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Autore: Kuruccha    12/02/2015    5 recensioni
«Durerà finché dura il viaggio.»
Poche cose nella sua vita si sono trascinate a lungo. D’improvviso, quel tempo le pare più che sufficiente.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Faye Valentine, Spike Spiegel
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Note introduttive:
Non scrivo fanfiction per sei mesi e poi pam!, quasi tremila parole in meno di ventiquattr'ore. Ispirata al bellissimo prompt lasciatomi da Kuma ClaSpike/Faye, Sitting next to each other on a long bus ride!AU.
Doveva essere solo una drabble, ma ho finito per buttarci dentro per caso un sacco di elementi della trama dell'anime. Niente di troppo spoileroso, tranquilli: penso che li riesca a vedere solo chi già li conosce.
Il titolo è il verso di una canzone di Sara Bareilles, Between the lines.
Buona lettura, e buon viaggio. Io me lo sono proprio goduto. :)



 
Leave unsaid, unspoken



I bagagli sono sempre la parte peggiore.
Se lo ripete ogni stramaledetta volta che deve caricare una valigia più pesante di lei: viaggiare le piace, e l’autobus è di certo il mezzo più economico e pratico e via dicendo, ma caricare i bagagli rovina sempre tutto.
E come se già il dramma dei bagagli non fosse sufficiente di per sé, ecco arrivare dal nulla il solito cascamorto pronto ad attaccar bottone. Lei odia i cascamorti, però non li odia mai in momenti come questi; momenti in cui ha trenta chili di vestiti da caricare sul portabagagli più in alto della sua testa.
Sfoggia il suo miglior sorriso e si volta verso di lui, già pronta a civettare, ma l’attacca-bottone la guarda impassibile, con le mani ancora infilate in tasca, senza muovere un solo muscolo. La fissa per un attimo di troppo; sente il suo sguardo correrle lungo le braccia tese, le spalle, la schiena incurvata. D’istinto spinge in fuori il fondoschiena; tirerebbe anche su la gamba come una pinup, se ce ne fosse il bisogno.
Ed è sul suo sedere che immancabilmente gli si fermano gli occhi – tsk, uomini, tutti uguali, pensa – e alla fine l’attacca-bottone le si avvicina. Faye pregusta la vittoria, e già si interroga su come scaricarlo dopo che l’avrà sfruttato a dovere; il viaggio è lungo e lei non avrà bisogno di un facchino almeno per altre quindici ore.
Ma l’attacca-bottone ha ancora le mani in tasca – e il sedere glielo tocca, sì, ma con una coscia, oltrepassandola mentre s’infila oltre il blocco di sedili, lasciandola lì con la valigia a mezz’aria. Senza nemmeno chiedere permesso. Senza uno scusi che sia uno.
Faye s’indigna e lo guarda accomodarsi sui sedili in fondo al pullman, proprio come lo stereotipo del bullo da liceo. Ha con sé solamente una sacca malandata, scucita e ricucita almeno mille volte, che pende floscia sul sedile accanto a lui; si stringe in un bomber d’altri tempi, manco fosse James Dean.
Faye spinge con rabbia la valigia sul portaoggetti; le bande metalliche si piegano sotto il gran peso. Scrolla le spalle e si mette dall’altra parte del corridoio, giusto per precauzione. S’infila le cuffiette nelle orecchie e subito l’iPod le propina un album di blues strumentale, triste e squallido quanto l’autobus su cui è salita.
Chissà quando l’ho scaricato, si dice, fissando il nome del brano.
Fuori comincia già a fare buio.
 
S’imbatte di nuovo nel ragazzo attacca-bottone quando il bus fa la prima sosta; Faye fissa la tavola calda dal finestrino del bus e sogna un hamburger con le patatine, tante patatine, anche se è già mezzanotte e il grasso le finirebbe tutto sui fianchi. Ma ha già scoperto che trenta chili di bagaglio sono più facili da rubare di quanto si crede, e le è già capitato di doversi rifare un intero guardaroba e no, grazie, non di nuovo; non ha soldi a sufficienza da poterselo permettere.
Lei guarda la tavola calda e l’attacca-bottone guarda lei attraverso il riflesso sul finestrino – l’ha visto; sa che la sta fissando. Faye rimane immobile e lui la oltrepassa e scende. Lo vede entrare in fretta senza mai voltarsi, e si ripromette: la prossima volta niente valigie.
 
