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Autore: Soqquadro04    15/02/2015    3 recensioni
[Non so nemmeno se potrebbe considerarsi spoiler | Tristezza a palate | Damon and Mommy Salvatore | Missing moment/What if? | 2849 parole]
[...] Non si accorge di stare piangendo finché Lily non sospira, passandogli stancamente una mano fra i capelli, le palpebre socchiuse e il viso di bambola improvvisamente esangue – sente le guance umide e non fa in tempo a sopprimere un singhiozzo, breve, secco, quella maschera troppo sottile finita in frantumi in un istante.
«Oh, angelo mio.» ha di nuovo il tono che prendeva nelle sere d'inverno, quando le sue grida spaventate echeggiavano nei corridoi e raggiungevano la camera padronale, strappandola al sonno per portarla da lui, seduta sul suo letto troppo grande, a cantare sottovoce melodie che ha dimenticato da tempo.

C'è stata, una volta, una donna che lo ha amato anche quando aveva paura, e che ha creduto in lui, e che gli ha insegnato che anche se chi ci ama se ne va, un giorno, non sarà mai davvero lontano.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Damon, Salvatore, Mrs, Salvatore
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: Spoiler!
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Autore: Soqquadro04
Disclaimer: non sono miei, no, o tutto questo sarebbe successo molto prima.
Generi: Sentimentale, Malinconico, Triste
Avvertimenti: Spoiler!sinossi 6x15 forse, What if?/Missing moment, teen!Damon
Rating: Verde
N/A - Note dell'Autrice:
Buonsalve, lettrici.
Se ve lo state chiedendo: eh, non potevo mica risparmiarmela, non ora che ho un volto e un nome vero. E poi fra l'altro inizialmente era in programma qualcosa di molto più Fluff ma shh, no comment.
E niente, non ho commenti se non che io la settimana prossima morirò e che quindi probabilmente questo è il mio addio - e che la poesia che ho infilato all'inizio è una cosa meravigliosa.
E sì, lo so che Damon è OOC ma mi sembrava che ci stesse, del resto qui è piccolino e sue madre è mortalmente malata e... *it hurts so much*
Spero che nonostante tutto non vi dispiaccia (e ne approfitto anche per comunicare che il mio portatile è di nuovo in vita, quindi con un po' di fortuna dovrei riuscire a farmi sentire più o meno regolarmente u.u) <3

* Traduzione:
La morte non è niente,
sono solamente nella stanza accanto.
Io sono io. Tu sei tu.
Quello che sono stato per te, lo sono ancora.
Dammi il nome che mi hai sempre dato,
parlami come hai sempre fatto.
Non utilizzare un tono differente, non assumere un'aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere insieme.
Prega, sorridi, pensa a me, prega per me.
Che il mio nome sia pronunciato a casa come è sempre stato,
senza nessuna enfasi,
senza una traccia d'ombra.
La vita significa quello che ha sempre significato.
Il filo non è tagliato.
Perché dovrei essere lontano dai tuoi pensieri,
solamente perché sono lontano dalla tua vista?
Non sono lontano, solo dall'altra parte del cammino.
Vedi, va tutto bene.

A presto,
la vostra Soqquadro

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L'autre côté du chemin


 

La mort n’est rien,
je suis seulement passé dans la pièce à côté.

Je suis moi. Tu es toi.
Ce que j’étais pour toi, je le suis toujours.
Donnes-moi le nom que tu m’as toujours donné,
parles-moi comme tu l’as toujours fait.
N’emploies pas un ton différent, ne prenda pas un air solennel ou triste.
Continues à rire de ce qui nous faisait rire ensemble.
Pries, souris, penses à moi, pries pour moi.
Que mon nom soit prononcé à la maison
comme il l’a toujours été,
sans emphase d’aucune sorte,
sans une trace d’ombre.
La vie signifie tout ce qu’elle a toujours été.
Le fil n’est pas coupé.
Pourquoi serais-je hors de tes pensées,
simplement parce que je suis hors de ta vue?
Je ne suis pas loin, juste de l’autre côté du chemin.
Tu vois, tout est bien.
Henry Scott-Holland*

 

Damon Salvatore conobbe Madama Morte quando aveva sei anni ed era ancora solo il piccolo Salvatore, e non c’era nessun reale problema che toccasse a lui risolvere, né c’erano persone che era suo compito proteggere.
Era il pomeriggio del suo compleanno e la meravigliosa festa organizzata da sua madre, instancabile nonostante il ventre già arrotondato, stava già concludendosi, perlomeno per le famiglie con i bambini più piccoli.

