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Autore: Paperback White    15/02/2015    6 recensioni
"Is there anybody going to listen to my story
All about the girl who came to stay?
She's the kind of girl you want so much it make you sorry
Still you don't regret a single day
Ah girl, girl"
Chi era questa misteriosa ragazza cantata da John, su un testo scritto insieme a Paul? E se fosse stata una presenza importante nella loro vita?
Questa è la storia del più grande gruppo rock degli anni sessanta, osservata attraverso gli occhi di una ragazza ai più sconosciuta, e di cui la cronaca non lascia alcun ricordo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Lennon, Nuovo personaggio, Paul McCartney, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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PREMESSA: Questa longfic si basa sui fatti accaduti nella vita di John e di Paul, della formazione e della storia dei The Beatles, integrandosi con le vicende degli altri componenti della band. Gli eventi vengono narrati da un nuovo personaggio che segue la loro evoluzione raccontando la storia della sua vita, coincidente in molte parti con lo sviluppo di uno dei più grandi gruppi della storia mondiale. A parte l'introduzione di questa narratrice che racconta in prima persona il suo vissuto (creando inevitabilmente piccole diversità con la vera storia), cercherò di descrivere nella maniera più fedele possibile fatti e personaggi, armonizzandoli con il percorso che voglio mostrare.
 

GIRL: The Beatles Story

 

1. JOHN WINSTON LENNON

(Hello little girl)

 
Hello little girl
Hello little girl
Hello little girl
 
When I see you everyday
I say, mmm mmm, hello little girl
When you're passing on your way
I say, mmm mmm, hello little girl
 
When I see you passing by
I cry, mmm mmm, hello little girl
When I try to catch your eye
I cry, mmm mmm, hello little girl
 
10 Giugno 1947
I numeri fanno parte della nostra vita. Servono a scandire il tempo, a darci una percezione della distanza che superiamo da un momento all'altro nel nostro breve percorso. Abbiamo bisogno di questo metro di misura per tracciare dei punti fermi che danno significato al nostro vissuto, per capire in che direzione sta procedendo la nostra vita e compiere le scelte che riteniamo migliori. Uniti tra loro i numeri formano le date, i segni che mettiamo nella nostra linea temporale. Ogni giorno è una data diversa e irripetibile, ogni giorno è unico e può assumere un significato speciale. Ma fino a quando non lo viviamo non possiamo saperlo.
E’ così che inizia la mia storia; non parte dalla mia nascita ma da un giorno come tanti, in cui ci fu quell’incontro casuale che avrebbe influenzato enormemente il corso della mia vita. Come molti credo nell’esistenza di un destino, qualcosa di surreale, che guida il nostro istinto verso un determinato luogo in un preciso momento: in questo modo ci consente di poter incontrare quel qualcosa o quel qualcuno che cambierà la nostra storia. Non fraintendermi, non sono stata sempre convinta di questa idea, in realtà non perdevo nemmeno troppo tempo a pensare a cose simili. Forse dopo aver ascoltato quello che ho visto e vissuto, anche tu non potrai fare a meno di non crederci. Non è solo la mia storia quella che voglio mostrarti ma anche quella di alcuni giovani ragazzi; il racconto della nostra infanzia, dei nostri sogni adolescenziali e di come abbiamo dovuto combattere con tutto quello che di negativo ci offriva la vita.

Era il 10 Giugno del 1947, ma nonostante i molti anni che hanno appesantito la mia memoria di quel giorno ricordo ogni singolo attimo, ogni momento, ogni sensazione. Era un giorno come tanti, di quelli che sembrano passarti davanti senza che tu possa notarli.
Un timido sole illuminava la città portuale di Liverpool dopo la fitta pioggia che aveva accolto il nostro arrivo. Non ero tipo da farmi infastidire da quel breve temporale; era un qualcosa talmente presente nella mia quotidianità che non mi faceva nessun effetto. Liverpool non mi appariva poi così diversa da Londra: era più piccola, provinciale, ma rispecchiava quello che, nella mia mente infantile, avevo catalogato con il nome di “città”.
La vettura di Mark, il marito di mia madre, si fermò davanti al vialetto di casa di zia Maggie, che eravamo andati a trovare per le vacanze estive. Non era la prima volta che passavamo da lei: l’avevo conosciuta circa un anno e mezzo prima, quando le avevamo fatto visita in occasione di alcune festività. La conoscevo poco ma al momento era l’unica parente di Mark che potevo sopportare. Gli adulti mi riempivano di domande e raccomandazioni, mentre i figli non sempre volevano includermi nei loro giochi; se mi facevano partecipare mi davano sempre le parti peggiori. Mi sembrava che nessuno mi considerasse veramente, visto che ero solo una “semplice parente acquisita”. Per quanto mi riguardava cercavo di passare la maggior parte del tempo per conto mio, per evitare di soffrire ad ogni loro rifiuto.
Mia madre mi fece scendere dalla macchina, coprendomi con l’ombrello verde scuro per fare in modo che non potessi bagnarmi troppo.

