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Autore: Silvar tales    12/02/2015    2 recensioni
Qui segue il racconto di Thranduil e Filigod.

Un piccolo tentativo di conciliare film e canone tolkieniano.
Genere: Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cabeduin Meduilin








Thranduil marciava avanti e indietro, davanti ai cinque guerrieri di Eredion schierati, e ad Eredion stesso inginocchiato al suo cospetto. Brandiva la spada e la impugnava con tale rabbia e vigore che l'elsa avrebbe potuto crepare nella forza del suo pugno. La metà sinistra del suo viso era celata dietro soffici bende di lino: la ferita era sì in via di guarigione, ma sarebbe rimasta per sempre un'orrenda cicatrice a sfregiare la beltà del suo volto. Tuttavia già era gran cosa ch'egli fosse sopravvissuto, poiché oltre ad essere affilatissimo l'artiglio del Drago era fetido, e incrostato di lerciume.
Così pendolando come un'anima che non riusciva a darsi pace, iniziò a parlare con tali aspre parole: «tu come lo puniresti, il tradimento? Ti potrei considerare alla stregua di un cospiratore, in combutta con Curzmar il Menzognero per massacrare la mia famiglia», disse, e seppur si sforzasse di mantenere la sua consueta calma, era palese a tutti che la sua voce era sì calma, ma screpolata poiché tesa al limite, e sul punto di rompersi.
«Hai lasciato che quella scorribanda di assassini attraversasse liberamente il nostro Regno, entrasse impunemente nei nostri confini, e non hai fatto nulla, nulla. Nulla tranne correre come un codardo a rifugiarti dietro le Porte. La tua negligenza ha portato la rovina su di noi, per questi giorni e per i giorni che seguiranno. Dunque dimmi, tu come lo puniresti, un tradimento di tale portata?»
«Vi supplico, mio Signore Thranduil, ho agito credendo di far bene. Non volevo condurre a morte certa tutti quanti i miei soldati. Non potevo sapere, non potevo sapere...» e così rispose Eredion, cominciando a piangere e a scuotere la testa inquieto. Ma ben presto la sua inquietudine si tramutò in disperazione, quando negli occhi impietosi del suo Sovrano iniziò a scorgere la sua sorte.
«Hai condotto a morte certa la mia Regina. La tua Regina! La madre di mio figlio! La madre del tuo principe!» Urlò Thranduil, e la calma gli sfuggì di mano. Eredion portò le braccia a coprire il volto, e si ritrasse, come se un forte vento gli soffiasse contro.
«No, non gettatemi addosso il peso di questo orribile delitto... Io non sapevo, io non potevo sapere...!»
«Basta, silenzio, non lagnarti più». Thranduil impose il silenzio alzando una mano, e al suo comando ognuno smise di parlare. Gli unici rumori che si udivano nelle echeggianti Aule del Trono erano lo scrosciare dei torrentelli e i singhiozzi che Eredion non riusciva più a trattenere in gola. Feren, in piedi accanto al suo Re, era rigido e pareva non respirasse neppure, tant'era muto e immobile.
«Non hai più motivo di lagnarti, ora, poiché già ho deciso. Pagherai con la vita la tua negligenza. Tu e tu solo, i soldati che ti seguivano obbedivano ai tuoi scellerati comandi e non hanno le tue colpe, tuttavia non li vorrò più nel mio Regno. Voi altri sarete per sempre banditi dal Reame Boscoso, e tu Eredion verrai messo a morte, ora. Così ho deciso». Emessa la sentenza, dalla folla dei presenti si levò un mormorio concitato, ed essi si agitarono come cime di abeti scossi dal vento. Eredion oramai rassegnato al suo destino piegò la testa e più non parlò.
Feren prese Thranduil di petto e parlò veloce, pur cercando di mantenere il consueto decoro che si frappone tra un capitano e il suo Re.
«Mio Signore, riconsidera questa tua decisione, te ne prego. Da quando furono fondate, queste Sale mai hanno visto il sangue. Sei logoro di rabbia e di dolore, e ciò ti porta fuori strada. Questo disgraziato non è innocente ma non ha le colpe che gli hai addossato. Concedigli l'esilio, te ne prego!»
Ma a nulla valsero i tentativi del leale Feren, poiché Thranduil, per orgoglio, mai sarebbe tornato sui propri passi dopo aver esposto davanti a tutti la sua volontà, con tale sferzante decisione. Esisteva una e una sola persona che mai avrebbe potuto fargli volgere indietro il capo, la quale era Filigod Luce di Luna, ma Filigod Luce di Luna oramai era ceneri e ossa nere disperse nella grigia conca di Gundabad.
«Così ho deciso», disse di nuovo Thranduil, ricalcando con durezza le sue parole. E Feren seppe di non poter fare altro per Eredion, seppur non si pentisse di aver tentato di salvargli la vita dall'inconsulta ira del Re.
Thranduil fece cenno alle guardie, e prese congedo prima che venisse eseguita la sua volontà, e non poté sentire Eredion maledirlo assieme alla sua Casa e ai figli che aveva e che avrebbe avuto, prima che la gola gli si riempisse di sangue.