Gli altri ospiti erano stati valutati troppo grandi o troppo noiosi per meritare la sua attenzione, fatto che l’aveva lasciato solo a vagare in giro, sperduto e impigrito nella calura opprimente delle quattro e nella penombra illusoria delle foglie degli alberi.
Finché non aveva sentito i rumori.

C’era, al limite sud del bosco che fiancheggiava Villa Veritas, una costruzione simile a un granaio che gli era da sempre – o perlomeno da quando aveva cominciato a uscire – interdetta, in cui solo suo padre e pochi domestici mettevano piede, almeno una volta a settimana, e a cui Lily guardava sempre con sdegno, stringendo le labbra in una linea dura che non aveva portato mai nulla di buono.
Nella sua immaginazione, aveva finito col diventare la dimora degli spiriti, la prigione di un drago, l’impenetrabile tomba di un gigante – e allora aveva sentito una cacofonia confusa di grida e ringhi, credeva, venire dalla profondità oscura del suo ventre.
Era vicino, abbastanza da udirne gli echi, portati dal venticello – abbastanza, anche, da vedere che la porta (non quella grande, ovviamente, ma una più piccola ricavata in basso, nascosta, per le commissioni veloci) era socchiusa.

Più avanti nella sua vita, se l’avesse mai raccontato a qualcuno, avrebbe potuto dire di non avere esitato nemmeno un istante a correre in quella direzione e infilarsi dentro, provocando generale scompiglio fra gli occupanti – la verità è che ponderò seriamente l’idea di girare semplicemente i tacchi e andarsene il più velocemente possibile, perché da dentro si sentivano suoni che avrebbero potuto benissimo appartenere all’inferno e lui aveva sei anni e nessuna voglia di sparire all’interno di quel posto tremendo, e che alla fine si avvicinò per puro orgoglio.

E nemmeno causò particolare agitazione, in realtà, perché nessuno all’inizio si accorse di lui – una sagoma minuscola e tremante e ammutolita dalla paura, che dalla calma del tardo pomeriggio estivo si era ritrovata nel caos inafferrabile di un gruppo di uomini radunati intorno a qualcosa che non poteva vedere, chiassosi ed impazienti nell’aria irrespirabile per il fumo e l’olezzo di sudore. E qualcos’altro – un odore rugginoso, sconosciuto.

Si era fatto largo fra le gambe degli adulti, inseguendo una punta quasi invisibile di curiosità persa nello spavento, e all’improvviso il ringhiare di sottofondo si era fatto forte, fortissimo, ed era stato spintonato in avanti dall’eccitazione del gruppo, ritrovandosi con le mani appoggiate al bordo di un rudimentale recinto di legno e l’orrore a portata di sguardo.
Due cani lottavano nella polvere rossa, con la ferocia disperata tipica della fame o della pazzia – si slanciavano l’uno addosso all’altro, ormai troppo esausti persino per abbaiare, mirando alla gola, quando saltavano.

Damon Salvatore era indietreggiato di colpo, ansimando, quando il più grande si era avventato sull’altro, mordendo con forza brutale, e uno schizzo carminio gli aveva imbrattato il volto terrorizzato.
Non ricorda molto di quello che successe dopo – ricorda per certo che, quando Giuseppe l’aveva visto, il suo viso era una maschera di rabbia che non aveva fatto altro che accentuare il già insopprimibile istinto di correre via.

Alla fine non ce l’aveva fatta, a scappare – ricorda anche il cuoio della cintura sulla sua pelle, ricorda che non aveva pianto anche se avrebbe voluto, ricorda le urla furiose di sua madre, più tardi, quando lui era già fra le coperte, raggomitolato su se stesso, più stretto che poteva.
Ricorda che Lily quella notte era venuta da lui, il viso arrossato di collera – quando l’aveva vista entrare aveva temuto che l’avrebbe picchiato anche lei, ma poi aveva capito che non era arrabbiata con lui.

L’aveva abbracciato, più stretto che poteva, all’inizio senza dire niente – quando poi aveva sentito le lacrime, finalmente, bagnare la stoffa dell’abito, gli aveva fatto poggiare il capo in grembo, cullandolo appena, carezzandogli i capelli mentre cantava una ninnananna.
Era rimasta a dormire con lui, senza nemmeno svestirsi – giusto allentando un altro poco il corpetto per non rischiare di far del male al bambino –, tenendolo più vicino che le riusciva, baciandogli la testa di tanto in tanto.

