’euforia, e i gesti nervosi delle sue mani e dei suoi piedi volessero trattenere l’istinto di urlare.
Conoscete l’espressione “settimo cielo”? La si associa di solito a un sentimento di estrema gioia, felicità. Quel giorno, Harry l’avrebbe definita con un’unica parola: leggerezza. Nonostante il movimento tutt’attorno, lui si sentiva immobile e totalmente perso in una sensazione di contemplazione. Niente pesava in quella giornata; lui stesso si sentiva leggero, libero da ogni pensiero, felice. Aveva deciso di passare quella giornata nel migliore dei modi, ed era intenzionato a portare a fine quel suo intento: niente sarebbe pesato più dei suoi sentimenti, quel giorno.
C’era solo un unico pensiero che riusciva a torturare ugualmente la sua bolla di positività, e non poteva trattarsi d’altri che la persona che si trovava a poco più di due chilometri da lui, e che avrebbe rivisto sull’altare tra un’ora.
Tornò a fissare il suo riflesso nello specchio, e non poté fare a meno di immaginare Louis nella sua stessa situazione, solo visto in un’angolazione differente. Racchiuso come un perfetto damerino nello smoking da sposo, lo immaginava iperattivo, nervoso, incapace di stare nelle sue stesse scarpe. In una serie continua di sbuffi, e mentre chiudeva le palpebre e si lasciava andare ad un lungo sospiro, nel tentativo di tranquillizzarsi. Probabilmente stava dando di matto al solo pensiero che qualcosa potesse andare storto, e continuava a stressare i componenti dello staff affinché svolgessero il loro lavoro nella maniera più meticolosa possibile.
Sollevò gli angoli delle labbra in un piccolo sorriso, immaginando gli addetti alla disposizione dei fiori alzare gli occhi al cielo e trattenersi dall’imprecare per le continue lamentele.
E alcune lacrime caddero ad inumidirgli le guance, senza che nemmeno lui se ne accorgesse. Una delle assistenti del fotografo andò in suo soccorso a chiedergli il perché di quelle lacrime, ma lui sorrise soltanto, senza dare spiegazioni. Probabilmente l’unica spiegazione si trovava in quel suo stesso sorriso, e nei suoi occhi. I suoi occhi, lucidi e adesso leggermente arrossati, ma più luminosi che mai.
Stava davvero compiendo quel passo? Anni addietro, non avrebbe mai potuto immaginare che si sarebbe trovato in una situazione del genere. Ma adesso ne era sicuro, era pronto per questo.
Era pronto ad ammirare il suo riflesso tirato a lucido nello specchio.
Era pronto alla sensazione di quello strano mix di gioia, nervosismo, felicità, paura ed euforia.
Era pronto a percorrere la navata mano nella mano con la persona più importante della sua vita.
Era pronto a recitare il fatidico “sì” che l’avrebbe legato a quella per tutta la vita.
Ed era pronto a passare il resto della sua vita insieme a Louis, l’unica persona con la quale avrebbe comunque voluto condividere quelle emozioni. L’unica della quale si fidasse ciecamente e sulla quale sapeva di poter sempre fare affidamento, perché mai l’avrebbe abbandonato. L’unica persona che sentiva di amare completamente e sinceramente con ogni minima parte del suo cuore, e che mai avrebbe lasciato andare.
Quando sua sorella fece capolino nella stanza, Harry si passò frettolosamente il palmo della mano destra sugli occhi,  nella speranza che avrebbe potuto nascondere quel piccolo momento di debolezza emotiva. Invece la donna, straordinariamente elegante nel suo vestito color pesca, curvò le labbra in un lieve sorriso e fece qualche passo avanti, arrivandogli alle spalle e posando le mani morbide su di esse, ora che entrambi osservavano la loro immagine riflessa nello specchio.
«Ci siamo, fratellino…»
Allargò il proprio sorriso a quelle parole e andò a ricongiungere la sua mano con quella posata sulla sua spalla, e la strinse. «Andiamo» mormorò, permettendosi adesso di rifugiarsi nei dolci occhi di Gemma.
La donna ricambiò quel suo sorriso e rafforzò la stretta, incastrando le dita con le sue. Ed Harry abbandonò la stanza con la consapevolezza che non avrebbe mai più rivisto quella camera da letto.
