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Autore: Alexiel Mihawk    13/02/2015    2 recensioni
La presenza di Sokka aleggia per tutta la casa, come un fantasma che le risultava impossibile allontanare, e ci aveva provato, Dio se ci aveva provato; ma era stato tutto così inutile, perché come poteva impedire a Lin di parlare di lui? Come poteva dire a sua figlia di non nominarlo? Come poteva svuotare la casa di tutti quegli oggetti che gli erano appartenuti o che aveva portato lì la prima volta che si era presentato da lei?
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sokka, Toph
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Come un fantasma
Autore: Alexiel Mihawk | alexiel_hamona
Fandom: Avatar: the last Airbender
Personaggio/Coppia: Sokka/Toph Beifong
Rating: sfw, verde
Prompt: Ho conservato la tua cravatta (Syllables of time) | Abito (Cow-T) | Ogni cosa falla per te
Conteggio Parole: 902 (fdp)
Avvertenze: introspettivo, angst
Disclaimer: inutile dire che nessuno dei personaggi di Avatar mi appartiene, vero? Mi piacerebbe tanto, ma non è così.
Tabella: click
Note: questa storia partecipa alla M1 della quarta settimana del Cow-T di maridichallenge, questa è parte della tabella di Syllables of Time su Sokka/Toph che sto fillando. Va anche a fillare il prompt del FanFiction Meme lasciatomi da Kuruccha: Avatar: the last airbender, Toph/Sokka, Ogni cosa falla per te.
Ci sono dei riferimenti ad al terzo capitolo della mini-long Tokka che ho scritto l’anno scorso e trovate qui, ma non è necessario leggerla per capire il senso, sono molto scollegate. Lin parla un po’ sgrammaticata perché è ancora una bambina.
 
 
 
Come un fantasma
 
 
La luna sparisce lentamente dietro ai palazzi di Republic City mentre il capo della Polizia cammina silenziosamente per le strade; i suoi occhi bianchi non hanno mai avuto bisogno di nessuna luce per riuscire a vedere, a Toph basta appoggiare i piedi per terra e tutto diventa chiaro. Il più lieve movimento, il più tenue frullio, ogni sommesso bisbiglio, lei riesce a udirlo, e grazie al suo dominio la cecità non le è mai stata di ostacolo.
Passo dopo passo raggiunge il suo appartamento; le sue figlie dormo placidamente nei loro letti e lei accarezza dolcemente le testoline ricciute prima di dirigersi stancamente nella sua stanza. Se non fosse per Katara, che la aiuta a prendersene cura durante il giorno, Lin e Suyin sarebbero costrette a crescere da sole; è oramai lontano il tempo in cui non doveva preoccuparsi di queste cose perché a casa c’era sempre lui, soprattutto quando “il prode capo della polizia” (come amava chiamarla) era fuori di notte.
La presenza di Sokka aleggia per tutta la casa, come un fantasma che le risulta impossibile allontanare, e ci aveva provato, Dio se ci aveva provato; ma era stato tutto così inutile, perché come poteva impedire a Lin di parlare di lui? Come poteva dire a sua figlia di non nominarlo? Come poteva svuotare la casa di tutti quegli oggetti che gli erano appartenuti o che aveva portato lì la prima volta che si era presentato da lei?
 
«Prima di tutto un peluche di un tasso-talpa, non deve dimenticarsi le sue origini; poi ho portato un sonaglio della tribù dell’acqua, era mio di quando ero bambino; una miniatura di un boomerang, l’ho inciso io nel legno, meraviglioso non trovi?»
 