La notte, il Re dei Silvani varcò le Porte Blu e uscì in Bosco Atro. Il cielo era coperto a macchie da sporadiche nubi, e su ogni cosa cadeva un nevischio bagnato. La mattina, le foglie degli alberi erano incrostate da una bianca patina di brina, che alle volte rimaneva fin verso mezzodì. Da Nord, i venti recavano un gelido messaggio: l'autunno giungeva al termine.
Accadde che Thranduil, così vagando per la foresta in cerca di quella pace che oramai aveva perduto, per beffa della sorte capitò sulla via di Filigod, la via che tanto aveva cercato la notte in cui la portarono via. Nel fitto del roveto, vi trovò intrappolati lembi della sua veste d'argento, e notò che alcuni rami erano spezzati. Così seguendo questa traccia, giunse su un ampio balcone erboso, sgombro da alberi. Thranduil conosceva quel luogo: Cabeduin-meduilin veniva chiamato nella Lingua dei Sindarin, anche se egli ignorava chi fosse stato il primo a nomarlo in quel modo.
Si affacciò sul pendio, immaginando che anche Filigod vi si fosse attardata, e lasciò che la vista spaziasse, libera dall'impedimento degli alberi. Nella landa, le chiome dei sempreverdi erano vagamente spruzzate di neve, mentre le nude famiglie di latifogli bucavano il tetto fronzuto della selva come nugoli di spine nere.
Non era molto distante dal cocuzzolo di rovi sul quale si era arrampicato nove notti addietro, nella speranza di scorgerla. Lo poteva vedere ergersi un poco sopra il livello delle chiome, a Sud-Est.
Vide anche il luccichio del Ruscello Incantato, il quale si snodava tra gli alberi e a volte sfociava in radure erbose, talune ampie talune anguste. Ricordò di averne seguito il corso, praticando quella stessa via che poi aveva rivelato all'Orco Menzognero di Gundabad, con la lingua resa sciolta dalla paura. Se solo avesse alzato gli occhi, avrebbe potuto vederla, in piedi sulla rupe, con gli occhi colmi di angoscia e il cuore lacerato dal dilemma. O avrebbe potuto vedere, alle sue spalle, gli Orchi che gli venivano dietro.
Di un tratto, ogni cosa fu chiara, e le ultime parole che Filigod aveva gridato presero senso. E ciò fu peggio della morte stessa, che Thranduil si sentì stritolare il cuore come se una mano possente ne stesse spremendo ogni goccia di sangue, e affossò in un nero pantano di colpe, dal quale non riuscì più ad uscire per molto, molto tempo.



*





«Mio Re, dama Suilannen dice che vostro figlio di nuovo non mangia».
Non appena Thranduil aveva fatto ritorno alle Porte, subito una delle sue guardie più fidate gli era corsa incontro, e con aria grave gli aveva detto queste parole.
«Ditele che arriverò tra poco, e che d'ora innanzi me ne prenderò cura io. Ora, vai».
«Sì mio Signore», asserì la giovane guardia, intimorita dalla freddezza del suo Sovrano. Thranduil a malincuore sapeva che, in futuro, sarebbe stato più temuto e forse meno amato, soprattutto da coloro che non lo conoscevano a fondo, da coloro che non avevano vissuto assieme a lui il massacro di Dagorlad, e il massacro di Gundabad. Il sangue del povero Eredion ancora non era venuto via del tutto dal pavimento della Grande Sala, il legno lo aveva assorbito nelle sue venuzze, e vi sarebbe sempre rimasto un vago alone rossastro.

