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Autore: Wellknower    16/02/2015    0 recensioni
"Nell'ordine c'è il caos dell'amore, almeno credo..."
Carlo deve rimettere a posto la sua camera e scoprirà, fra la polvere, di esse innamorato, ancora...
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Carlo stava rimettendo a posto la sua camera, oramai era chiaro che lì dominasse il caos e la polvere più incontrastati. Si, era chiaro, ma non a lui, in effetti era la nonna che gli aveva chiesto, o piuttosto intimato, di rimettere in ordine perché sennò, gli avrebbe proibito di sedersi a tavola, il che era una minaccia piuttosto grave per Carlo, non poteva proprio fare a meno delle leccornie di sua nonna. Carlo era grande ormai, frequentava l'ultimo anno di liceo, e la sua testa già spaziava per i corridoi dell'università immaginando di assaporare quel terrificante sapore del caffè delle macchinette automatiche che si mischiava al sapore della sigaretta che aveva in bocca, mentre aveva davanti a sé tutti i suoi amici con cui organizzava tavolate di studio, non sempre troppo proficue o produttive, ma per lui erano il massimo. Tutto questo sarebbe stato realtà fra poco, ma non era solo per il saporaccio del caffè o per avere tutti i suoi amici con lui a studiare che, la mente di Carlo, volava tra fantasie di un futuro più che prossimo; Carlo era pieno di amici e qualcuno di essi era anche piuttosto sincero e importante per lui, ma non era questo il problema di Carlo. Carlo soffriva di una terrificante, quanto comune, malattia: la confusione. Da sempre, fin da bambino, era stato molto, ma molto disordinato, e tutto cominciò lì quando, per semplice rifiuto di un'ingiunzione genitoriale, non rimise a posto quel camion di plastica enorme che gli piaceva tanto. Una stupidaggine, direte voi, e invece, quel piccolo insignificante gesto diede inizio a tutto quello che fu il disordine, il caos, la confusione che permeano, tutt'oggi, la vita di Carlo, nel fiore dei suoi anni.