-Rosa, Fede! Siete arrivate finalmente!-

La porta si aprì e il largo sorriso di mia zia ci accolse, seguito da un caloroso abbraccio che non potè strapparmi un sorriso. Inspirai il dolce profumo proveniente dal suo collo sottile e la strinsi forte. Lei ricambiò quel gesto e poi si scostò per salutare anche mia madre, lasciandomi ancora inebriata da quell’odore che andava a confondersi con quello proveniente dalla cucina, a cui il mio stomaco rispose positivamente.
Zia Maggie non aveva marito o figli: viveva da sola in quella bella casa, dal cortile puntellato di vasi con fiori colorati. Era una bella abitazione a due piani, dalle mura giallo pallido e la porta bianca. Aveva un aspetto fresco ed era ben tenuta, nonostante non ci fosse un uomo ad occuparsi dei piccoli lavoretti domestici.
All’interno, si poteva ammirare tutto il suo gusto: il mobilio era abbastanza sobrio ma raffinato, con colori chiari che davano ancora più luce a quelle che apparivano ai miei occhi come camere immense. Le pareti e le mensole erano piene di foto di luoghi sconosciuti e vari souvenir presi nei diversi viaggi che doveva aver compiuto durante la sua vita. Io ammirai quella vasta esposizione, spostando il mio sguardo estasiato da ogni mensola, finchè non fui richiamata per sedermi a tavola e mangiare insieme alla mia famiglia.

Dopo aver sistemato le nostre cose e aver pranzato tutti insieme, zia Maggie ci propose di fare una passeggiata al parco, suggerendoci di sfruttare quel poco di sole che iniziava a sbucare da dietro le nubi. Approfittammo di quella momentanea tregua dal maltempo e ci dirigemmo nel luogo che ci aveva indicato, poco distante da casa sua. Ci vollero pochi minuti per raggiungerlo: davanti a noi si stendeva una piccola area verde, con alcuni alberi e qualche gioco per i bambini. L’idea di uscire e sfruttare il bel tempo non era venuta solo a lei: alcune famiglie affollavano il parco, godendosi finalmente quel martedì estivo, liberi dal lavoro e dalla scuola. Poco dopo essere arrivati in quel posto, Mark riconobbe un suo vecchio amico e andammo tutti insieme a salutarlo. Fui presentata a questa giovane coppia che aveva con sé una carrozzina, dove il loro neonato riposava beatamente, estraneo a quel caos di risate e chiacchiere che si diffondevano intorno a noi.
Stufa di restare con i grandi mentre chiacchieravano delle loro “cose da adulti”, chiesi il permesso a mia madre di poter andare a giocare insieme agli altri bambini. Mi diede il suo consenso, a patto che rimanessi ad una distanza visibile ai suoi occhi vigili. Mi guardai intorno cercando qualcosa da poter fare da sola, perché non avevo il coraggio di parlare con nessuno: invidiavo tutti quei bambini che avevano qualcuno con cui giocare.
A scuola non riuscivo ad ambientarmi bene, per via del fatto che fossi italiana e tutti mi guardavano in modo diverso, riempiendomi di domande fastidiose che creavano un muro tra me e loro, come se davvero non fossimo uguali. Inoltre ero molto timida al tempo, e anche questo non mi rendeva facile il socializzare con gli altri. Mi misi a guardare tutti i ragazzini che si divertivano, titubante, senza avere il coraggio di provare a parlare con qualcuno. Ero ferma, in piedi davanti a tutti, con il mio vestito a fiori rosa e un piccolo codino che spuntava dal lato della mia testa. Vedevo sfrecciare di continuo i bambini ma nessuno sembrava notarmi, troppo impegnati a giocare tra di loro. Iniziai a calciare qualche sasso a terra, colpendolo ripetutamente con le mie scarpette nere, leggermente annoiata. Quel posto cominciava a stufarmi e volevo tornarmene a casa; dopotutto avevo anche un libro con cui esercitarmi a leggere, che mi attendeva nella mia stanza.
 Quando avevo già deciso di chiedere a mia madre di andarcene, notai che un bambino mi fissava. Doveva avere la mia età, sei anni, o forse sette anni: indossava un paio di pantaloncini scuri e una magliettina a mezze maniche sul beige. Aveva i capelli corti di un castano molto chiaro, simile al mio, e due occhi color miele. Era diverso dagli altri bambini; lo contraddistingueva uno sguardo sveglio e deciso, che dava l’idea di un tipo sicuro di sé. Continuò a guardarmi ancora per qualche secondo, finche’ non iniziò a dirigersi verso di me. Il mio cuore batteva forte nel petto: non che provassi un qualche sentimento particolare verso quel ragazzino, era uno come tanti, ma era l’unico che avesse dimostrato un qualche interesse nei miei confronti. Se non mi avesse chiesto il nome avrei potuto fingere di essere come lui, senza che la mia nazionalità creasse barriere tra di noi. In fondo, ormai il mio accento era quasi completamente sparito e comunque i bambini non sembravano farci molto caso. Continuai a fissarlo in silenzio, trattenendo il fiato, mentre si avvicinava a me.
Quando mi fu finalmente vicino, sul suo viso si distese un largo sorriso, che ebbe un effetto rilassante. Aveva un bel modo di sorridere, molto particolare, e dava l’impressione di essere un ragazzo simpatico.  Era poco più basso di me e questo mi permise di guardarlo in volto senza dover chinare troppo la testa.

