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Autore: AnneC    14/02/2015    3 recensioni
Si può abbandonare il proprio Paese e una volta all’estero cercare qualsiasi cosa che ti tenga aggrappato ad esso?
Si può ripartire da zero, iniziare una nuova vita, creare una nuova versione di te senza sentirsi spaesati e soli in una metropoli che ti attende oltre le finestre?
Riuscirai a ristabilire l’ordine o andrà tutto a rotoli?
Resterai o tornerai indietro?
In ogni battaglia serve qualcuno che ti copra le spalle nei momenti di difficoltà e che esulti con te della vittoria.
Ma puoi trovarlo in mezzo ad una folla sconosciuta?
C’e chi riesce nel suo intento e chi invece rimane sconfitto.
Cos’è successo a me? Stavo precipitando, ma qualcuno mi ha portata in salvo.
-
Questa storia è la versione revisionata di Walk away.
Genere: Romantico, Slice of life, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Danny O'Donoghue, Glen Power, Mark Sheehan, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2
*
Give me highs, give me lows.

Nonostante la stanchezza del viaggio, la scorsa notte non ho quasi chiuso occhio; non so se è dovuto al fatto che sono in un ostello sgangherato o da quel leggero senso di ansia che mi causa questa nuova situazione. Mi sono ritrovata a girarmi e rigirarmi nel letto, finendo ingarbugliata tra le lenzuola, con la mente sempre attenta e vigile; per un tempo che non sono riuscita bene a quantificare, il cigolio delle assi del pavimento del corridoio si è intervallato alle voci sconosciute che bisbigliavano oltre la porta, ed essere all’oscuro di ciò che stesse accadendo lì fuori, non mi ha affatto aiutato ad addormentarmi. Questa mattina, ai lati delle strade ci sono i cumuli di neve fresca, che la tormenta ha fatto cadere durante tutta la notte, e svegliarsi con la città imbiancata fa tutto un altro effetto. Ho sempre adorato il lato dinamico e all’avanguardia di Londra, ma la cosa che probabilmente mi piace di più è che nessuno si lascia condizionare dal tempo: all'improvviso comincia a piovere o a nevicare? Non importa, la gente continua a camminare senza darci peso. Ho provato ad adottare anch’io questo tipo di approccio, ma dopo qualche ora trascorsa a girovagare per le strade con numerosi fiocchi di neve che scendono dal cielo, ho cambiato idea. Così, ho deciso di raggiungere il Cafe 409, la caffetteria in cui comincerò a lavorare dopo pranzo.
Lungo il tragitto, ho trascinato controvoglia la valigia, pesante come se contenesse tutta la mia vita e i miei ricordi. Camminare per le strade, con questo carico così ingombrante, mi fa sentire un po’ spaesata: la preoccupazione di non sentirmi all’altezza sovrasta ogni altro pensiero, tanto che spesso mi capita di non capire pienamente la lingua che parlano quelli che mi sono intorno, come se non conoscessi affatto l'inglese; mi ritrovo spesso ad ascoltare i frammenti di conversazioni delle persone che incrocio, cercando di volta in volta la mia lingua madre e da quando sono in giro, è successo un paio di volte, ognuna delle quali mi ha fatto sciogliere il cuore, facendo scomparire il freddo gelido.
Il Cafe 409 è uno di quei locali che attirano lo sguardo dei passanti; non perché abbia colori sgargianti, ma ha quel tipo di atmosfera che ricorda l’aria di casa, quella calda sensazione che provoca il bere una cioccolata calda davanti al camino o quell’odore di dolci appena sfornati che riempie ogni stanza. Appena entrata, mi metto in fila per parlare con la cassiera e ne approfitto per dare un’occhiata in giro: due grandi vetrate incorniciano la porta d’ingresso, che si apre e si richiude senza sosta; sulla parete opposta, tazze variopinte riempiono gli scaffali, mentre una scala in legno conduce ad un soppalco, che ospita altri tavolini. Arrivato il mio turno alla cassa, l’odore di caffè e vaniglia che riempie l’aria si fa ancora più intenso; chiedo a Leslie, la brunetta che ho di fronte, dov’è l’ufficio del proprietario del locale e lei mi indica una delle tre porte alle sue spalle. Steve è un uomo sui trent’anni, dalla stretta di mano salda e col sorriso sempre sulle labbra; mi spiega i compiti che dovrò svolgere in caffetteria, che il mio primo turno comincerà tra tre ore e che, almeno per i primi tempi, non ho un giorno libero a mia disposizione.
Tutto sommato, non è andata male ed ho tutto il tempo di pranzare e di raggiungere quella che sarà la mia nuova casa. Ora fa ancora più freddo di prima, ma almeno ha smesso di nevicare; prendo la metropolitana e scendo alla mia fermata, alla ricerca del civico 237 di Victoria Road. Individuo il palazzo dai mattoni rossi e salgo al secondo piano, dove sul pianerottolo mi sta già aspettando il Signor Lewis, il proprietario dell’appartamento, che mi consegna le chiavi e mi dà il benvenuto nella mia nuova vita.
 