C’è un momento in cui il bus è quasi pieno, tra le due e le tre del mattino, e i posti davanti sono sempre i più ambiti quando tra i passeggeri ci sono donnicciole dalla nausea facile.
Si ritrova seduto vicino un ciccione che puzza di cipolle fritte, e d’improvviso le passa anche quel briciolo di appetito che ancora le rimaneva. Il grasso della sua pancia straborda oltre il bracciolo del sedile, e quando per sbaglio lo sfiora col gomito Faye scatta in piedi e decide che è giunto il momento di abbandonare la nave.
Osserva la valigia sospesa sul portaoggetti e cambia idea, ma non può tornare al suo posto; il ciccione l’ha già colonizzato. Solleva lo sguardo e nel fondo del bus nota l’attacca-bottone intento a studiare il paesaggio che scorre fuori dal finestrino, come se badare a quel che succede oltre il vetro fosse questione di vita o di morte. Ora ha anche i piedi posati sullo schienale del sedile di fronte; un bullo fatto e finito. La sacca pende ancora floscia sul sedile accanto a lui.
Faye decide che è ora di insegnargli come funzionano le gerarchie.
«È libero qui?» gli domanda.
Lui la guarda distrattamente, poi si tira la borsa sulle ginocchia lasciando libero il posto. Torna a osservare fuori.
Faye si accomoda, tira di nuovo fuori l’iPod e si infila le cuffie nelle orecchie. Parte un altro brano che non conosce, un jazz dal ritmo scombinato e decisamente fuori luogo in un ambiente come quello, in una situazione come quella. Dai graffi sulla cover capisce all’improvviso che quell’iPod non è il suo; una delle ragazze del lavoro deve averlo scambiato con il proprio. È facile sbagliarsi, visto che avevano l’abitudine di chiuderli tutti insieme nell’unico armadietto con la chiave. Una collega con dei gusti musicali discutibili, di certo.
Oltre il finestrino sfrecciano le luci dei fari delle auto nella direzione opposta. La notte è ancora lunga.
 
Sono le cinque quando la batteria dell’iPod alza bandiera bianca e lei si sveglia con un ronzio diverso nelle orecchie. Apre gli occhi e nella penombra scorge la figura rannicchiata dell’attacca-bottone; il ronzio è il suo russare sommesso. Tiene la bocca appena socchiusa, emettendo un sibilo regolare in alternanza al respiro.
La colpisce l’intimità improvvisa del momento: non lo conosce nemmeno, eppure gli sta dormendo accanto.  Un compagno per una sola notte, nel senso più vero del termine.
Lo studia alla luce fioca che precede l’alba. Le gambe piegate sembrano quelle di un adolescente, lunghe e secche; e secco è forse anche tutto il resto, ma il bomber nasconde ogni altro particolare di lui. La testa posata al finestrino sobbalza ad ogni buca sulla strada, ma l’attacca-bottone sembra non notarlo nemmeno. Tra le ginocchia stringe ancora i lacci della sacca mezza vuota.
Si sveglia nel momento meno opportuno e la becca a fissarlo. La guarda dritta in viso e la speranza gli muore negli occhi – lo sa, la riconosce.
Faye non sa cosa dire. «Tutto bene?» domanda allora, fingendo chissà quale preoccupazione.
L’attacca-bottone annuisce piano, ancora mezzo addormentato. Sprofonda di più nel giubbotto e poi le getta un’occhiata oltre il colletto alzato. «Non dormi?»
Faye indica distrattamente la valigia con un cenno. «Nah.»
Lui stiracchia le gambe sotto il sedile di fronte e poi si tira meglio a sedere. «Saremo in due, allora» le dice.
È bravo ad interpretare il suo sguardo interrogativo.
«Sono Spike» risponde.
 