Damon aveva sognato per mesi quel pomeriggio, il suo inconscio che, distrutto dalla paura, aggiungeva dettagli sempre più terribili – a volte era suo padre ad uccidere il cane.
Quando alzava gli occhi verso di lui, invece di essere infuriato, sorrideva.

 

Damon Salvatore apre gli occhi di colpo, soffocando un grido in gola – il movimento improvviso fa sì che la sua schiena protesti, costretta com'è nell'unica, scomoda posizione concessa dalla sedia.
Si guarda intorno, spaesato e per un attimo dimentico di cosa stia succedendo, di dove si trovi – la camera è in penombra, le tende pesanti accostate per non far entrare il freddo, e l'aria sa di chiuso, di malattia e sensazioni offuscate (erano anni che non faceva quell'incubo ma può capire perché sia successo, mentre la confusione scompare lentamente e la realtà si infiltra nelle nebbie della sua mente esausta, lasciandogli la pelle umida di sudore e – non lacrime, no – la bocca arida come un deserto).

In un primo momento, mentre cerca di orientarsi nella semioscurità, ancora ansante, non capisce cosa l'abbia svegliato – poi sente l'orribile gorgoglio del sangue che risale, ed è in piedi quasi prima di rendersene conto, gli occhi fissi sulla figura curva di sua madre, resa appena visibile dal raggio di luna che entra dallo spiraglio fra le tende, cercando a tentoni il piccolo catino da porgerle.
Non lo trova, ma lei non ha tempo – lei già piegata in due dal dolore, distrutta.

Trova un fazzoletto in una tasca e forse non è abbastanza, sicuramente non serve a molto ma è tutto quello che può fare (è così giovane, Damon, e lei è tutto quello che ha) – si lascia cadere accanto al letto, tenendole i capelli, mormorando qualcosa di rassicurante, lasciandole fra le mani quel misero pezzetto di stoffa. Si tinge immediatamente di rosso – dovranno bruciarlo, più tardi.

Lei tossisce, e tossisce, e sembra che non debba smettere mai, mai, mai – non riesce a respirare e Damon le tiene le ciocche scure lontane dal viso, e le stringe le dita (quasi violentemente, quasi fino a farle male – non le permetterà di lasciarlo, lasciarli lì e basta, così, e se per riuscirci deve trattenerla a viva forza allora lo farà) quando ad un certo punto lei solleva una mano, a fatica, le palpebre serrate, senza più fiato.
Ha sempre paura, Damon, ormai – sa che ogni respiro che prende potrebbe essere l'ultimo e comunque gli si impedisce di rimanere troppo a lungo dentro con lei, perché tutti hanno paura del contagio. E per quanto se ne vergogni, in un certo senso a volte semplicemente non può – proprio non può – restare in quella stanza opprimente, a vederla consumarsi lentamente, minuto dopo minuto, come una candela abbandonata a se stessa – non può.

E allora scappa, esce a cavallo o nei boschi e comunque non si lascia trovare per giornate intere – quasi nessuno gli parla più, nemmeno Stefan, evita gli sguardi compassionevoli e il dolore altrui, troppo concentrato su quella sua intima colpa e su quello strappo vicino al cuore, che è comparso un giorno e non se n'è più andato.
Eppure ci sono giorni in cui il ricordo di lei si fa troppo lontano, sbiadito, come l'immagine sfocata di un'altra vita, e allora c'è un'altra paura, qualcosa che non ha a che fare con l'imbarazzo della malattia – la paura che non vederla troppo a lungo significherebbe dimenticarla, dimenticarla e poi un giorno svegliarsi e non poterla più rivedere, e se c'è un'altra cosa che non può permettersi è il perderla anche così.

Quindi rientra, in notti come quelle, silenziose e immobili nel tempo, sale i gradini senza rumore e il cigolio della porta che si apre è l'unico suono udibile nel raggio di miglia, o così pare – rientra e Villa Veritas è immensa attorno a loro, il camino acceso nonostante sia fine aprile che lo copre con un sudario umido, e la possibilità di ammalarsi a sua volta che è quanto di più lontano dalla sua mente.
E, ogni tanto, la paura solo scompare – solo chiude gli occhi e forse si addormenta o forse no, le legge vecchi racconti scritti su carta da lettere ingiallita alla luce del fuoco, lascia che la gatta entri a farle compagnia quando se ne va, sopraffatto dalla rabbia di non poter fare nulla per impedire quel volto scavato o il suo ansare disperato.