-Ciao- mi disse con quella vocina, leggermente nasale.
-Ciao- risposi io, sorridendogli a mia volta.
-Perché sorridi?- mi chiese lui.
Rimasi un momento senza parole, non sapendo bene cosa dovergli rispondere. Avevo sorriso senza pensarci, ed era la prima volta che qualcuno mi chiedesse il motivo per cui lo facevo.
-Perché... rispondevo al tuo sorriso- farfugliai.
-Si può rispondere ad un sorriso?- mi chiese lui, innocentemente.
-Penso di si...- dissi non molto convinta.
-Uhm, io non credo. Quindi non hai nessun buon motivo per sorridere come una scema-
Non gli dissi nulla, rimanendo praticamente a bocca aperta. Quella frase mi aveva infastidita e ferita: ero stata solo gentile e lui ora mi rispondeva a quel modo? Pensai alle parole giuste da dirgli, per rispondergli a tono.
-Bè... stavi sorridendo anche tu senza un motivo!-
-Oh, ma io ce lo avevo un motivo.-
-E quale dovrebbe essere?-
-Questo-

Senza che me ne rendessi conto mi sollevò la gonnellina con entrambe le mani. Quando presi coscienza di quello che mi aveva fatto reagii, spingendo la stoffa nel posto dove doveva stare, a coprire le mie povere gambe nude. Sentivo le guance avvampare, sintomo che il mio colorito era passato da un bianco pallido ad un rosso acceso. Mi vergognavo da morire e percepii le lacrime farsi strada agli angoli dei miei occhi. Ma come aveva potuto farmi questo?! Sentii la sua risata accompagnata da quella di altri due bambini che erano là vicino e mi voltai a squadrare tutti con rabbia. Erano due ragazzini, uno dai capelli biondi e l’altro castano, entrambi più bassi del bambino antipatico.

-Ve lo dicevo io che era tipo da mutandine bianche con il fiocco!- disse trionfante, l’artefice della mia vergogna.

Io lo guardai in un misto tra rabbia e umiliazione, sentendo dentro di me crescere un desiderio di vendetta. Non volevo dargliela vinta così, senza fare nulla. Lui intuì prima che mi muovessi le mie intenzioni, perché si girò di spalle ed iniziò a scappare, seguito a ruota dagli altri due. Li inseguii, cercando di non scontrarmi con gli altri bambini che popolavano quel posto, riuscendo ad evitarli a fatica. I tre ragazzi scavalcarono il piccolo muretto che delimitava l’area gioco con un salto, e io, con la gonna e la rabbia che avevo in corpo, non diedi prova della stessa agilità. Caddi in avanti parandomi con le mani, e procurandomi varie sbucciature sui palmi e sulle ginocchia. L’ultima cosa che ricordo è che scoppiai a piangere mentre mia madre, sentendo le mie grida, mi correva incontro. Quel ragazzino dispettoso e i suoi due amici, nel frattempo, si erano volatilizzati nel nulla.
 
***
 
-Possibile che questo quartiere sia pieno di teppisti?!- mia madre era furibonda. Non riusciva nemmeno a finire di ingoiare un boccone senza sputare fuori tutta la sua rabbia. Vidi il suo viso contratto in una smorfia, lei che di solito aveva dei lineamenti più morbidi.

Io la guardavo di sfuggita, cercando di non pensare al dolore che sentivo. Quella piccola caduta mi aveva procurato alcuni graffi che sarebbero guariti in pochi giorni ma l’umiliazione si mischiava con le ferite che pulsavano doloranti, alle ginocchia e al palmo delle mani, che avevano preso una bella botta durante l’atterraggio.

-Sono ragazzini, Rosa...- disse Mark, per calmarla. Le accarezzò con dolcezza il dorso della mano mentre i suoi occhi castani mi guardavano, lanciandomi un messaggio di solidarietà. Conosceva bene mia madre e quanto diventasse melodrammatica anche per questioni più futili.
Nonostante le parole del marito lei sembrava arrabbiarsi ancora di più. Vidi lo chignon sopra la sua testa bionda animarsi di vita propria, nello scatto verso di suo -E ti sembra normale questo?!?! A Londra i ragazzini non si comportano così!-
-Ok cara, ma non vedo il bisogno di arrabbiarsi in questo modo. Fede sta bene, non le è successo nulla di grave- cercò di farla ragionare, dimostrando di avere una grande pazienza a sorbirsi quella sua sfuriata.
-E’ difficile calmarsi dopo quello che le è successo- nonostante queste parole tentò comunque di far sbollire la rabbia. Fece un breve respiro e distese le mani sulla tovaglia bianca e beige, come per gettare fuori tutta la sua negatività. Poi si voltò verso di me squadrandomi con quegli occhi verde cristallino, così uguali ai miei.
-Fede non ti azzardare più a metterti a rincorrere dei cretini che hai visto per strada! Vedi cosa ti succede?-

Il suo sguardo di ghiaccio accompagnato dal tono imperativo della sua voce, mi buttarono ancora più giù di morale. Gli feci segno di si con il capo e abbassai lo sguardo. Fissavo il piatto davanti a me con gli avanzi di quello che avevo mangiato, senza capire perché mi rimproverasse. Ero io la vittima della situazione, quella che si era fatta male e che aveva l’orgoglio ferito. Non meritavo quelle parole.