Entrando nelle Sale della Luna Thranduil venne colto da un forte malessere, e si sentì alla stregua di un forestiero. Più di ogni altro luogo dopo Neldoreth, quello era il Rifugio di Filigod, anzi di più: Neldoreth era stata il suo Rifugio, le Sale furono i suoi dominii. E Filigod era l'assoluta Signora di tutto ciò che guizzava, volava, scalpicciava in quel luogo. C'era da stupirsi che, sebbene Filigod fosse morta, le cose continuavano a guizzare, a volare, a scalpicciare senza il suo accordo.
A un primo sguardo, Thranduil non vide la vecchia Cerva, e pensò fosse andata a morire in un anfratto nascosto, giacché oramai il suo tempo era terminato. Le sue figlie rimanevano appresso all'acqua, quiete ma vigili: i loro occhi rossastri seguivano ogni suo movimento clandestino. La neve aveva cominciato a posarsi copiosa, ove il terreno non era coperto dalle rientranze delle pareti rocciose.
Thranduil avanzò tra gli abeti rossi e i radi arbusti profumati, e si addentrò più all'interno, ove il terreno diveniva un materasso di muschio alto e colorato. Perso tra i suoi pensieri, giunse alle Grotte Bianche, laddove confluivano tutti i ruscelli che irroravano quei luoghi, sin quelli che zampillavano lungo le pareti delle Grandi Sale, tutti venivano a sfociare in quella bocca buia, e nessuno sapeva in quale punto sarebbero poi sboccati all'esterno, seguendo quel budello troppo stretto perché chiunque potesse avventurarcisi. Con tutta probabilità, era traverso quella breccia che il Cervo Bianco era fuggito. Thranduil entrò appena sotto la volta di roccia, e vide con meraviglia che la vecchia cerva non era affatto morta. Così accovacciata in un angolo riparato, a ridosso della parete, Thranduil non vide subito cosa nascondeva tra le zampe, ma quando si avvicinò, curioso di sapere, vide un cerbiatto, nato da poco, e il suo manto non era bianco ma di un tenue marrone, del medesimo colore delle foglie autunnali.
Thranduil non poté dire se quell'animale fosse figlio della cerva, partorito assieme al fratello perduto, o se fosse capitato lì attraverso il medesimo passaggio che l'altro aveva usato per uscire. Ma, guardando le sue grosse zampe, intuì che sarebbe diventato un animale imponente, e che non era comune. E decise di tenerlo per sé.



*





Dama Suilannen accolse il Re sulla soglia delle sue camere. Ella era un Sindar di antico lignaggio, e pure aveva vissuto alla corte di Thingol nelle Ere addietro, e nelle sue caverne aveva appreso l'arte di alleviare i dolori, e guarire alcuni tra i malanni e le ferite meno gravi. Aveva aiutato Filigod a dare alla luce Legolas, e non fu un semplice compito poiché il suo fu un parto lungo e difficile; tuttavia, pur non essendo abile come levatrice, Suilannen riuscì ad esserle di grande aiuto, e Thranduil le sarebbe sempre stato grato per questo. Ma quella notte le si mostrò tutt'altro che grato: benché ella si fosse presa cura di Legolas nei giorni in cui egli giaceva incosciente, la congedò in fretta e con parole brusche. Suilannen poteva comprendere i motivi di quella scortesia, e nel suo cuore non se n'ebbe a male.
Thranduil si chiuse la pesante porta di quercia alle spalle, e si sentì nella sua camera così isolata come in un rifugio. Ma nemmeno in quel rifugio poteva trovare la sua pace, poiché vi era invero un grande vuoto, scavato nella metà del suo letto.
Si avvicinò alla culla bianca di Legolas, che ancora a quell'ora della notte aveva gli occhi vispi e il viso corrucciato. Lo guardò per un lungo momento mettersi le dita in bocca e lamentarsi, poi lo sollevò e lo prese in braccio. Prese il bricco di ceramica pieno di latte che Suilannen aveva lasciato, e portò il beccuccio, toppato da una pezzuola, alla bocca del figlio. Era ancora tiepido.
Si sedette sul letto e tenne Legolas tra le sue braccia, con la testa leggermente sollevata. Forse avrebbe dovuto cantargli una canzone, un buon padre l'avrebbe fatto, ma ne conosceva solamente di tristi, o le altre le aveva dimenticate, per cui accantonò l'idea.
Legolas succhiava qualche sorso, poi voltava la testa e si perdeva a guardarsi attorno, e solo dopo alcuni minuti tornava a mangiare. Era come se il latte di asina lo ripugnasse, e Thranduil poteva capirlo, poiché da quando era venuto al mondo non aveva conosciuto altro sapore che quello del latte e del seno di Filigod.
«Come vorrei che anche nei tuoi ricordi vi fossero le luci e le volte di Menegroth. A Menegroth nessun cibo ti avrebbe ripugnato, nulla ti avrebbe ripugnato, al di fuori del pensiero che quei luoghi un giorno potessero svanire. Menegroth era la Luce del nostro popolo».
Thranduil si soffermò un momento a pensare come dovesse apparire una luce sotto l'acqua.
Quando Legolas, a tentoni, ebbe finito il bricco per metà, voltò la testa e più non volle mangiare.
Dunque Thranduil cessò di insistere, si levò in piedi e tenne il figlio poggiato contro il proprio torace. Ciondolò da un piede all'altro per conciliargli il sonno, e lo strinse forte a sé.
«Stavano inseguendo me», disse, e pianse, in silenzio.



