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Autore: Harryette    17/02/2015    2 recensioni
Monaco di Baviera, 1944.
Le parole di Dimitri, di cinque anni prima durante una notte di tempesta, le risuonano nelle orecchie.
‘’Sai cosa non mi piace di questo posto, Jude?’’
‘’No, cosa?’’
‘’Non ci sono fiori da regalarti’’
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Olocausto
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Numero 45678

 
Credo che nessuno muoia
credo che l’anima in realtà
divenga un’ombra
e al culmine del suo vagare
si adagi ai piedi
d’un fiore non visto.

-Carlo Bramanti
 


Spesso ci chiediamo, sospesi sul filo trasparente che separa la vita dalla morte, se siamo fieri di come abbiamo vissuto.
Le immagini del nostro operato si ripresentano davanti ai nostri occhi in sequenza precisa e cronologica, mostrandoci un cammino che ci sembra giunto al termine.
Se chiudo gli occhi, adesso, trovo solo pace.
Se tappo le orecchie, adesso, sento soltanto la tua voce.
Niente più dolore.
Non ho più fame da una vita. Sorrido. Vivo. Ho vissuto. Non ho paura di morire adesso, su questo letto troppo vuoto e freddo, anche se mi tremano le mani.
Sono felice.
Non c’è una singola immagine della mia vita che mi passi davanti agli occhi senza che sorrida. Non c’è immagine che vedo che non mi piaccia.
Va bene così.
Sto arrivando.
Sto tornando a casa.
 
 
 
Monaco Di Baviera, dicembre 1943
 
L’aria natalizia colora quasi tutta la Germania, le luci attraversano le cupole delle case e donano una speranza che sembrava lontana fino ad un mese prima. Fuori le porte ci sono ghirlande verdi, un verde un po’ spento ma pur sempre colorato, e si sentono dei canti natalizi da lontano. Voci ed echi che si perdono nell’aria fino a polverizzarsi.
Le luci e l’albero di medie dimensioni in piazza si spengono alle nove in punto, anche il 24 dicembre. C’è pur sempre la guerra.
Le case tedesche conservano, però, sempre quell’aria allegra che contraddistingue il natale. Nonostante il sottofondo di cannoni e bombe, si sente una musica.
C’è pur sempre la guerra, ma il cenone della vigilia non manca a nessuno.
Il cibo non manca a nessuno.
Agli ebrei non era stato permesso fare alcun tipo di celebrazione, per questo le loro case sono facilmente riconoscibili. A volte entrano di soppiatto dei soldati tedeschi, perché non danno più peso alla proprietà privata. Non se la casa è di un ebreo, almeno.
Judith attraversa la landa desolata dove si trova casa sua, un quartiere ebraico e per questo totalmente spoglio, e si stringe nel cappotto marroncino che le arriva alle caviglie. Era uscita per cercare qualcosa di particolare da cucinare quella sera, almeno per la Vigilia, ma non le era stato possibile.
Quando era arrivata al negozio alimentare più vicino era stata bloccata da una mano possente e ruvida. L’aveva afferrata di botto e lei si era girata altrettanto violentemente. Era un uomo adulto, sulla cinquantina probabilmente, ed era ebreo. La stella di David sul suo petto, cucina fin dentro la stoffa della maglia e fin sotto la pelle, brillava come un faro.
Si era tranquillizzata, perché – per un attimo – aveva temuto potesse essere una delle SS. I soldati tedeschi raramente sparavano agli ebrei per strada, anche se c’era stato qualche caso particolare, ma si divertivano con i modi più brutali. Judith aveva pensato che, probabilmente, perfino un’SS festeggiava il Natale.
L’uomo brizzolato e smunto dinanzi a lei le aveva indicato un cartello all’entrata del negozio. Lei si era voltata e, una volta letto, era stata presa da una tale rabbia che aveva dovuto trattenere un pugno diritto davanti quel vetro. Erano le sette e mezza, il coprifuoco era fissato per le otto e quindi non era ancora scattato, eppure lei – così come quell’uomo – non aveva il permesso di entrare.

 
VIETATO L’INGRESSO AGLI EBREI.
 