-Per me ha fatto bene!- disse zia Maggie entrando in salone, portando con se un grande vassoio con la frutta.
-Cosa?! Margareth ma che dici???-
La zia posò il vassoio sul tavolo e si sistemò una ciocca di capelli scuri che la infastidiva.
-Scusami Rosa, ma ha fatto bene Federica ad inseguire quei teppisti ed anzi è un peccato che non li abbia raggiunti per farsi valere contro di loro!- Guardava con decisione mia madre mentre diceva queste parole, difendendo la mia posizione.

Si sedette vicino a me e mi fece l'occhiolino, ulteriore prova con cui voleva dimostrarmi il suo sostegno. Nonostante non avessimo legami di sangue era sempre tanto gentile e premurosa nei miei confronti. Mi apparve ancora di più in tutta la sua forza ed indipendenza, spronandomi a non farmi trattare male da nessuno. Qualche anno dopo, continuando a frequentarla e potendola conoscere meglio, sarebbe diventata il mio idolo, il punto di riferimento su come sarei voluta diventare anche io un giorno. Ma in quel momento vedevo solo la mia dolce zia acquisita che mi sosteneva contro i rimproveri di mia madre.
Quel suo discorso mi aveva convinta ancora più di prima: dovevo avere la rivincita contro quei bambini.
 
***
 
Passarono quattro giorni dall'incidente e tornai al parco con i miei genitori e con zia Maggie, che aveva deciso di prendersi una bella boccata d'aria dopo aver sistemato la casa insieme a mia madre. In quei giorni non avevo pensato ad altro che a quello che era successo, richiamata a quel ricordo dal sordo dolore che sentivo ogni volta che afferravo qualcosa o quando piegavo le ginocchia. Volevo fargliela pagare ma non sapevo in che modo: nemmeno nei momenti in cui avevo modo di pensare riuscivo ad elaborare qualche piano da attuare.
Camminavo a passo duro, precedendo i miei parenti che chiacchieravano alle mie spalle. Le sbucciature mi facevano ancora male anche se in maniera più lieve, e potevo sentire un leggero formicolio provenire dalle gambe, sotto la mia gonna nera e bianca. Mia madre, notando la rigidezza con cui camminavo mi riprese più di una volta, dicendomi di smetterla di comportarmi in quel modo assurdo. Ma io avevo assunto il mio ruolo da soldatino pronto a compiere la sua missione e non volevo ascoltarla.
Quando vidi l’entrata del parco sentii un grande furore crescere in me: finalmente avrei avuto ciò che bramavo da giorni. Non mi preoccupai nemmeno più di cosa avrei fatto: mi sarei fatta guidare dall’istinto e li avrei costretti a scusarsi con me. Arrivata nel luogo del misfatto mi guardai intorno, non scorgendo nessuno dei tre ragazzi dell’altra volta. Mi venne un dubbio: se non fossero venuti quel giorno? E se non fossero più tornati? Non avevo la certezza matematica che abitassero a Liverpool o nelle vicinanze del parco. Magari potevano anche essere partiti per le vacanze estive. E io non avrei potuto pareggiare i conti con loro, un'idea mi bruciava più dei graffi che avevo sul corpo.
Dopo quasi un’ora ero più che convinta che non li avrei più visti per quel giorno, quando, girando tra i vari giochi, li scorsi su una panchina poco lontano mentre chiacchieravano allegri. La sfrontatezza con cui ridevano mi fece innervosire ancora di più, ma cercai di trattenermi per non fare passi avventati e per farmi sentire da loro. Non sarebbero sfuggiti di nuovo.
Così mi diressi verso di loro, in maniera discreta e senza far troppo rumore, arrivando alle loro spalle senza che si accorgessero minimamente di nulla.

-Ehi voi!- dissi, puntandogli il dito contro.
I tre ragazzi stupiti, si girarono verso di me. Due di loro mi guardavano confusi mentre il terzo, quello che mi aveva alzato la gonna, sembrava avermi riconosciuto, cosa che compresi notando l’espressione di vittoria che aveva sul volto. Si alzò in piedi, avvicinandosi a me.
-Guardate un po’ chi abbiamo, miss fiocco bianco! Sei venuta a mostrarci quale paio di mutandine indossi oggi?-

Mi fissava con aria di sfida: anche se io ero più alta di lui la cosa non sembrava incutergli alcun timore. I suoi compari lo raggiunsero, mettendosi a ridere nuovamente.
La rabbia cresceva forte dentro di me: volevo farli smettere di ridere, farmi valere, fargli capire con chi avevano a che fare. Fu così che, senza pensarci troppo, gli rifilai un bel calcio in mezzo all’inguine.
La mia gamba era scattata senza che nemmeno me ne potessi accorgere, guidata dall’istinto di far tacere quel bimbo insolente, che rideva di me insieme ai suoi compari.
In effetti, la cosa ebbe l’effetto desiderato.
Il ragazzino era piegato a terra dal dolore e gli altri due mi fissarono per un momento preoccupati, prima di darsela a gambe.
Io pure guardai quel piccolo corpo che si contorceva davanti ai miei piedi, sentendo i suoi lamenti di dolore. Dentro di me si accavallavano sentimenti vari, che sfumavano dal senso di colpa alla gioia per quello che avevo fatto. Mi ero davvero vendicata di lui.