*





Nei giorni che seguirono, Re Thranduil ordinò che il trono gemellare, costruito apposta perché i due sovrani sedessero alla medesima altezza, venisse distrutto. Fece questo poiché, egli diceva, vi era una e una sola Regina di Eryn Galen, e mai ve ne sarebbe stata un'altra per i tempi in avvenire.
Bosco Atro si chiuse su sé stesso, ingobbendosi e incupendosi, e il suo Signore fece uguale.
Thranduil non era vendicativo per sua natura, e perciò non cercava la vendetta; di contro, divenne ancora più attaccato alle cose che gli erano rimaste: suo figlio, il suo popolo, la sua Casa. Ritenne che il modo migliore per tenerle al sicuro fosse chiudersi dentro, aspettando che fuori l'Ombra passasse oltre. Ma l'Ombra più gravosa non avrebbe mai più potuto lasciare Thranduil, poiché essa era nei suoi ricordi.
Egli continuò a volgere i suoi sforzi e le sue attenzioni sempre più all'interno che all'esterno del suo Regno, e all'interno diveniva bellissimo, ricolmo di ricchezze e di luci, e le Sale della Luna parevano davvero una remota radura di Doriath, per qualche strano artifizio andata ad incastonarsi lì, nel cuore delle Caverne di Thranduil.
Ma, fuori, il mondo marciva e decadeva, e la Selva crebbe contorta e gibbosa, senza custode né padrone.

Il perduto Cervo Bianco venne ribattezzato Dregol-aras, ma così come accade per molti nomi, con il passare degli anni i Nandor lo storpiarono, presero a pronunciarlo più speditamente e meno accuratamente, ed esso divenne Dregolas.
Dregolas fu per molti secoli nulla più che un'ombra, e si apprestava ad entrare nel coro di favole e leggende che aureolava Bosco Atro. Ma, passati che furono nove secoli, Dregolas ricomparve come un fantasma nella foresta. Lo scorse una sentinella, di notte, una notte in cui la luna era tonda e il cielo sereno. Un Cervo Bianco, e bianche erano le sue corna e persino gli zoccoli; e gli occhi, vigili, non rossi ma color del ghiaccio.
«Ecco», disse Lagorhen la sentinella, ai suoi compagni di vedetta, «ecco, la nostra Regina è tornata! Ed ella sempre guarderà sui nostri confini, e mai aveva smesso di guardarvi! Ella È in Eryn Galen!» E i loro cuori si illuminarono di una fugace speranza, poiché da molto non sentivano chiamare Bosco Atro con il suo antico nome, e sperarono che, un giorno, ancora avrebbero potuto chiamarlo così com'era stato battezzato.
E questa, insieme ad altre cose liete ma cupe al momento stesso, iniziarono a pensare i Silvani di Thranduil, che dama Ithilglîn, così legata alle Selve di questo mondo, vi si fosse legata come presa da un amore mortale, e che il suo spirito si fosse annidato in Bosco Atro, ed esso continuava ad aleggiare tra gli alberi solenni e il soffocante intreccio dei rami cadenti.
Chi si avventurava per i sentieri della foresta percepiva la sua presenza, ora divenuta severa e dolente; percepiva i suoi occhi e il suo respiro e la sua pelle toccando la corteccia degli alberi, e credeva di ascoltare nel vento il suo lamento. Anche se non poteva sapere chi stesse osservando, il viandante sentiva che in Bosco Atro qualcuno lo osservava, osservava i suoi passi e i suoi movimenti clandestini, e odorava la sua paura, e talune rarissime volte lo sfidava ponendoglisi di fronte e fuggendo con un guizzo dalle sue frecce.