Judith aveva pensato che, fino a quel momento, quello era sempre stato l’unico negozio che permetteva perfino l’entrata dei cani.
‘’Tra poco ci imporranno una tassa anche sull’aria’’ aveva ringhiato, scuotendo la testa.
E’ bruna, Judith. Gli occhi di un azzurro così accecante da sembrare quasi come il vetro. Si è sempre considerata una tedesca, prima del 1940. E’ nata a Monaco di Baviera, è cresciuta a Monaco di Baviera, andava a scuola a Monaco di Baviera – prima che impedissero agli ebrei di frequentarla -, e ha sempre adorato Monaco di Baviera.
Ora è tenuta prigioniera, letteralmente, dalla stessa città che l’ha sempre resa felice e fatta sentire libera.
A diciott’anni Judith vede ed ha visto così tante ingiustizie da far accapponare la pelle. Finge di non notarlo e di non dargli peso, ma perfino le persone per strada le sono a debita distanza. Non le è neanche più permesso camminare sul marciapiedi, ma per strada. Forse sperano che una macchina la investa.
‘’Ci uccideranno’’ le aveva detto quell’uomo, gli occhi di chi aveva visto troppi orrori per trovare la forza necessaria a sopravvivere. ‘’Himmler ed Hitler ci stermineranno tutti, è solo questione di tempo’’
Judith aveva voltato le spalle ed aveva fatto per andarsene. Era stata bloccata dalla voce del medesimo signore, che si stava allontanando anche lui. ‘’Lei è giovane, signorina’’ aveva detto. ‘’Si salvi’’
Ora è a casa, non ha comprato niente, ha freddo e pensa ogni singola parola che le è stata detta. Sono mesi che lo dice a sua sorella e ai suoi genitori, ‘’ci uccideranno, dobbiamo andarcene’’
Monaco e tutta la Germania sono braccate, ci sono pochissime possibilità di uscirne vivi. Eppure Judith si è documentata tantissimo, ha cercato dappertutto, ed ha scoperto che alcune persone – una percentuale minima – ce l’hanno fatta.
‘’E’ stato nel 1940, era diverso’’ le aveva detto suo padre Mark.
E lei ha rinunciato.
Ci uccideranno tutti.
Quando arriva a casa sente odore di pane. Siccome era difficile per lei o sua sorella Katerina andare a comprarlo da sole, sua madre aveva deciso che l’avrebbe impastato lei ogni volta. Posa le chiavi sul suo pianoforte, come sempre, e raggiunge la cucina.
Suo padre è seduto a tavola, per la terza sera di fila. Non è mai capitato prima di allora. Sia Katerina che Judith fingono di non sapere, ma sanno benissimo che ha perso il lavoro. E ne conoscono anche il motivo.
Lui sta leggendo il giornale e la madre è indaffarata con la pasta di pane, per cui non la sentono arrivare. Judith sa che è stupido e sbagliato, eppure poggia una spalla sullo stipite della porta e ascolta cosa stanno dicendo. La urta così tanto il fatto che, davanti a lei e sua sorella, Mark e Amalia si comportino sempre come se non ci fosse nessuna guerra. Come se non scomparissero persone senza apparente motivazione. Come se non ci fossero le SS, i campi di lavoro, Hitler, il nazismo, le leggi razziali, la razza ariana e quella semita. Come se non ci fosse morte.
‘’Smettila Mark’’ la voce di sua madre è autoritaria, come sempre, eppure rotta ed inclinata. ‘’Non dire queste cose, basta’’
‘’Amalia’’ sospira suo padre, e lei si convince che qualcosa non va. Non l’ha chiamata Lia come suo solito, ma con il nome intero. ‘’Ma come fai a non rendertene conto? Adesso non possiamo neanche più comprare il pane senza che ci caccino via! Che vita è? Non sarebbe meglio ci sparassero e basta?’’
‘’Smettila!’’ urla sua madre. ‘’Non voglio più sentire una sola parola su quest’argomento. Questa è una casa pacifica. Non voglio si parli di morte qui’’
Judith piomba in cucina quando sua madre chiede a suo padre perché ci stia mettendo così tanto per comprare della pasta e qualche dolce, perché nella voce di Amalia ha sentito una vena terrorizzata.
‘’Sono viva’’ dice, entrando di soppiatto. ‘’Non mi ha sparata nessuna SS, anche se ne ho vista una davvero molto carina. Mi sarei fatta perfino sparare da uno così’’
Suo padre sogghigna, lo vede benissimo. Sua madre non la prende sul ridere, invece. Il suo tentativo di rompere il ghiaccio è fallito miseramente.
‘’Jude’’ e la voce della sua mamma non è mai stata così sfinita e atona. ‘’Per favore, queste battute di spirito evitale’’
‘’Mamma solo perché c’è la guerra in Germania non vuol dire che ci debba essere anche a casa nostra’’ rispose, seccata. ‘’Stavo solo scherzando’’
Lo sguardo di Amalia, tuttavia, non cambia. Sempre quel cipiglio fra le sopracciglia che le si forma solo quando è preoccupata. Sempre gli occhi azzurri, esattamente come i suoi, più scuri di parecchie tonalità. Sempre il volto più vecchio e più scavato. Dimostra tre volte i suoi quarantadue anni.
‘’Scusa’’ le sussurra, e la vede leggermente più tranquilla. Un fardello in meno.
‘’Comunque non ho trovato niente all’alimentari, perché…’’
Tuttavia, stavolta, suo padre non le fa finire il discorso. Forse ha già capito e non vuole che la schiena di sua moglie si curvi ancora di più. ‘’Va bene, faremo a meno del dolce. Mangiamo?’’
 