La verità è che gli sembra di guardarsi allo specchio, a volte – è tutta una vita che gli dicono quanto assomigli a Lily, come abbia i suoi occhi e qualcuna delle sue espressioni, persino le stesse dita, eleganti, mani d'artista (mani troppo deboli persino per sollevarsi dalle coperte, figurarsi per impugnare di nuovo un pennello) –, e vedere l'ombra del dolore riflessa in iridi identiche alle tue non è piacevole.
Ma lo deve a lei, e quindi ogni volta che il senso di colpa glielo permette si ritrova in quella stanza a tenerle il capo – mentre tenta, ogni volta, di regolarizzare il respiro. Non ci riesce sempre, a volte può solo tornare a rannicchiarsi, la fronte sulle ginocchia, provando a restare in sé.

E nonostante questo è lì, è ancora lì, con lui, e non saprà mai come ringraziarla per questo – non potrà mai farlo davvero, perché capisce bene quanto sarebbe solo facile arrendersi e smettere di soffrire, finalmente, ma lei resiste e lotta con tutte le forze che le restano perché non può pensare di abbandonarli senza sentire le lacrime in gola.
Si lascia ricadere sui cuscini, ora, il fazzoletto impregnato di sangue in grembo – lui rimane seduto sul pavimento gelido, al suo fianco, ascoltando il suo espirare rauco come se non ci fosse niente di più
prezioso al mondo.

Quando parla, quasi non ne riconosce la voce – affaticata, dolorante, rovinata per sempre.

«Devi andartene, Damon.» inizia a scuotere il capo ancora prima che lei finisca la frase, la fronte aggrottata. Glielo dice tutte le volte, tutte le volte non le risponde – ma oggi qualcosa è diverso, forse è solo l'agitazione residua dell'incubo, forse il fatto che pare già un fantasma, bianca ed eterea e stanca, così stanca.
«Non ho paura del contagio, e non sono più un bambino.» il suo tono è troppo duro, il volto troppo inespressivo – non è ancora capace di mantenere le maschere, Damon, ha quindici anni ed è terrorizzato e vorrebbe solo lasciare che gli dica che andrà tutto bene, come quando ancora era un bambino e si nascondeva dietro le sue gonne voluminose, aggrappandovisi per non perdersi nei corridoi di tenute estranee o per le strade strette di Mystic Falls.

Il ricordo svanisce in uno sbuffo di fumo, mentre lei si tira a sedere di colpo, sciogliendo la stretta sulle sue dita – è furiosa, e anche così pallida e debole e tremante è capace di incutergli timore.
«Forse non lo sei più, ma io sono ancora tua madre – lo sarò sempre, qualsiasi cosa succeda, e non ti permetterò di parlarmi così.» lo volta verso di sé con una forza sorprendente per una donna tanto magra, prostrata, delicata come vetro.

Lo guarda negli occhi, fermamente, il viso acceso di febbre – è ancora bella anche se non più come lo è stata, bella come la solitudine e la fiamma di una candela, bella di tutti i giorni che non vivrà mai.

Non si accorge di stare piangendo finché Lily non sospira, passandogli stancamente una mano fra i capelli, le palpebre socchiuse e il viso di bambola improvvisamente esangue – sente le guance umide e non fa in tempo a sopprimere un singhiozzo, breve, secco, quella maschera troppo sottile finita in frantumi in un istante.
«Oh, angelo mio.» ha di nuovo il tono che prendeva nelle sere d'inverno, quando le sue grida spaventate echeggiavano nei corridoi e raggiungevano la camera padronale, strappandola al sonno per portarla da lui, seduta sul suo letto troppo grande, a cantare sottovoce melodie che ha dimenticato da tempo.

Vorrebbe scostarsi, asciugarsi gli occhi senza che lei lo veda così, fragile quando dovrebbe essere lì per confortarla, aiutarla, quando dovrebbe essere lui a consolare la sua tristezza, e mai, mai il contrario – lei non gliene dà la possibilità, anche mentre si trattiene dallo stringerlo a sé, quasi facendosi violenza.