Il mio turno di lavoro comincia tra mezz'ora, ma sono già nello spogliatoio della caffetteria ad indossare la divisa e a scrivere il mio nome sulla targhetta con una grafia chiara ed ordinata.
«Tu devi essere Emma» dice una ragazza, facendomi sobbalzare. «Io sono Marisol».
Le stringo la mano, ma lei subito trasforma quel gesto formale in un abbraccio; mi sorride, muovendo su e giù le sue mani sulle mie braccia, come per riscaldarmi.
«Questo è il peggior periodo per lasciare il clima dell’Italia per trasferirsi qui».
«Come fai a...».
«Qui siamo come una grande famiglia», mi interrompe, «le notizie si diffondono in fretta. Ti conviene far attenzione, se hai un segreto».
«Me ne ricorderò» dico sorridendo e annuendo allo stesso tempo, come a mostrarle di aver afferrato il concetto. Mentre Marisol indossa la sua uniforme, mi racconta un po’ di sé: è spagnola ed ha sempre vissuto a Barcellona, è una ragazza dalla battuta sempre pronta e sprizza allegria da ogni poro, ha una risata contagiosa ed è tremendamente schietta, si è trasferita a Londra da circa tre mesi e da due lavora qui in caffetteria.
Dal momento in cui è cominciato il nostro turno, non abbiamo avuto tregua: i clienti affollano il locale, facendo sì che ci sia sempre fila alla cassa, mentre gli ordini si moltiplicano a dismisura. Per questa volta, Marisol si è offerta per preparare le bevande, vista la mia poca esperienza, ma a causa di questo continuo via vai di gente, corriamo senza sosta tra il bancone e i tavoli da ripulire. Per le cinque ore della durata del mio turno, non ho fatto altro che prendere ordinazioni, scrivere nomi sui contenitori da asporto e ascoltare più volte due parole italiane che perdono il loro accento: cappuccino, che diventa capucino, e latte, che diventa lattè. Credo che non ci farò mai l’abitudine.
Per fortuna, alle diciannove in punto, il locale si svuota e Marisol ed io finiamo di ripulire le ultime cose prima di chiudere la caffetteria.
«Quasi dimenticavo...» dice, subito dopo aver chiuso la porta d’ingresso. «Questa è tua» continua, porgendomi una copia delle chiavi della caffetteria. «Ti servirà domani mattina, nel caso in cui Paul faccia tardi».
Annuisco, stringendomi di più nel cappotto, che riesce a mala pena a schermare il freddo pungente, e ci dirigiamo insieme alla fermata della metropolitana, percorrendo parte del viaggio insieme. Marisol mi chiede di più della mia vita, delle mie passioni e dei motivi che mi hanno spinto a venire a Londra; le racconto dell’insoddisfacente mondo del lavoro italiano e delle opportunità che spero di trovare qui. Lei annuisce, condividendo ogni parola ed ogni speranza per un futuro migliore.
«Anch’io credevo che il lavoro alla caffetteria fosse qualcosa di temporaneo, una sorta di trampolino di lancio, ma poi mi sono affezionata così tanto a quel posto che non riesco ad immaginare come abbia fatto a vivere senza» confessa, con un’espressione felice sul volto. «Ho perfino smesso di cercare un altro lavoro» mormora, prima di salutarmi con un altro abbraccio e scendere dalla metro.
Io non so cosa aspettarmi dal futuro.
 