Le ore successive passano lente.
Guardano il sole sorgere, ma l’alba non è né rossa come si vede nei documentari né romantica come la descrivono i film. Basta un attimo e il sole è già alto oltre l’orizzonte; una nuova giornata è cominciata e non sembra molto diversa da quella precedente. Avere qualcuno accanto non la rende particolare o memorabile; è solo un cielo come un altro.
Alle sei l’autobus si ferma di nuovo in una tavola calda per la colazione. Faye rovista nella tasca del cappotto in cerca di una barretta ai cereali; è tutto ciò che si permetterà fino all’arrivo. Con la coda dell’occhio sorveglia la valigia e la odia un altro po’.
Spike, l’attacca-bottone, torna a sedere portando con sé dei muffin chiusi in un sacchetto. Gliene offre uno – diplomaticamente, ecco;  e lei non è il tipo da rifiutare quando qualcuno offre, ma ormai è sicura che lui non ci stia provando, quindi non sa bene come reagire. Alla fine lo accetta, promettendosi che gli renderà i soldi solo se sarà lui a chiederglieli.
Sbocconcellano i muffin ai mirtilli mentre l’autobus riparte. I passeggeri rimasti sono pochi; quella che lasciano è la prima grande città dopo il buco nero del deserto.
Faye osserva Spike nel riflesso sul finestrino e per la prima volta si chiede dove si fermerà quel tipo. Chissà se scenderà dopo di lei, o prima. No, non prima; non potrebbe sopportarlo. Decide d’improvviso che, se lui se ne andrà, il suo sedile dovrà rimanere vuoto. Non vuole altri ciccioni, né bambini, né donnette, né altri uomini. Questo attacca-bottone va bene.
«Da dove salti fuori?» gli chiede. Niente smancerie; niente dove andrai. Troppo sentimentale, lo sa già da sé.
«Mah» risponde lui senza aspettare nemmeno un secondo. Come se s’aspettasse di sentire quella domanda dal primo attimo che l’ha vista. «Non è poi così importante. È una città come un’altra.»
«Perciò viaggi per andare da una città-come-un’altra ad un’altra città-come-un’altra.»
«Già.»
«Mangiando muffin.»
«La parte migliore» le risponde, e per la prima volta l’ombra di un sorriso gli si fa strada in viso. Alza il sacchetto di carta ormai vuoto come se fosse un calice colmo di vino.
« Finché non ci sono sigarette, per lo meno.»
Spike annuisce. «Già» dice ancora.
«Ma io ho smesso. Sono quasi dodici ore, oramai» gli risponde Faye, indicando la valigia con un cenno della testa.
Lui la guarda con le sopracciglia sollevate. «Non durerà.»
«Durerà finché dura il viaggio.»
Poche cose nella sua vita si sono trascinate a lungo. D’improvviso, quel tempo le pare più che sufficiente.
 
È alle dieci del mattino che li sente nominare la prima volta.
Julia, dice lui, e poi Vicious, e i suoi occhi si fanno di nuovo scuri e sembrano diversi – diversi da prima, ma anche diversi tra loro. Non sa da cosa dipenda, ma vorrebbe scoprirlo.
«E chi sarebbero?» La curiosità la rende più coraggiosa, ma il coraggio non l’ha mai portata lontano. «Persone come le altre? Quelle della città-come-un’altra?»
Lui la guarda con tenerezza – ma non è quella tenerezza buona che ha imparato a riconoscere nei suoi amanti; è piuttosto quel genere di sentimento che si riserva a chi non può capire. Cani, o bambini.
«No. Gente diversa » le dice, e torna a guardar fuori dal finestrino. «Gente importante.»
«Gente che hai lasciato indietro.»
Il suo sguardo si spegne ancora un po’. «Lo vorrei.»
Faye non è mai stata brava a smorzare le atmosfere troppo pesanti; non è il momento giusto per imparare, né pensa che ci riuscirebbe, perciò non ci prova nemmeno. Gli molla una pacca sulla spalla e gli ruba il sacchetto di carta dalle mani.
«Io invece me ne sono andata senza rimorsi. Non che avessi grandi legami, ad ogni modo. Nessuna nostalgia» gli spiega, scrollando le spalle.
È la prima volta che nel dirlo si sente fortunata.
 
Alla sosta successiva – dieci del mattino, in un distributore di benzina nel bel mezzo del nulla – Faye respira aria fresca dopo più di dodici ore, e i suoi polmoni sembrano riempirsi fino a scoppiare. Infila le mani nella tasca del giubbotto e con la punta delle dita sfiora la sigaretta.
Solleva lo sguardo verso Spike, in piedi davanti all’unica altra porta del bus, la schiena dritta come un fuso e la testa china in avanti a guardare il cemento. La sigaretta che fuma è identica a quella che lei ora stringe tra l’indice e il medio.
Faye fischia per attirare la sua attenzione. «Hai da accendere?» gli chiede quando lo vede alzare gli occhi, e le viene da ridere al pensiero di quante volte abbiano tentato di abbordarla con quella frase. Chissà, magari il suo è un tentativo di imitazione. In quel tipo vede qualcosa, anche se non sa bene cosa sia.
Spike le lancia lo zippo e la guarda prendere la prima boccata.
Rimangono così, distanti, facendo la guardia alla valigia davanti alle due porte del bus.
 