«Non c'è nessuna vergogna nelle lacrime, Damon.» è un mormorio dolce, quasi incomprensibile – lo calma quasi subito, i polpastrelli leggeri che gli sfiorano il volto in una carezza impalpabile, il desiderio di abbracciarla che si fa quasi incontenibile, impossibile e crudele nel torturarlo.
«Maman...» usa il francese senza neppure pensarci, d'istinto, semplicemente perché certe volte l'inglese non è quello che gli serve e quella lingua così difficile e musicale sa di casa, del suo profumo di fiori, e gli è familiare più di qualsiasi altra cosa, e le sorride, prova a sorriderle, lei che lo fa di rimando – un sorriso incrinato, spezzato, tremendamente lontano da quello che era (quel sorriso che aveva fatto innamorare suo padre, troppi anni prima, capace di illuminare il mondo in un momento, all'estremo opposto di quello scintillio tenue).

Poi deve vedere qualcosa, in lui – si fa d'un colpo seria, un pensiero fuggevole che le attraversa le iridi e le si annida nel cuore, maligno. Stringe le labbra, ansiosa, la voce strozzata in gola e la pelle umida di febbre.
«Puoi farmi una promessa?» annuisce, nel buio, impaurito dal suo tono – c'è lo stesso dolore che si respira nell'aria durante i funerali, la stessa composta sofferenza.

Prende un respiro vacillante, prova a tornare a sorridere, almeno.

«So che è difficile, lo è ora e lo sarà quando... quando finirà.» serra le palpebre, vorrebbe non doverla ascoltare ma non può deluderla, non può, «La sofferenza ti cambia, e sarà una compagna fedele sempre, sempre, sempre – vorrei tanto che non fosse così. Ma, nonostante tutto, questo non significa che devi lasciare che il dolore guidi le tue azioni. Non ti domina, e se anche ti facesse diventare qualcuno di completamente diverso tu sei forte, amore mio, abbastanza da ritrovarti anche se ti sentirai perso, anche se ti sembrerà impossibile. E non devi abbandonare le persone che ami.» gli tiene le mani fra le sue, ora, mani gelide di ricordi e presenze mancate – Damon sente di nuovo il pianto, incastrato da qualche parte fra i polmoni e il costato, e stavolta lascia che esca, anche se i singulti sono troppo rumorosi e lui è già grande per questo, anche se dovrebbe essere un uomo, ormai.

Appoggia il volto alla coperta, in ginocchio accanto a lei, e le sue dita che passano e ripassano fra le ciocche scure sulla sua nuca non sono altro che un nuovo dolore, la consapevolezza bruciante che presto non rimarrà più niente di lei, niente che non siano i suoi ricordi imprecisi – la gola brucia, i singhiozzi che non si placano anche se non vorrebbe essersi ridotto così, ma non può farci nulla, nulla, ha paura e nient'altro, così tanta paura.
«Madre... mamma! Non so cosa fare – non so... Stefan è così piccolo... se tu non ci sarai più io non sarò capace di esserci sempre, gli farò del male.» pare più calmo, ora, non piange quasi più, ma la sua voce è così piena di ingenuo terrore che Lily si sente spezzare il cuore.

«Faccio male a tutto quello che tocco, mamma.» e non sa come consolarlo senza poterlo stringere, senza potergli baciare la fronte e giurargli su ogni cosa conosciuta che non è colpa sua, che non può portare sulle spalle il peso di ogni disgrazia, che il mondo stesso non crollerà se lui sarà felice. Però non può evitare di tentare, almeno, perché più grande del dolore fisico è il pensiero di lasciarlo così.
«Guardami... guardami. Non è colpa tua. Non sei tu a doverti scusare, non sei obbligato a sopportare tutto questo da solo – non è colpa tua.» gli tiene il viso fra le mani, gentilmente, teneramente. Lo guarda negli occhi, enormi in quel suo viso ancora morbido e che già promette qualcosa di meraviglioso, lucidi e incredibilmente chiari nella penombra.

«Tesoro mio, non puoi pensare questo – non è così, non lo sarà mai. E io non ti lascerò, non davvero. Non sarò lontano, anche se ti sembrerà così.» è stanca, Lily, ormai – sfinita in quel corpo che la sta tradendo e in quella mente sempre più confusa, ma prima di lasciarsi andare sui cuscini, cercando di riposare, deve dirgli un'ultima cosa.

«Ti vorrò sempre bene, lo sai? Niente – niente che tu farai mai, nessuno dei tuoi errori – potrà mai farmi smettere di amarti come ti amo.»
Prima di chiudere gli occhi, fa in tempo a vederlo alzarsi, stanchissimo a sua volta, ed esitare a osservarla sulla soglia prima di andarsene, ancora a malincuore.

Non ne è certa, ma crede di averlo sentito sussurrare.

«Ti voglio bene anch'io.» un giorno ti ritroverò, mamma.

   
 
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