-John!!!!-
Mi voltai, vedendo una signora dai capelli scuri precipitarsi verso il ragazzino, guardandoci con gli occhi spalancati.
-Cosa gli hai fatto? Ti sembra questo il modo di comportarsi con gli altri bambini?!- mi gridò con rabbia.
I miei familiari ci raggiunsero in quel momento, mentre io stavo per mettermi a piangere, colpita dai rimproveri di quella signora.
-E’ colpa di suo figlio che ha rovinato la mia bella bambina!- mi difese con forza mia madre.

Questione di un attimo, vidi quella signora urlare contro di lei per aver cresciuto una “selvaggia” e mia madre che continuava a prendere le mie difese, dicendo che quel “teppista” mi aveva riempito di botte (cosa non vera, ma è sempre stata un tipo che amava esagerare).  Mark, disperato, cercava di calmare le due signore, prendendosi solo insulti, mentre zia Maggie guardava tutti e tre cercando di trattenere una risata.
Io non ci trovavo nulla di divertente. Osservavo tutti spaesata e spaventata, senza sapere cosa dire o fare. Guardai il ragazzino che era là vicino a me, ancora a terra. Mi avvicinai, provando a dirgli qualcosa.

-S-stai...-
I suoi occhi piedi d’odio mi squadrarono e in un secondo mi saltò addosso, tirandomi i capelli mentre io urlavo per farlo allontanare da me, graffiandogli le braccia.
Nuovamente gli adulti cercarono di dividerci, ma io mi divincolai dalla stretta di mia madre e tentai di andargli nuovamente addosso, e lui svelto come la prima volta mi sfuggì, ed iniziammo nuovamente a rincorrerci. Saltammo entrambi il basso muretto e ci dirigemmo all'interno del parco, dove si infittivano gli alberi. Se col primo ostacolo ce l’avevo fatta, col secondo ebbi meno fortuna: con tutta la mia goffaggine presi una grossa radice che mi fece cadere nuovamente a terra, riaprendo la ferita sul mio ginocchio destro.
Il sangue scorreva lungo la mia gamba, seguito dalle lacrime che ormai si erano fatte largo sul mio volto, mentre sussultavo per i singhiozzi. Il bambino si era fermato, sentendo il tonfo alle sue spalle, e mi fissava senza far nulla. Nuovamente ero là a terra, a piangere davanti a lui. Nuovamente ero io la perdente e lui il vincente. Ero tremendamente arrabbiata con me stessa per questo.

I nostri parenti ci raggiunsero e ripresero a litigare ancora più forte, mia madre contro la sua, mentre Mark e mia zia erano accanto a me per vedere quanto male mi fossi fatta.
-Calmati Fede... non è successo nulla di irreparabile- disse mia zia, tamponandomi il ginocchio con il suo fazzoletto.
Io le risposi con un singhiozzo.
-Certo, non avrei immaginato che avresti preso le mie parole in modo così fisico...- sorrise lei, sentendosi in colpa per avermi incoraggiata.
-Mark cerca di calmare tua moglie mentre io vado a comprare qualcosa per medicare le ferite della bambina- disse, guardando il nipote.
Mark mi diede un’affettuosa carezza sulla testolina e poi guardò un momento quel bambino, facendogli un mezzo sorriso. Gesto che in quel momento non capii.
Lui continuava a fissarci senza dire nulla. Non sembrava contento, ma non aveva più quel ghigno vittorioso che era stata la sua caratteristica più peculiare in quelle due occasioni. Anzi, appariva rattristato.
Solo quando entrambi si furono allontanati lui si avvicinò con cautela a me, forse temendo una mia reazione.

-... ti fa molto male?-
-Si- gli risposi.
-Non volevo ti facessi di nuovo male. Volevo solo scherzare, mi dispiace- disse, fissando la mia ferita.
Capii che era davvero dispiaciuto per come fosse degenerata la situazione e non avevo bisogno di sentire altro. Dai suoi occhi riuscivo a leggere delle scuse, che non aveva il coraggio di esprimere con altre parole.
Si sedette accanto a me, facendomi compagnia mentre aspettavo la medicazione.
-Certo che dai dei calci davvero forti per essere una femmina!- mi disse, sperando di sdrammatizzare.
-E tu sei fin troppo furbo per essere un maschio- mi complimentai anche io.
-Come ti chiami?-
-John Lennon. Tu?-
-Federica Auster Martini (1)-
-Non sei...-
-Non sono inglese, sono italiana- dissi, aspettando una sua reazione.
-Capito-
Lo vidi concentrato, tentando di dire qualcosa.
-Fred-Fredr--
-Federica, senza la R- cercai di correggerlo.
-Fr... Oh basta, hai un nome complicato!- sbuffò lui.
-Ehi! Pensa al tuo- gli risposi, leggermente offesa.
Lui alzò le mani, chiedendo nuovamente tregua.
-Senti... E' un problema se ti chiamo Freddie? Non riesco a pronunciare il tuo nome in nessun altro modo!-
Riflettei un momento: non era il primo che aveva questo problema. Purtroppo sembrava che in Inghilterra fosse impossibile il pronunciare la F con la E senza mettere una R di mezzo. Poi alla fin fine, quel nomignolo non era così brutto.
-Ok, va bene-

Lui mi sorrise e io mi sentii più sollevata. Quel muro che per anni aveva oscurato la mia vista si era appena sgretolato davanti ai miei piedi.
Zia Maggie arrivò poco dopo con i cerotti, e si fermò a guardarci. Costrinse tutto il gruppo a voltarsi, facendogli notare quello che, tra urla ed insulti, stava succedendo la accanto a loro: io e John eravamo seduti uno vicino all'altro, giocando a battere le mani mentre ripetevamo una filastrocca. In quel momento non sentivo più nessun dolore provenire dalla gamba.
 