***





«Tu conosci un sacco di storie, non è vero?»
«Molte, e poche adatte a un bambino», rispose divertito Thranduil, mentre cercava di stare al passo col figlio. Legolas moriva di contentezza, ogni volta che il Re suo padre decideva di portarlo a spasso per Bosco Atro. L'autunno era calato assieme alle foglie, e Legolas aveva compiuto sei anni, abbastanza per iniziare ad imbracciare un arco. E il suo piccolo ed elegante arco in legno di betulla, costruito apposta per la sua statura e sufficientemente flessibile per l'esile forza del suo braccio, lo portava sempre con sé, assieme a una faretra ricolma di frecce dalla morbida punta di cotone.
Thranduil aveva deciso di portarlo nella foresta almeno tre volte al mese, da quando il leale Feren aveva soverchiato un suo tentativo di fuga. Quella volta, Thranduil l'aveva rimproverato a lungo e assai duramente, ma quando Legolas era scoppiato in lacrime, si era ricordato della sua gioventù trascorsa a Menegroth, e di quante volte avesse sognato le stelle del mondo di fuori, un mondo che, a causa delle eccessive premure che il padre gli dedicava, gli era precluso, e non vi era altro modo per lui di conoscerlo se non scappare.
«Ma io non sono un bambino come gli altri bambini, io sono un principe. Se tu sei il re, io che sono tuo figlio sono un principe», disse, e tese l'arco e vi incoccò una freccia, ma quando la rilasciò, questa invece che schizzare in avanti fece una giravolta all'indietro, e cadde malamente per terra.
«Che tu sia mio figlio non ho alcun dubbio, ma si è mai visto un principe che non sa tirare con l'arco?» Disse Thranduil, e ridendo raccolse la freccia e la ripose nella piccola faretra di cuoio che Legolas portava sulle spalle.
«Ad ogni modo, stasera se lo vorrai, ti racconterò di Coracero il Muschioso, uno tra i più vecchi Pastori di Alberi che vagò dai boschi dell'Oriente sino alle selve dell'Occidente, e andava in cerca... Legolas?»
Il piccolo Elfo era corso via tra gli alberi, e già Thranduil non lo vedeva più. Fece qualche passo verso il punto dove l'aveva visto scomparire, ma ancora non lo vide, e lo colse un moto di angoscia.
Lo chiamò di nuovo, ma nessuno rispose, se non un lontano eco svanito. Un merlo uscì dalle frasche con un velocissimo battito d'ali, e volò via verso la luce del tramonto. La luce, rossa e gialla, filtrava traverso i tronchi bianchi dei faggi, e dorava nell'aria un placido pulviscolo volatile.
Thranduil mise una mano davanti agli occhi, e tentò di vedere davanti a sé, controluce.
Lo chiamò una terza volta, senza ricevere risposta. Lo cercò ancora, senza trovarlo. E allora iniziò ad avere pensieri tenebrosi, iniziò a chiedersi dove l'avesse perso: un attimo prima l'aveva sott'occhio, un attimo prima gli parlava, e ora non c'era più. Che la luce lo avesse ingannato?
Proprio in quel mentre, Legolas sbucò fuori da un grosso cespuglio di bacche.
«Volevo solo farti uno scherzo...» disse, strisciando i piedi per terra, e distogliendo lo sguardo dagli occhi penetranti del padre. Aveva ben capito che ora era arrabbiato, e Legolas aveva sempre avuto paura dei suoi rimproveri.
«Mai più, se non vuoi passare i giorni successivi a studiare dentro la fortezza, come dovrebbe essere, invece che qua fuori a perdere tempo con l'arco».
Legolas abbassò lo sguardo a terra e non disse più niente. Thranduil lo conosceva e sapeva che stava cercando di trattenere le lacrime. Non voleva rovinargli la giornata solo perché per un momento aveva avuto paura, perciò decise a suo modo di scusarsi.
«Su, rimettiamoci in ordine. Hai un nido al posto dei capelli». Legolas tirò su col naso e rise, e Thranduil si piegò sulle ginocchia per raggiungerlo meglio. I suoi capelli biondi, tagliati alle spalle, erano pieni di foglie e spini, la treccia si era sfatta e le sue guance piene erano nere di polvere.
Lo ripulì alla meno peggio, spazzando via la polvere dal viso e dai vestiti. «Fermo, pazienta», gli disse tenendolo per i fianchi, mentre gli districava i capelli e li liberava dalle foglie e dagli sterpi.
Gli sciolse la treccia piena di pennacchi scappati dalla trama, e con pazienza e con cura la disfece e la fece di nuovo. Quand'ebbe finito, gli lasciò un bacio sulla guancia, benché Legolas scalpitasse per correre via.
«Volpe! Volpe!»
«Quale volpe? Io non ho visto niente», disse Thranduil trattenendo un sorriso, mentre guardava il figlio correre avanti, pur stando sempre alla portata dei suoi occhi. Corse avanti, e così, rivolto di spalle, con la luce contro e l'arco in mano, sembrava quasi essere già cresciuto.








Sui Passi di Filigod

   
 
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