Carlo cominciò dai libri, gli sembrava la cosa più logica da fare, anche se mai nella sua vita gli era stato detto o si era mai sentito una persona logica. Scoprì che nello scomparto sotto la sua finestra, oltre a quella manciata di libri che realmente gli servivano per l'ultimo anno, ancora stagnavano libri addirittura delle elementari, fogli scritti addirittura a macchina ed una quantità di fotocopie di cui era impossibile trovare la collocazione nel tempo e molto difficile capire di cosa parlassero. Pieno di buona volontà, e tutt'altro che intenzionato ad essere bandito dal tavolo in cucina della nonna, cominciò a dividere e smistare tutto ciò che poteva ancora servirgli e tutto ciò che, invece, avrebbe potuto tranquillamente buttare o, in caso di un poco di fortuna, provare a vendere. Libri, quaderni, fotocopie, foto, biglietti, bigliettini, fogliacci, disegni, giocattolini, peluches, cuffiette, pacchetti di sigarette finiti e non, calcolatrici, righelli, compassi, insomma, si rese conto di avere molto più di quanto credesse quasi da poter aprire lui una sorta di cancelleria dell'usato. Scoprì realmente cos'era la polvere e finalmente capì cosa provò la nonna quando, anni prima, stufa di tutta quella repubblica, aveva provato a mettere a posto lei, ovviamente con risultati assolutamente scarsi costati un assurdo mal di schiena e parecchia bile del fegato. Fece un secondo pensiero logico: mise in ordine i libri e i quaderni che servivano, una volta aver reinserito le fotocopie, quelle ancora utili, all'interno dei libri, riordinò tutto secondo le materie cui appartenevano i vari volumi. Gli sembrò di essersi denaturato, tutto quell'ordine, quel poco che già si era formato, lo metteva a disagio, come se fosse stato in un ambiente piuttosto oscuro, circondato da un'infinità di occhi sconosciuti, sotto l'unico fascio di luce della sala. Ma oltre al disagio, per ogni libro che, con massima cura, riponeva sullo scaffale facendo attenzione a non creare le orecchie, cosa che fin da piccolo gli provocava delle vere e proprie piccole nevrosi, sentiva nascere in lui un sospetto spaventoso. Dapprima cercò di non curarsene più di tanto, di lasciare quella sensazione in disordine fra le altre, mischiata e sommersa dal banale e superficiale pensiero del sugo della nonna che aveva iniziato a spargere un profumo talmente buono da non poter pensare altro. Però, nonostante quella fragranza celestiale, la sensazione e il sospetto si facevano sempre più grandi e Carlo cominciò a fare davvero fatica ad ignorare questa piccola "spia" accesa e lampeggiante nell'angolo più remoto del suo Io più profondo. Fortunatamente fu, all'improvviso, distratto da qualcosa, qualcosa che, senza alcun motivo in particolare, lo affascinava e lo attirava a sé. Carlo era una persona profonda e decisamente molto riflessiva, una volta constato il fascino che subiva entrò dentro di sé e cercò d'indagare ancor prima di esaminare l'oggetto vero e proprio. Nulla. Anche il fastidioso sospetto sembrava essersi dileguato, cosa senza dubbio misteriosa. Dopo un rapido giro nella sua coscienza e un tuffo in tutte quelle che furono le sue esperienze sensibili, allungò la mano sinistra, mentre lo faceva si chiedeva perché, era sempre stato destro, e afferrò un plico di fotocopie, tenute insieme da un'unica pinzata di cucitrice. Non ebbe fretta come fu per tutte le altre fotocopie che trovò e tenne in mano quel giorno, no, prese questo fascicolo con tanta calma tanto da analizzarlo a fondo. I primi due fogli, le copertine del fascicolo, se possiamo così definirle, erano bianche, totalmente, e la cosa, fin da questo piccolo dato, suonò più che strana a Carlo. Per un attimo, come un'ombra sullo sfondo di una scena che stiamo fissando da più che qualche minuto, come il profilo di una cresta che esce e subito si immerge nuovamente nell'acqua, il sospetto di prima, si fece risentire. Dei brividi percorsero, indisturbati, i polsi di Carlo. Inspirò profondamente, quasi d'istinto come se qualcosa lo avesse precedentemente avvertito. Prese il primo foglio dall'angolo in basso a destra con la mano destra mentre la sinistra reggeva quel mucchio di fogli, che ne nel frattempo gli sembrò fossero divenuti più pesanti, con il pollice che spingeva al centro del lato corto, per far sì che diventasse convesso e, così, più rigido. Non riuscì subito a prenderlo, si bagnò indice e pollice con un poco di saliva, si accorse di aver bagnato troppo l'angolo e la cosa gli diede non poco fastidio. Sollevò e rabbrividì, nuovamente. Appunti, semplici e stupidissimi appunti di storia dell'Arte di ben tre o addirittura quattro anni prima. Ebbe un sussulto, colmo d'insoddisfazione, ma la sua ansia non era passata. Non lesse neanche una riga, se non il titolo per capire di cosa si trattava, e girò subito un'altra pagina, un'altra e un'altra ancora. Quello che lesse non gli disse nulla, non gli confermò nulla ma il fascino che quel plico aveva, non diminuì, anzi. Decise che forse sarebbe stato più utile una lettura approfondita e lesse tutto. Ancora nulla. Chiuse il tutto e lo tenne tra le mani, come se sospettasse che toccarlo potesse trasmettergli qualcosa che le parole e i concetti espressi non potevano o, comunque, non erano stati in grado di fare. No, proprio niente. Finì di mettere a posto quanto restava ma continuò a pensare a quei fogli, al peso e a fissarli dopo che li aveva sistemati per verticali a ridosso della finestra creando un'unica ombra in quella camera illuminatissima da un insolito, quanto tiepido, sole di febbraio. Non riuscì a proseguire in quel "restauro" che aveva intrapreso della sua camera, era diventata un'ossessione quel diabolico cartame. La voce dolce e anziana della nonna lo richiamò ad un presente più coerente, si alzò e andò a mangiare. Mangiò, ma non assaporò nulla, non certo per la velocità con cui mangiava, impercettibile, piuttosto perché tutto se stesso era da un'altra parte, mentre il suo corpo introduceva del cibo nello stomaco. Non riusciva a distrarsi, non riusciva a uscire realmente da quella camera polverosa e, adesso, almeno in parte, ordinata e sistemata, una prigione. Vi tornò anche col corpo e si fermò sulla soglia della porta che dava proprio verso la finestra che, dritta davanti a lui, faceva da cornice a quel reperto. Indispettito e arrabbiato avanzò feroce verso quell'oggetto, lo prese con violenza, cosa di cui si pentì l'istante seguente, e alleggerì immediatamente la presa. Poi, capì. La calligrafia, non era la sua, assolutamente no, proprio no, non era neanche di un uomo. Era di una ragazza, una ragazza che Carlo desiderò ardentemente di aver dimenticato del tutto ma, ovviamente, non era così, e più lui desiderava più tutto tornava alla mente. Si proibì di pronunciare, nella sua testa, anche solo il suo nome, ma si sa, più un divieto è categorico, più si è spinti a non osservarlo. Sofia. Sofia Bevilacqua. Adesso, davvero, regnava il caos. Aveva amato quella ragazza, più d'ogni altra cosa ma solo sua nonna, veneta fin dentro le vene, l'aveva capito.

 

"Tesoro mio, ma cos'è questo sorriso? Nemmeno per tua nonna ne hai mai avuto uno così, sai? Dai, come si chiama?".