Il palazzo dove si trova il mio appartamento è silenzioso, così una volta entrata, ho la sensazione che abbia chiuso fuori una realtà troppo scomoda da accettare. Mi rifugio in casa, accendendo al massimo il riscaldamento e sfregando le mani tra di loro in modo da far circolare il sangue più velocemente; mentre aspetto che si scaldi il piatto pronto che ho comprato al supermercato, mi infilo una felpa sopra i vestiti, nella speranza di riuscire a proteggermi dal freddo. Accendo il televisore, portando il piatto e la bottiglia d’acqua in salotto, per poi cenare lì, seduta sul divano. Lo squillo del cellulare mi fa quasi andare di traverso l’acqua.
«Ciao, Emma. Come stai?».
«Ciao, Marta» saluto mia sorella minore, mentre un’espressione felice compare sul mio volto. «Qui va bene, tutto sommato» mi sforzo ad avere un tono allegro e soddisfatto, mentre ascoltare la sua voce non fa che allargare la voragine che sento aprirsi nel petto.
«Sicura di star bene?» domanda cauta e, conoscendola, avrà alzato un sopracciglio.
«Mi manca un po’ casa» ammetto, sospirando appena. «Ma credo sia normale per i primi giorni».
«Sai che qui c’è sempre un posto per te» mormora.
«Lo so».
«Facciamo così» comincia, interrompendo il silenzio che si era creato, «Vivi al massimo questa esperienza e nel caso in cui ti manca così tanto l’Italia, torna qui. Ci sarò io ad aspettarti a braccia aperte».   
Annuisco, sorridendo a quelle parole, che mi scaldano il cuore come se fossi lì accanto a lei.
 