La sua voce le riecheggia nelle orecchie e Toph scuote il capo con forza, cercando di scacciarla, è in quel momento che un mormorio sommesso di Lin richiama la sua attenzione.
«Mamma?» la bambina si arrampica sul letto della madre stringendo nelle mani un sottile indumento celeste.
«Ehi pulce, dovresti essere a letto a quest’ora» la riprende la donna, ma nel suo tono non c’è critica né alcuna traccia di disapprovazione.
Lin le si avvicina e si siede accanto a lei, porgendole ciò che tiene stretto tra le dita sottili: una cravatta azzurra.
Trattiene il respiro nel sentire la stoffa leggera sfiorarle la pelle e anche se non riesce a vederla, capisce immediatamente cosa sia.
«Dove l’hai trovata?» mormora piano.
«Nel tuo armadio –» borbotta la bambina, prima di venire interrotta.
«Lin! Ti ho detto migliaia di volte di non frugare in camera mia!»
«Pensavo che se gli dicevo che ce l’avevi tu veniva a riprendersela» risponde la maggiore delle sue figlie con le lacrime agli occhi. Toph la stringe a sé, pensando che probabilmente Sokka nemmeno immagina il deserto che si è lasciato alle spalle, le ferite profonde che ha inferto ai loro cuori e il devastante senso di abbandono che ora le perseguita. No, Sokka è sempre stato tipo da pensare solo alle cose migliori, scacciando la tristezza a suon di battute sarcastiche, e Toph non riesce davvero a fargliene una colpa, non per avere scelto, per una volta, di fare ciò che era suo dovere.
Abbraccia Lin, aspettando che il pianto sommesso si spenga e che la bambina si addormenti, per quella notte potrà dormire in camera sua, dopo tutto non capita spesso che la sua primogenita si lasci vedere in quello stato; come si accorge che il suo respiro è tornato regolare, la infila sotto le coperte e, stringendo tra le dita la cravatta, si avvicina all’armadio.
Dietro l’anta, nascosto tra i suoi vestiti, più in fondo rispetto agli altri e più nascosto rispetto a tutto il resto, giace un abito azzurro della tribù dell’acqua, un abito da uomo, un abito da cerimonia.
Lo indossava l’ultima volta che si sono visti, l’ultima volta che ha presieduto una riunione del Concilio, la sera in cui è venuto a dirle che sarebbe partito e non sarebbe tornato, perché il suo popolo aveva bisogno di lui (suo padre aveva bisogno di lui). Estrae l’ometto e per un attimo si concede un breve istante di debolezza, abbracciando l’abito e inalandone il profumo – che è ancora lo stesso, dopo tutto quel tempo; vi riappoggia sopra il sottile pezzo di stoffa sottratto da sua figlia e lo rinfila nell’armadio.
Chissà, forse Lin ha ragione, forse dovrebbe presentarsi da lui e dirgli: «Ho conservato la tua cravatta». E Sokka scoppierebbe a ridere e le risponderebbe che il capo della polizia di Republic City sarebbe ancora più affascinante con una cravatta, che dovrebbe indossarla lei, poi le prenderebbe la mano e le direbbe che forse è il caso di tornare a casa. E lei è perfettamente consapevole di tutte le implicazioni che avrebbero quelle parole, degli insieme e dei nostra che aleggerebbero insieme a troppi altri sottintesi. E per qualche secondo pensa che potrebbe farlo davvero, che potrebbe lasciare tutto e seguirlo, o per lo meno provarci lo stesso, ma poi scuote il volto e chiude l’armadio.
No, Toph Beifong è troppo orgogliosa per rinunciare a qualcosa per chiunque; Toph Beifong non si piega e non cede a compromessi, continua dritta per la sua strada, anche quando questo significa vedere il proprio cuore andare in pezzi. Ma, in fondo, come può, lei che è cieca, vedere una cosa simile? Così scegliere di fare finta di niente, sceglie di ignorare la verità e lascia che la presenza di Sokka continui a perseguitarla.
Perché con una presenza e un ricordo può riuscire a convivere, ma non è sicura che sarebbe in grado di farlo se dovesse incontrarlo di nuovo per poi vederlo scivolare via ancora una volta.




   
 
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