Insieme uscirono dalla casa e raggiunsero l’auto, dove Anne ne approfittò per stritolare ancora una volta suo figlio. Si fermarono davanti alla chiesa appena undici minuti dopo, al cui ingresso se ne stavano alcune persone, nonostante la maggior parte si trovasse presumibilmente all’interno.
Un uomo se ne stava invece di spalle, così che Harry non avrebbe saputo incrociare il suo sguardo. Ma non ne aveva bisogno, sapeva benissimo chi fosse.
Poi quello si voltò a guardarlo. Ed Harry poté finalmente ritrovare quel sentimento di appartenenza che li legava inevitabilmente e che li stava portando all’altare, contro ogni stupida convenzione o morale.
Gli si avvicinò mentre Anne e Gemma correvano a prendere posto all’interno della chiesa, e notò una piccola lacrima rigargli il volto. Gli occhi azzurri erano lucidi, ma il suo sorriso suggeriva una nota di gioia che lui sentiva di condividere appieno.
Fece scivolare la mano a raggiungere la sua, e incatenò adesso le dita alle sue, in una stretta rassicurante.
«Pronto?»
Louis lasciò scendere lo sguardo ad osservare le loro mani giunte. Quando tornò a guardarlo, sorrideva.
«Pronto.»


Si lasciò andare ad un sospiro esausto, abbandonandosi sulla panchina in legno. Per la prima volta nell’arco di quattro ore aveva finalmente trovato un momento per sedersi e rilassarsi, senza che ci fosse nessuno a saltargli intorno e a tirarlo verso qualche ennesimo capriccio, senza mai dargli un attimo di tregua.
Aveva passato l’intero pomeriggio così, trotterellando da una parte all’altra della  città, vittima dell’aria estiva e del tono lamentoso della bambina. Non si erano fermati mai un momento a prendere un respiro di sollievo, e Rosie non sembrava averne il benché minimo bisogno. Correva euforica da una parte all’altra trascinando i suoi due papà con le manine paffute, e li accusava di comportarsi come vecchietti, quando uno di loro chiedeva un momento per riposarsi.
Harry e Louis avevano dovuto così accompagnarla al centro commerciale, al cinema, al luna-park e adesso al parco giochi, dove le avevano promesso un enorme gelato alla fragola, a patto che li lasciasse riposare almeno un paio di minuti.
E così adesso lui se ne stava tranquillamente seduto a rilassarsi, mentre Louis era sparito insieme alla bambina alla ricerca di un chiosco dove poter accontentare quello che sperava fosse il suo ultimo desiderio della giornata.
Abbandonò la testa contro la spalliera e si concesse di chiudere gli occhi, inspirare. Rilassò le palpebre e poi espirò, mentre congiungeva le mani sull’addome. Quando aprì gli occhi, il suo sguardo era puntato sul cielo rosato di quel pomeriggio.
Doveva stare per tramontare, perché il cielo si era colorato di  tenui rosa e arancione. E i bambini, prima intenti a fare avanti e indietro da una giostra all’altra, adesso venivano trascinati dai loro genitori, per sfuggire al calare della sera. Anche loro avrebbero dovuto sbrigarsi, sarebbe presto cominciato a fare buio.  Ma Harry avrebbe voluto sinceramente restare lì e magari passarvi la notte, affinché nessuno gli ordinasse di alzarsi.
Ma non andava bene, ovviamente. La piccola Rosie non avrebbe mai accettato di passare la notte in un parco giochi al freddo – forse, nel negozio di giocattoli – e c’era un caldo letto che la aspettava, a casa. Non avrebbe mai rinunciato alle sue preziosissime lenzuola rosa confetto e a Mister Cuddles, il suo orsacchiotto di peluche. Quel pupazzo le aveva tenuto compagnia tutte le notti da quando Louis glielo aveva regalato, era il suo miglior amico e avrebbe mosso mari e monti pur di ricongiungersi ad esso.