***
 
Nei giorni successivi continuai a vederlo al parco, dandoci appuntamento tutti i pomeriggi; ormai avevamo fatto amicizia. Scoprii altre cose su di lui: aveva quasi 7 anni, gli piaceva leggere quanto me (nonostante avessimo imparato entrambi da poco) e la signora di quel giorno al parco non era sua madre, ma sua zia. A quanto mi aveva detto i suoi genitori si erano separati: suo padre era in qualche paese straniero, imbarcato su una nave per quanto ne sapesse lui; mentre sua madre viveva con un altro uomo. John non poteva vivere con lei, ma a quel tempo non sapevo quale fosse il reale motivo e nemmeno lui lo sapeva (2). Abitava con questa sua zia, che lui chiamava Mimi, ed era una donna molto severa: in compenso il marito, zio George (3), era più affabile e gentile. Mi parlò della grande casa della zia che chiamavano Mendips, narrandomi ogni angolo della casa, tanto che quel luogo divenne per me familiare, ben prima che potessi vederlo con i miei occhi.  Mi disse che alcune volte incontrava sua madre, che si chiamava Julia, che passava a trovarlo. L’uomo con cui conviveva Julia si chiamava Bobby Dykins, da lui soprannominato Twitchy (4), che aveva descritto come un tipo "tutto impomatato e profumato" e di cui non aveva una grande considerazione.

Ad unire me e John fu un vissuto familiare in un certo qual modo simile. Io vivevo con mia madre e il suo nuovo marito, Mark Auster, e come John, non avevo potuto davvero conoscere mio padre. Il mio vero padre era morto durante la guerra, combattendo con onore per la nostra patria. Poco dopo aver scoperto la notizia della sua scomparsa, mia madre che era sempre stata sola, orfana senza genitori, decise di scappare in America insieme ad un gruppo di italiani, poco dopo l'annuncio dell’armistizio nel 1943.
Fu li che conobbe Mark, un giovane soldato inglese, e si innamorò di lui. A guerra finita lui le chiese di sposarla, garantendo un futuro tranquillo per lei e per me. Mi adottò così da poter ottenere la cittadinanza inglese, e da quel momento presi il doppio cognome Auster Martini. Non mi nascosero mai il fatto che Mark non fosse mio padre e anzi, mi trattò sempre con estremo affetto, senza interporsi nel posto che non doveva essere il suo. Una decisione per cui gli sono ancora grata.

Mia madre teneva molto che io conoscessi le mie origini: mi insegnò l’italiano, facendomi sentire canzoni, leggere libri e vedere film prodotti dalla nostra nazione. Io ero nata a Roma, poco dopo lo scoppio della guerra, ma lei mi parlava di quella città con incanto: non era il paese delle bombe, colpito dai tedeschi durante la guerra, ma la culla di una civiltà importantissima. Tutto il nostro paese era stupendo, ricco di storia, arte e bellezza, e negli anni sentii crescere in me questo amore per un posto che non avevo visto realmente.
Mia madre aveva perso ogni contatto con i parenti di mio padre che l’avevano sempre detestata, cercando di impedire il matrimonio e a suo dire, non accettando la mia nascita. Sentii sempre la mancanza di quel pezzetto della mia vita, di mio padre e della mia famiglia paterna e volevo avere maggiori risposte sul perché si fossero comportati in questo modo, sul perché non volessero nemmeno conoscermi; ma lei si rifiutava di parlarne ulteriormente. Così per gran parte della mia infanzia e adolescenza, l’Italia fu un paese fantastico, il ricordo di alcune cartoline e di vecchie canzoni che potevamo sentire sul grammofono che avevamo in casa.

Un giorno John mi confidò che Freddie era anche il soprannome di suo padre, Alfred. Gli chiesi come mai mi avesse dato proprio quel nomignolo ma non mi diede mai una vera e propria risposta. Oggi, dopo averlo conosciuto bene, sono arrivata alla conclusione che volesse solo avere qualcun'altro nella sua vita da poter chiamare in quel modo. Penso che sperasse che il nuovo Freddie avrebbe sostituito il vecchio, da tutti odiato, e che lui aveva a malapena potuto conoscere.
Altro fattore che unì me e John fu il fatto che fossimo figli unici ma con dei fratellastri: io lo diventai con la nascita di Chris, qualche anno dopo. John in realtà aveva già una sorellastra: Julia Dykins, nata a marzo, e successivamente sarebbe arrivata Jackie, qualche anno dopo il nostro incontro (5).