Il mattino seguente quando la sveglia suona, il cielo è ancora buio; esco di casa, cercando di coprirmi il più possibile. Le macchine scorrono lente lungo le arterie della città e i pochi pedoni in giro a quest’ora si affrettano per raggiungere la stazione della metropolitana. La caffetteria è ancora chiusa e tutto è così silenzioso che fa quasi venire la pelle d’oca. Di questo fantomatico Paul non c’è nemmeno l’ombra e, per fortuna, Marisol mi ha dato una copia delle chiavi, così non dovrò aspettarlo all’esterno. Nonostante abbia fatto tutto con calma, è ancora presto per aprire il locale e non si vedono clienti all’orizzonte; ne approfitto per sbirciare in magazzino, accendere la macchina per il caffè e ricaricare i dispenser dei tovaglioli, attendendo che le lancette dell’orologio segnino le sei in punto.
«Ciao» ansima un ragazzo dai capelli rossicci, entrando nella stanza. «Ho fatto tardi». 
«Sei Paul?» chiedo e lui annuisce col capo, provando a riprendere fiato.
«Mi cambio e ti raggiungo subito» dice veloce, puntando i suoi occhi verdi nei miei, per poi scomparire oltre la porta dello spogliatoio. Ritorna dopo qualche minuto, chiedendomi se fosse già arrivato Chris.
«Chi è Chris?» domando, non ricordando nulla a riguardo.
«Il ragazzo della pasticceria» mi informa, alzando le spalle. «Doveva consegnarci i dolci dieci minuti fa» ammette, estraendo una rubrica telefonica dal cassetto del bancone.
«Buongiorno» mormora un ragazzo, entrando con una scatola tra le mani.
«Eccoti qui», lo saluta Paul, «Come mai sei in ritardo?».
«Io...» dice imbarazzato, stringendosi nelle spalle. «Ho fatto un po’ tardi ieri sera, quindi...».
Paul lo fulmina con lo sguardo, prendendo la scatola, mentre Chris abbassa la testa, sempre più a disagio.
«Oh, non preoccuparti», intervengo, aiutando Paul a riempire la vetrina dei dolci. «Non sei l’unico che ha fatto baldoria la notte scorsa» continuo, ridacchiando appena. Sulle labbra del ragazzo delle consegne si fa largo un sorriso, che fa formare due fossette sulle guance, ed i suoi occhi verdi appaiono più brillanti, come a riflettere il suo stato d’animo.
«Quindi, diciamo che mi merito un caffè per recuperare la carica» dice col suo accento tipicamente inglese, mentre i primi clienti entrano nel locale.
«Guarda che devi pagarlo» mormora Paul, allungando una mano.
Chris estrae qualche moneta dalla tasca dei jeans e mi raggiunge dall’altro lato del bancone; compio i vari passaggi che ieri Marisol mi ha ripetuto fino allo sfinimento, che ho ripassato ripetutamente come un mantra fino a poco fa.
«È il primo che faccio» mormoro, porgendogli la tazza. «Se è imbevibile, te lo faccio rifare da Paul».
Il ragazzo ne beve un sorso, senza distogliere lo sguardo dai miei occhi; si lecca le labbra, come per assaporare meglio la bevanda.
«Non è affatto male, Emma» dice, leggendo il mio nome sulla targhetta.
«Davvero?» domando, incredula di esserci riuscita al primo tentativo.
«Ottimo lavoro!» si congratula Chris, per poi fare l’occhiolino.
«Non la distrarre» mormora Paul, portando alcuni bicchieri da asporto con le ordinazioni dei clienti. «Non la sto distraendo» ribatte, prendendo un altro sorso di caffè. «Le ho fatto da cavia. Potevo rimetterci la pelle».
«Non ti sembra di esagerare?» chiede il barista, alzando un sopracciglio, per poi ritornare alla cassa scuotendo la testa. Chris ridacchia, passandosi una mano tra i capelli ricci, per poi leccarsi le labbra ancora una volta. Lo ignoro, concentrandomi sulla preparazione dei nuovi ordini, mentre i loro proprietari attendono impazienti oltre il bancone; dopo qualche minuto in più del dovuto, prendo i tre bicchieri e li consegno ai clienti, mentre Chris è ancora lì, che mi sorride.
«Peccato che tu non abbia sbagliato a fare il mio caffè» dice, passandomi la tazza vuota. «Avrei avuto una scusa per invitarti ad uscire».
Lo guardo non sapendo cosa dire, lusingata dal suo invito e sbigottita al tempo stesso.
«Ci vediamo domani» dice sorridendo, per poi fare un cenno con la mano a Paul ed uscire dal locale.
La mattinata procede tranquilla, tra Paul che mi sorveglia dal suo posto dietro alla cassa e le bevande da preparare; per fortuna non ho confuso gli ordini, ma in compenso, mi sono bruciata con l’erogatore del vapore.
«Come va la mano?» chiede il mio collega in un momento in cui non ci sono clienti da servire.
«Brucia un po’» ammetto, guardando la pelle arrossata del dorso della mano destra. «Ma sopravvivrò, non preoccuparti» mormoro, alzando le spalle.
«Bene. Vuoi andare a pulire i tavoli sopra, allora?» domanda divertito, porgendomi lo straccio ed il vassoio.
«L’onore è tutto tuo. Ti controllo da qui, mentre mi godo questa piccola pausa» dico, dandogli una pacca sulla spalla.
«Allora se arriva qualche nuovo cliente, ci sei tu alla cassa».
Come se le sue parole fossero una sorta di premonizione, due ragazze entrano nella caffetteria; ascolto di nuovo la pronuncia sbagliata di cappuccino, mentre una signora si unisce alla fila, così prendo gli ordini per poi preparare le bevande. Una volta servito le clienti, Paul si sporge oltre il parapetto del soppalco, per controllare che tutto vada per il verso giusto; alzo entrambi i pollici sorridendogli, mentre la porta si apre di nuovo.
«Buongiorno, cosa desidera?» chiedo al nuovo cliente, una volta che ha raggiunto il bancone.
«Non c’è Steve?» domanda, guardandosi intorno.
«No, ancora non è arrivato».
«Mi sembra di non averti mai vista qui» mormora, con un’espressione pensierosa sul volto. «Sei stata assunta da poco» conclude sorridendomi, dopo aver notato la bruciatura sulla mano.
«È il mio secondo giorno» ammetto, per poi ridacchiare. 
«Guarda un po’ chi si vede! Mi sembrava di aver sentito una voce familiare!» esclama Paul, raggiungendolo. Lo abbraccia, dandogli poi una pacca su una spalla. «Che ci fai da queste parti, Glen?».






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Salve! Come va?
Ecco il secondo capitolo di questa storia.  Come potete notare, prima del titolo di ogni capitolo c'è un asterisco, che porta dritto al video della canzone da cui è tratto il verso successivo. Nel caso in cui non (ri)conosciate da quale brano è tratto, lo avete lì, a portata di mano. Chi ha letto la prima versione di Walk away noterà che sono cambiate un po' di cose. Beh... Non so bene cos'altro dire, se non ringraziarvi per il supporto che mi state dando.
Grazie a tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle preferite e alle seguite e a coloro che hanno recensito il primo capitolo.
Per qualsiasi dubbio, errore o curiosità, non fatevi scrupoli!
A presto,

AnneC

P.S. Buon San Valentino a tutti!


 
   
 
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