 

"Nonna, ma che dici, sono solo contento!".

 

"Aaah tesoro mio, -Amore, tosse e panza no se nasconde-!". 

 

Rimase in silenzio e non affrontò mai il discorso con la nonna, forse, proprio il quel momento, se ne pentì amaramente. Decise deliberatamente, nonostante sapesse che gli avrebbe decisamente fatto male, di passare i polpastrelli delle sue dita su quella magnifica calligrafia e la riscoprì. Era morbida, voluttuosa, molto semplice, ariosa e luminosa... Si, gli sembrava di star guardando uno di quegli appartamenti per ricconi, con le finestre immense e quella luce senza fine. Ora che aveva ricordato tutto, chi fosse, quando l'avesse scritta e perché, iniziò lentamente a leggere, ma non le parole per il loro senso, solo a guardarle, tutte le lettere, a imprimersi nella memoria qualsiasi simbolo grafico che quelle mani che aveva amato avevano inciso sulla carta grazie ad una banalissima penna a sfera. Una volta che seppe tutto a memoria e che avesse creato nella sua testa fotogrammi di lei che scrivesse tutto questo, in fondo al suo cervello in estasi, sentì un'altra persona leggere insieme a lui, con voce un po' distaccata, ma meravigliosa e lontana. La riconobbe subito, sentiva la voce di lei, proprio di Sofia, che leggeva insieme a lui, come avrebbe fatto una bambina che si divertiva a ricopiare qualsiasi cosa un adulto potesse dire, un po' per gioco, un po' per scherzo e un po' per attirare su di sé l'attenzione. Gli veniva da sorridere a Carlo, ma anche da piangere. D'improvviso fu colto da una grande e cupa tristezza che raggelò il torpore della precedente scena di loro che leggevano in coppia. Lei, non c'era più, se ne era andata, da più di qualche anno ormai. Carlo si rese conto di non averla mai realmente dimenticata, mai, e questo provocò in lui tristezza, un'infinita tristezza, non sapeva cosa fare. Si sentì come la sua camera prima di quella mattinata, quando era tutto terribilmente in disordine e in confusione, non sapeva più cosa pensare e soprattutto ignorava cosa sentisse adesso. Rimise a posto anche quei fogli, belli e terribili, allo stesso tempo, con rassegnazione e amarezza, non sapeva davvero più nulla, ma la cosa, cambiò a tal punto da portarlo a uscire di casa, senza avvisare la nonna che, invece, dormiva col sorriso beato delle nonne affettuose, sulla poltrona davanti al televisore perpetuamente acceso e col volume al massimo. Non prese nulla; cellulare, chiavi di casa, portafogli o documenti, uscì solo con i suoi jeans, una felpa e un paio di scarpe indosso. Camminò a lungo, senza accelerare o rallentare mai, con un passo regolare, stento a definirlo deciso, ma sembrava sapesse esattamente dove avrebbe dovuto poggiare ogni suo passo, come se vedesse la strada piena di sagome delle sue impronte, camminò a sguardo alto, ma vuoto, e con le mani in tasca, quella grande sul davanti della felpa, facendo attenzione a tenere i pugni chiusi, odiava quando le mani si toccavano all'interno di una tasca. Si spinse davvero lontano, fuori città, molto più in là di quanto era solito andare, parecchio più in là. Si accorse d'esser uscito dalla città e di trovarsi, che ancora era pomeriggio però, quasi in campagna, attorno a lui soltanto i marciapiedi nuovi e spogli delle zone periferiche e qualche capannone, triste che gridava di solitudine, qua e là. Sapeva di non essere ancora arrivato, ma che mancava poco, e quindi proseguì. Qualche altra manciata di chilometri dopo, finalmente, arrivò. Vide di aver abbandonato definitivamente la città e, lungo una stradina sterrata, c'era una piccola rampa serpeggiante che saliva verso destra. Si avvicinò e riprese coscienza. Iniziò a camminare avanti e indietro, era preso dall'ansia e dal dubbio, si chiedeva che fine avesse fatto tutta quella folle, e priva di volontà, forza d'animo che lo aveva pilotato fino a quel punto, si arrabbiò anche con se stesso. Passato qualche minuto, si fece coraggio, salì. La rampa non era esattamente corta, si vedeva che era un ingresso fatto per le automobili, ma, una volta finita la salita, portava in un'enorme radura, un gradissimo spazio verde, dove il prato all'inglese era curatissimo e gli ulivi d'abbellimento magnificamente curati e cintati da degli elegantissimi muretti in muratura rosso vivo. Non appena intraprese i sentiero piastrellato, il sensore, fece accendere tutti i lampioncini, la cosa lo spaventò, lo fece sentire come se lo avessero istantaneamente denudato. Nessuno nei paraggi, per fortuna. Continuò ed il suo unico cambiamento nell'andatura fu quello di spostare le mani, dalla tasca della felpa, a quella dei jeans, nonostante odiasse il fatto che il bordo della tasca dei jeans tendesse a "segare" le mani e lasciarle decisamente al freddo. Non poteva più fare a meno di pensarci, la porta era proprio davanti a lui, una di quelle, si blindate, ma dipinte di verde e con le maniglie dorate, a mo' di casa inglese insomma. Adorava il verde, e nonostante tutta quella quantità di colore, la cosa, non lo confortava affatto. Mentre pensava fosse giusto organizzarsi per dire qualcosa di sensato, la sua mano, si mosse da sola e bussò, così, senza preavviso, tanto che lo stesso Carlo, nella sua testa, si diede dell'idiota da solo. Sentì distintamente i tre tocchi che diede sulla porta trasformarsi in un rumore cupo, lontano e greve, capace di creare eco in quella caverna scura e buia ch'era diventata la sua anima. Non attese molto, ma per lui passarono decenni. La porta, non si aprì, con grande sorpresa di Carlo. Non se lo spiegava... Ora di cena non sembrava gli fosse, anche se non aveva un orologio per constatarlo, e non riusciva a darsi, benché ne possano esistere a milioni, una motivazione per cui quella casa sarebbe potuta esser stata vuota. Audace, e anche un po' alterato, bussò nuovamente ma non poté fare a meno di ridarsi dell'idiota. Stavolta sentì dei passi avvicinarsi, ne fu terrorizzato, e per questo, forse, davvero, rimase immobile. La maniglia schioccò e la porta iniziava già a cigolare quando, nella sagoma dell'ingresso di casa, si stagliò una figura femminile.