 
 
 
Monaco di Baviera, caserma militare, 1943
 
Dimitri sente dei passi lungo il corridoio. Li percepisce anche se sono lontani. Cerca di capire a chi possano appartenere, ma non ne ha il tempo. La porta della sua camera si spalanca e davanti a lui trova il soldato Fischer, i capelli ancora più dorati della volta precedente e il fucile che ancora gli pende dalla cintura della divisa.
Dimitri non si alza dal letto sul quale è steso, anzi gli riserva una guardata omicida. Se c’è un soldato che detesta immensamente quello è proprio Adam Fischer. Ed è il suo compagno di camerata, il che non fa altro che aumentare il suo disprezzo.
‘’Che cazzo vuoi Fischer?’’ domanda, perché quella è la sua ora di pausa e non ha intenzione di sprecarla per l’essere più spregevole di tutta Monaco di Baviera.
Adam fa un fischio prolungato, prima di sogghignare e dire ‘’siamo nervosetti oggi, Hoffman?’’
Dimitri non si prende neanche la briga di risponderlo, e torna a consumare il soffitto. Si accende una sigaretta, inizia a fumarla, e Adam Fischer è ancora lì a guardarlo. ‘’Si può sapere che ti serve?’’ salta su come una molla.
Stavolta Fischer sembra sinceramente spaventato dall’eventualità di far arrabbiare una delle SS più temute. Nonostante abbia solo venti anni, Dimitri Hoffman, degno figlio di Otto Hoffman, è già stato promosso da appuntato capo a caporale, e poi da caporale a sergente, e da sergente a tenente. In realtà è convinto di non meritare l’ultimo grado, perché – per ottenerlo – non ha dovuto far altro che ammazzare una povera anziana ebrea solo per difendere un soldato. Si domanda ancora, a volte, che male avrebbe potuto fare ad un uomo armato una vecchietta pelle ed ossa.
‘’Tenente, ti sta cercando il maggiore Klein’’ gli riferì Adam. Probabilmente se non si fossero conosciuti prima che Dimitri diventasse un tenente, gli avrebbe portato più rispetto e gli avrebbe dato del lei. Al sentir pronunciare il nome del maggiore, però, il ragazzo scende completamente dal letto e dimentica addirittura di ricordarglielo.
‘’E che vuole?’’ chiede, irritato. Non c’è un solo individuo, in quel quartier generale, che gli stia simpatico.
Fischer  scrolla le spalle e poi arranca e raccoglie quattro parole, perché è un atto altamente punibile quello di non rispondere ad un superiore. ‘’Penso voglia assegnarla a qualche campo di lavoro, Tenente’’ e sogghigna. Sogghigna perché, Adam, sa benissimo quanto Dimitri detesti quel posto. E sta godendo, perché lo invidia così tanto che è ormai diventato palese e non lo nega nemmeno più.
Dimitri, con un gesto fulmineo, prende una pistola dalla sua scrivania e gliela punta alla gola. Gli occhi vitrei, quegli stessi occhi che detesta perché così tantotedeschi. Fischer sussulta e sgrana gli occhi blu, spaventato. Stavolta è Dimitri a sogghignare.
‘’Se non la smetti con questo atteggiamento saccente e suicida’’ ringhia. ‘’Ti faccio fare la fine di quegli ebrei che tanto volete sterminare. Chiaro?’’
Adam annuisce subito, e lo lascia andare.
Poi prende la giacca attaccata all’appendiabiti e la mette sulle spalle, per far almeno credere che gli freghi qualcosa della divisa da SS.
‘’Posso sapere’’ chiede Fischer, prima che Dimitri si chiuda la porta della camera alle spalle. ‘’Perché ce l’hai tanto con Hitler? E’ il nostro duce’’
‘’E’ il tuo duce’’ risponde. ‘’Non il mio’’
 