John era un bambino che all’apparenza dimostrava di essere indipendente e dispettoso, cattivo ed egoista, ma non era così: trovai in lui un amico pronto ad ascoltare qualsiasi tipo di problema avessi. Qualche giorno dopo il nostro scontro gli confidai quanto avessi temuto che il fatto che fossi italiana potesse essere un problema, visto che per altri sembrava esserlo. Io soffrivo per questo, nel sentirmi diversa e volevo farmi accettare da tutti. Lui mi rispose facendo un'alzata di spalle, dicendo qualcosa del tipo “Scusa perché ci tieni tanto ad essere accettata da degli idioti? il problema è il loro e non il tuo. Dopotutto a te sta bene essere italiana”.
Fu lui a farmi riflettere su una cosa così banale. Per prima cosa per lui non esistevano differenze, e questo mi fece capire che non tutti davano importanza a queste diversità per giudicare una persona. Inoltre a me piaceva la mia terra, la mia lingua e il mio popolo: io ero fiera di essere italiana.
Questo non doveva più essere un mio problema.
John era sempre stato fin troppo sveglio, più di quanto si potesse immaginare e passare del tempo con lui era piacevole e stimolante: giocavamo, chiacchieravamo e ci confidavamo l’un l’altro. Furono dieci giorni ma bastarono per farci unire profondamente. Come un lampo arrivò il giorno del mio ritorno a Londra. Andai per l’ultima volta a quel parco, teatro della prima disavventura, pronta a salutarlo.
Ero molto triste e il pensiero di non vederlo più mi faceva male. Per la prima volta in vita mia mi ero affezionata seriamente a qualcuno
Lui appariva più tranquillo di me, come se non avesse nulla che potesse renderlo triste.

-Tanto, ti rivedrò la prossima estate- mi disse, con il suo solito sorrisetto.

Partii la mattina dopo, con questa promessa: sarei tornata a Liverpool la prossima estate.
Se solo avessi avuto la benché minima idea di quello che sarebbe successo non mi sarei fatta prendere da quelle paure.

 John Winston Lennon sarebbe diventato uno dei pilastri della mia vita.
 
***
 
Era l'estate del 1948 e mi sentivo al settimo cielo. Avevo aspettato quel giorno con impazienza, contando i mesi che ci separavano e finalmente ero potuta tornare a Liverpool.
La parte più dura era stata convincere mia madre a lasciarmi stare qualche settimana in più a casa di zia Maggie, nonostante Mark avesse solo due settimane di vacanze. Non credo che non si fidasse di mia zia ma piuttosto che già avesse intuito la grande influenza che John aveva su di me. Quel bambino non gli era piaciuto sin dal primo momento e non avrebbe mai cambiato idea.
Riesco ancora a vederla, mentre mi ripeteva "Lascialo stare, quel ragazzino porta guai. Ti farà solo del male". Ed io che facevo finta di non udire quelle parole, pronta a rivederlo nuovamente.
Alla fine grazie anche al grande impegno con cui avevo portato a termine l'anno scolastico, certificato da un’ottima pagella, si convinse. Sarei rimasta ben due settimane in più rispetto all’anno precedente, passando quei primi giorni con zia Maggie. Un mese a Liverpool.

Mi accompagnarono la prima domenica di Giugno, fermandosi per pranzo. Anche il rivedere mia zia mi riempiva di gioia: quella donna fantastica dall’aspetto impeccabile e dal modo di fare così affabile, con cui mi trovavo straordinariamente bene.  L’ennesima bella persona che avevo avuto modo di conoscere in quella cittadina.
Sarebbero potuti passare secoli ma nessuna ruga avrebbe mai potuto intaccare quella naturale classe e bellezza che le apparteneva, senza renderla una donna presuntuosa e snob. Non era il tipo per perdersi in simili sciocchezze.
Mia madre mi lasciò da lei con un grande valigione e un mare di raccomandazioni: "Stai attenta", "Ascolta zia Maggie", "Non farla affaticare", “Non dare retta a John”, ecc.

Appena se ne furono andati chiesi a mia zia se poteva accompagnarmi al parco. Volevo rivedere John al più presto. Lei acconsentì, intuendo il motivo per cui volessi recarmi subito là. A lei John non dispiaceva, dopotutto era solo un ragazzino, cosa avrebbe mai potuto farmi di male?
Quasi la trascinai per arrivare più in fretta alla nostra destinazione: anche se era passato un anno ricordavo ancora tutto come era disposto, quasi avessi visto quel posto il giorno prima. Scrutai tutti i bambini che c'erano, non badando alle occhiate stranite che mi lanciavano, finche’ i miei occhi non si posarono sul ghigno furbo disteso sul volto di un ragazzino: John.
Potevano passare secoli ma le sue espressioni facciali sarebbero state uniche e inimitabili.

-John!- gli urlai, arrivando davanti a lui, senza fiato.
Lui mi guardò per qualche secondo, confuso -Scusa, ma tu chi sei?-
Sentii quasi la terra mancare da sotto i piedi. John mi aveva dimenticato. Ma come aveva potuto? E’ vero, non ci vedevamo e sentivamo da un anno, ma io non avevo fatto altro che aspettare questo momento. E lui si era scordato di me. Eppure, tralasciando i capelli più corti, non ero poi così diversa da prima; ero sempre Freddie, la bambina che lui aveva liberato da quella gabbia che avevo creato io stessa per proteggermi dagli altri.
Un angolo della bocca del mio amico si sollevò, notando la mia reazione alla sua risposta. Riusciva a fatica a contenere una risata. Capii tutto.
-Se vuoi ti do un altro calcio per aiutarti a ricordare- gli proposi, facendogli un finto sorriso.
-Ma certo! Freddie!- disse, abbracciandomi -Quanto tempo che non ci vediamo!-
Io risi, rilassata dopo il gelido terrore che mi aveva fatto passare poco prima.
-Se ti azzardi a farmi ancora scherzi simili giuro che il calcio te lo do davvero!- gli sussurrai all’orecchio.
 