«Ma cosa ci tieni lì dentro?» chiede lui, quando sono di nuovo seduti vicini sui soliti sedili in coda.
Faye scrolla le spalle e le sembra di non aver fatto altro fino ad allora. «Vestiti. Profumi. Due o tre ricordi. Le solite cose.»
Spike annuisce come se la sapesse lunga. «Tipo?»
«Tipo cosa?»
«Quali ricordi?»
«Qualche fotografia. Una betamax. Roba antiquata, insomma.» Abbassa lo sguardo sulla sua sacca floscia. «E tu cosa ti porti dietro?»
Lui tira su la sacca con un colpo del piede; allenta i lacci con una sola mossa e la svuota del contenuto sulle ginocchia. Quel che ne emerge è davvero poco: il biglietto del viaggio, una confezione di ramen istantaneo, un pacchetto di sigarette ancora chiuso, il portafoglio sgualcito.
«Sembri uno appena scappato di casa.»
Spike sorride di nuovo con quegli occhi tristi. «Ci sei quasi.»
Siamo in due, vorrebbe dirgli; nemmeno lei sa bene dove sta andando o perché lo sta facendo. Ha mollato il lavoro al ristorante perché l’annoiava, perché non la portava da nessuna parte, ma non ci sono altri motivi oltre a quello; niente la tratteneva laggiù, quindi perché non partire? Già l’idea di poterlo fare le era sembrata abbastanza. Non aveva una vera casa dalla quale scappare.
Siamo in due, vorrebbe dirgli, ma non lo fa.
 
Faye si sveglia quando i suoi capelli gli solleticano il naso. Non profumano di niente; abituata com’è agli shampoo profumati alla frutta e agli uomini che puzzano di dopobarba, la cosa le sembra decisamente singolare. Rimane lì con gli occhi socchiusi e il naso affondato sopra la sua testa.
Anche Spike si risveglia ad uno degli scossoni del bus, e rimane lì con il respiro caldo di quella donna ad inondargli la testa. Magari dorme, chissà.
Dallo spiraglio tra le palpebre intravede il mondo oltre il finestrino. Il bus sta per fermarsi di nuovo; su un cartello stradale legge Ganimede City.
«È la mia fermata» bisbiglia, e lei lo sente; solleva la testa dalla sua e si ricompone, perfettamente elegante nel proprio sedile.
Di già?, le verrebbe da dire. Non è pronta a lasciarlo andare. La sua destinazione è ancora troppo lontana, e se rimangono così lontani è quasi sicura che non lo rivedrà più. «E perché proprio qui?» dice invece.
Spike indica il cartello di Ganimede City e Faye legge, poco più sotto: Il paese dei cowboy.
«Mi pare un buon posto» dice lui. «E poi qui vive uno che conosco. Magari riuscirò a trovarlo.»
«Ti ci vedo» commenta lei. «Cappello in testa, pistola nella fondina. Una bella stella d’oro sulla giacca.»
Spike ride per la prima volta. «Dimentichi il sigaro in bocca.»
«E il poncho.»
«No, il poncho no.»
Il bus accosta e poi si ferma vicino al cartello. Spike si alza in piedi e Faye pensa che no, è presto, troppo presto, e di lui non sa ancora niente.
Lui capisce, o forse no.
«Ti offro una sigaretta d’addio» le dice.
 
Fumano di nuovo, stavolta insieme, in piedi davanti alla porta posteriore del bus. Per un attimo Faye si scorda della valigia e guarda solamente lui e i suoi occhi asimmetrici.
«È stato un bel viaggio» le dice, sollevando appena un angolo della bocca. «In buona compagnia.»
Lei butta il mozzicone della sigaretta e lo pesta sotto la scarpa. «Tutto sommato non posso lamentarmi» gli risponde, e si ripete che non è vero, non è che sia sul serio così. Che era da tanto tempo che non trovava uno come lui. Che lo bacerebbe, se non fosse che le sembra di conoscerlo da sempre, che le sembra più amico di tutti gli amici che ha avuto fino ad allora. E poi si dà della stupida, perché chi diavolo bacerebbe il primo che conosce sull’autobus?, e la prenderebbe per pazza, pazza, ne è sicura.
E poi quello non è davvero un addio. Di questi tempi c’è internet, e sa il suo nome, potrebbe rintracciarlo, trovarlo. Nessuno potrebbe mai sparire nel nulla, non in questo mondo, non in quest’epoca. Lo ritroverà. Non sta certo andando a morire, no?
Lo abbraccia senza dire niente, sollevandosi sulle punte. Il bomber si schiaccia sotto i loro corpi stretti e per la prima volta pensa che sì, è proprio secco e smilzo come sembrava da principio, con quelle gambe lunghe e dritte e la giacca troppo grande e la sacca quasi vuota.
Oltre le sue spalle scorge di nuovo il cartello di Ganimede City.
Lo lascia andare e sale di nuovo la scaletta del bus. «Ci vediamo, cowboy» gli dice, senza nemmeno voltarsi.
Rimane a guardarla fino a quando l’autobus riparte. Lei lo saluta attraverso il finestrino, sul sedile dove prima c’era lui.
Spike solleva pollice e indice come fossero una pistola.
«Bang» dice.
   
 
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