 

"Carlo!?". 

 

"Ciao, Consuelo, tua figlia c'è? Scusa l'orario e l'assenza di preavviso ma devo dirle una cosa importante...".

 

Consuelo non rispose, non riuscì neanche a respirare dalla sorpresa, a dire il vero, si limitò a continuare a fissarlo, come se avesse visto suo padre tornare in vita e venirgli a bussare a casa, esattamente, con lo stesso stupore con cui si guarderebbe un morto che, invece, respira.

 

"U-un momento, te la, te la chiamo subito...". 

 

Carlo digrignò i denti quando sentì consuelo urlare così forte il nome della figlia, come se avesse sentito graffiare una lavagna, e sopportò la cosa con un grandissimo fastidio, come se avesse di per sé già rovinato qualcosa. Dopo questo pensiero gli tornò in mente che non aveva pensato minimamente a cosa dire e, contrariamente a quanto si aspettasse, questo, non lo mandò nel panico. Iniziò fissarsi le scarpe, per decisamente troppo tempo, e quando decise che finalmente era abbastanza, rialzò mento e sguardo e la vide. Sofia. Sofia Bevilacqua.

 

"Carlo? Ma-ma cosa ci fai qui?!? Sei impazzito???".

 

"Ho rimesso a posto la mia camera...".

 

"E a me cosa dovrebbe fregare, scusa?".

 

"Ho rimesso a posto la mia camera e ho capito... Ho capito che ti amo...".

 

Sofia non diede segno di capire, a dire il vero era abbastanza impossibile capire un discorso del genere senza essere Carlo, senza sapere esattamente cosa gli frullava, nella testa e nel cuore, ma, sorprendentemente, Sofia seppe rispondere in maniera decisamente pertinente:

 

"Hai messo in ordine? Davvero? Ma lo sai che anche il tempo serve a far ordine? Tu potrai dare la colpa alla tua confusione o al caos che regnava in camera tua, senza il quale non saremmo qua, mi pare di capire, ma una cosa ancora non l'hai capita ancora... Tu non sai dare un valore al tempo! Ora è tardi Carlo, decisamente tardi, lascio a te capire se sia per la cena o per avermi nella tua vita...".

 

"Sofia, forse hai ragione tu, non ho mai capito il tempo, non gli ho mai saputo "dare un valore", come dici tu, ed è per questo che io sono venuto qui subito, sono qui adesso, perché il tempo non vale nulla in confronto a te, per me... E potrò mettere in ordine anche tutto il mondo e sprecare tutto il tempo che esiste, ma questo, questo davvero non ha alcun valore, nessuno, se paragonato a te...".

 

"Pensi davvero di cavartela così?".

 

"No, per niente a dire il vero... So solo che ti amo...".

 

"Un altro tuo grande difetto, mio caro Carlo, non hai mai avuto fiducia in te stesso...".

 

Sofia quella sera baciò Carlo con sincerità, quella di cui sono capaci le donne solo quando sono davvero innamorate e quando nessun'altra cosa impedisce loro di vivere felici...

 

  
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