NOTE:
Ad ogni capitolo introdurrò delle note per spiegare alcuni punti o darvi ulteriori informazioni sulle vicende e sui personaggi e per indicarvi dove ho introdotto io stessa delle novità. Il personaggio di Federica è un personaggio da me inventato, non rispecchia realmente me stessa, ed è stato creato in modo che la sua storia si amalgami bene con il vissuto di John e degli altri Beatles, cercando di plasmare un personaggio credibile.

(1)= Nato con il nome John Winston Lennon (a cui poi si sarebbe aggiunto il suffisso Ono), il 9 ottobre del 1940.
-Federica Auster Martini, nata il 27 maggio 1941.
NB: La storia che alcuni stranieri non sanno pronunciare il nome Federica senza mettere in mezzo la R è vera: l’ho vissuta io stessa in prima persona. I casi più eclatanti sono stati alla convention di Supernatural (serie tv che seguo) dove molti mi chiamavano Frederica, e uno di loro ha anche sbagliato a trascrivere il mio nome sull’autografo. L'altro, il più importante, colui che mi ha dato il nome “Freddie”, è stato Gary Gibson, il sosia di John Lennon, che ho potuto conoscere al The Beatles Day del 2014 a Roma: dopo vari tentativi in cui non riusciva proprio a pronunciare il mio nome, ha deciso di chiamarmi Freddie. Per questo motivo ho scelto questo nomignolo, l’unico che potevo darle, visto che trovavo molto carino fare il parallelo tra John e il suo sosia, affidandogli il merito di aver coniato quel soprannome.
-Rosa Benedetti Auster (nata nel 1916) e Mark Auster (1921).
-Margareth Auster (1895)

(2)= Quando John aveva 5 anni  Alfred era ricomparso nella sua vita, chiedendo a Mimi di lasciargli per passare le vacanze insieme al figlio. Andarono a Blackpool (una località balneare molto visitata, che dista 46 km da Liverpool), ma Alfred aveva un piano: portare il figlio con sé in Nuova Zelanda. Julia aveva scoperto le vere intenzioni di Alfred e si era recata a Blackpool per riprendere il figlio. Dopo aver discusso con lui avevano deciso di far scegliere a John con chi stare. Anche se inizialmente John aveva detto che preferiva il padre, quando salutò sua madre non riuscì a staccarsi da lei e Alfred se ne andò abbandonando di nuovo John.
Julia intanto aveva già avuto un’altra figlia poco dopo la nascita di John, Victoria, che fu presa dall’esercito della salvezza. Lei e Alfred non divorziarono mai e dopo alcune relazioni conobbe Bobby e si stabilì con lui. Mimi, vedendo i continui cambiamenti nella vita sentimentale della sorella, la denunciò ai servizi sociali e riuscì a fare in modo che John le fosse affidato, convinta che in questo modo sarebbe cresciuto in un’ambiente sano.

(3)= Mary Elizabeth Stanley Smith (che John ha sempre chiamato affettuosamente Mimi, nata nel 1906) era la maggiore delle 5 sorelle Stanley, di cui faceva parte anche Julia Stanley Lennon (nata nel 1912). Il marito di Mimi era George Toogood Smith (nato nel 1903)

(4)= Julia e Bobby si incontrarono dopo la separazione tra Julia e Alfred nel 1946 (non procedettero mai al divorzo e Julia non si sposò mai con Bobby). John lo soprannominava Twitchy per via della sua tosse nervosa.

(5)= Julia nacque il 5 marzo 1947 e Jacqueline (detta Jackie) il 26 ottobre del 1949.
 
STRUTTURA STORIA: Il titolo si riferisce ad un personaggio, oppure ad un anno o ad un qualcosa di significativo all’interno del capitolo. Il sottotitolo, preso dalla canzone che viene citata all’inizio del capitolo, viene utilizzato per rafforzare il soggetto citato dal titolo, oppure per evidenziare un altro punto importante contenuto in un episodio all’interno del testo.
NB: Le canzoni scelte sono quelle scritte o cantate dai The Beatles, oppure da uno dei membri della band.

ANGOLO DELL'AUTRICE: Ok, dopo mille ripensamenti, titubanze, alla fine, aiutata da splendide persone, mi sono decisa di pubblicare questa storia. E' un lavoro a cui sto dedicando davvero tutto il mio tempo libero dopo il lavoro e i miei amici, e a cui tengo particolarmente. Pensavo di non pubblicarla, temendo di esporre questa parte di me al mondo. Ma voglio superare questa paura per cui eccomi qui finalmente!
Vi anticipo che sarà una bella longfic, ho tutta l'intenzione di scrivere per tutto l'arco della storia della band e anche oltre! E avrete sempre capitoli lunghi e pieni di informazioni che cerco di raccogliere, sperando siano più corrette possibili. Quindi spero di non annoiarvi troppo, e vi assicuro che nei prossimi capitoli sicuramente le cose si faranno più interessanti. Ringrazio Verystrange_pennylane per essere la mia beta di fiducia <3
Vi saluto, e vi lascio con questo capitolo.
Il secondo capitolo verrà pubblicato la prossima settimana, domenica 22 febbraio.
Un bacio
White
  
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