Sorrise, quando ricordò di quella volta che l’aveva perso. Era corsa piangendo da Harry informandolo dell’accaduto e non aveva smesso di piangere finché il povero mister Cuddles non era stato ritrovato, tra le lenzuola usate nel cesto della biancheria sporca, un evidente errore di Louis. Quando l’aveva stretto nuovamente tra le braccia aveva riacquistato il sorriso, e aveva abbracciato anche Harry, lodandolo del titolo di miglior papà del mondo. Quello era stato uno dei giorni più felici, e non avrebbe mai potuto dimenticarlo.
Da quando Rosie era entrata a far parte delle loro vite, tutto era inevitabilmente cambiato.
Scegliere di adottare una bambina non era stata una decisione certa sin dall’inizio, ma avevano comunque scelto di provare ad essere genitori, visto che per le loro condizioni sarebbe stato impossibile averne uno proprio.
Scegliere di affidare una bambina ad una coppia formata da due uomini era stato altrettanto difficile, ma qualcuno aveva deciso che sarebbe stato giusto dargli fiducia e offrirgli almeno una possibilità.
Crescerla per i seguenti sette anni non era certo stata una passeggiata. Né Harry né Louis erano pronti a pianti notturni, pasti continui, vagiti, rigurgiti, malattie o semplici capricci, ed era stato davvero difficile riuscire a conciliare la bambina con il lavoro, all’inizio. Si erano trovati a dover far fronte a milioni di cose e a doversi addentrare in un mondo totalmente nuovo e di cui si sentivano completamente ignari, e avrebbero inoltre dovuto crescere quella bambina con la consapevolezza che forse, un giorno lei avrebbe cominciato a guardarsi intorno, e gli avrebbe chiesto perché tutti i suoi compagni avevano una mamma.
Quella paura conviveva con loro ogni giorno, da quando aveva iniziato a frequentare la scuola. Entrambi temevano ed erano certi che un giorno quella domanda sarebbe arrivata, e allora cosa avrebbero dovuto dirle? Avevano fin troppa paura che lei scappasse dalle loro braccia.
Ma tutto sembrava procedere bene, almeno fino ad allora. Seppur iperattiva e instancabile, Rosie era una bambina dolce e intelligente, e andava d’accordo con entrambi i suoi genitori. Era socievole e quasi sempre allegra, e sembrava che non la toccasse affatto non avere una mamma ma due papà, anzi ne andava fiera. Amava entrambi, e loro amavano lei. Non era infondo quella la cosa più importante?
Quando Harry tornò distrattamente a guardare davanti a sé li vide tornare, mano nella mano e con tre gelati appresso, che sorridevano mentre si avvicinavano. Alla vista di suo padre, la piccola abbandonò la mano di Louis per gettarsi tra le braccia di Harry, prendendo posto sulle sue ginocchia. Il gelato alla fragola colava per il cono e lungo il suo viso, ed Harry dovette trattenere una risatina, andando poi a ripulirla con la punta della lingua. Al che la bambina scoppiò in una fragorosa risata e allontanò il viso riconoscendo quel gesto usuale, per poi ri-avvicinarsi e posargli un piccolo bacio sul naso.
«Tieni, ti ho preso il tuo preferito.»
Spostò lo sguardo sul viso di suo marito e si aprì in un dolce sorriso, quando riconobbe il cono ai gusti nocciola e fior di latte. Tese la mano libera per appropriarsene e ne approfittò della vicinanza per lasciargli un soffice bacio sulle labbra, a mo’ di ringraziamento.
Gli occhi scuri di Rosie seguirono l’intero processo, e quando le distanze furono ristabilite, proruppe con una delle sue domande. «Tu e papà, da quando vi conoscete?» chiese, mentre affondava le labbra sul gelato quasi sciolto.
«Da quando andavamo al liceo, sirenetta.» fu Louis a rispondere, con un largo sorriso ad incorniciargli il viso e le dita ad accarezzarle i capelli lunghi, come suo solito.
«E vi siete sempre voluti così bene?»
Questa volta gli occhi di Louis incontrarono quelli di Harry. Toccava a lui rispondere.
Ci pensò a lungo, ma la risposta appariva chiara nella sua mente.
«Da quando avevamo diciotto anni.»
E sorrise.
 
I have loved you since we were eighteen
long before we both thought the same thing
to be loved and to be in love
All I can do is say that these arms
are made for holding you
I wanna love like you made me feel
when we were eighteen.

 
  
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