Monaco di Baviera, gennaio 1944
 
Quando le SS tedesche piombano in casa Wolf sono le dieci di sera di un monotono lunedì piovoso. Katerina è nel letto che divide con Judith, con le spalle poggiate al muro e un libro sulle gambe.
Sta parlando di Erik, un ragazzo ebreo che ha conosciuto questa mattina e che l’ha difesa da un fucile, quando Judith sente dei passi sulle scale e la zittisce. Sono mesi che non riesce a dormire tranquilla, paralizzata dalla paura.
Suo padre ha ammesso di non avere più un lavoro, ma le ha rassicurate dicendo che non ci metterà niente a trovarne un altro. Judith sa che non sarà così facile, ma Amalia e Katerina sembrano crederci e non vuole distruggere i loro castelli di gloria.
Le leggi razziali sono diventate ancora più rigide, a tratti insopportabili. Anche se nessuno lo ammette ad alta voce, Judith sa che i Brunswick, al piano superiore, sono scomparsi nel nulla da una settimana.
Che i Brismark, al piano inferiore, non si vedono da mesi.
La voce di quell’uomo, fuori l’alimentare, continua ad echeggiare nella sua testa: ‘’ci stermineranno tutti, è solo questione di tempo’’
Ma i suoi genitori e Katerina non sembrano per niente preoccupati, vivono come se possano entrare in un negozio e fare tardi la notte, e si illude che – allora – non ci sia alcun bisogno di appesantirsi.
Forse la guerra la sta immaginando lei.
Sta leggendo troppi libri, troppi giornali, sentendo per troppo tempo la radio.
Eppure, quella notte, balza dal suo letto e salta in piedi.
‘’Che hai?’’ le chiede Katerina, alzando gli occhi dalle pagine consumate del suo libro e prendendo a guardarla. ‘’Hai una faccia…’’
Judith non riesce a spiccicare neanche una parola. Sente i passi sempre più vicini, che saltano sulle scale di legno, alcuni più violentemente di altri. ‘’Ci stermineranno tutti, è solo questione di tempo’’
Vorrebbe urlare e svegliare tutto il vicinato, ma rimane zitta fino a che non sente dei colpi alla porta. Così violenti che si domanda se il legno potrebbe reggerne un altro.
‘’Aprite!!’’ una voce autoritaria fa balzare in piedi anche sua sorella, il libro che casca a terra. ‘’Aprite, sappiamo che siete in casa!’’
Mark e Amalia arrivano nella loro stanza quasi subito. Katerina piange, sua mamma lo sta già facendo da un po’. Judith si chiede se non lo sapessero dall’inizio, loro.
Suo padre la guarda e, anche se solo per pochi secondi, le sembra che il tempo scorra a rallentatore. Gli occhi castani, così poco ariani, i capelli brizzolati, il corpo minuto e tozzo.
Se quello che ha letto è vero, se non c’è nessuna menzogna nelle notizie che sente alla radio, allora teme che Mark non reggerà le fatiche dei campi di lavoro.
La guarda così a lungo che Judith si sente nuda, forse la abbraccia o forse no, poi apre la porta.
L’ultima cosa che vede sono uomini in divisa, la svastica nera su sfondo bianco e rosso che brilla come un faro e la sua stella di David che le fa provare vergogna e paura per la prima volta. Sente uno sparo, una risata, dei colpi inferti con il manico di una pistola. Un urlo.
Poi più niente.
 
Monaco di Baviera, caserma militare, 1944
 
Il maggiore Klain, ha concluso quel pomeriggio, è la persona più sadica e nazista sulla faccia della terra. Il che è un paradosso, perché quello nazista è un regime, ed è lui che – di norma – dovrebbe vergognarsi.
Ma allora perché non riesce a dar forma e peso a quell’ideale così comune fra gli ariani? Perché non riesce a leggere il Mein Kampf senza provare un tale ribrezzo per il genere umano? Possibile che si siano spinti a tanto?
Che il maggiore Klain è un idiota lo sa da parecchio, ma che sia anche vendicativo un po’ meno. Il ricordo di una delle solite feste in caserma, qualche settimana prima, gli ritorna alla memoria. Quella frase del maggiore – ‘’Tempo sette mesi e Aushwitz sarà di nuovo vuoto’’ – gli ritorna alla memoria ogni notte, seguita dalla sua risposta piccata, nonostante fosse davanti ai maggiori e ai caporali e alle SS naziste più importanti del regime.
‘’In un tempo inferiore a quello che occorre ad una donna per mettere al mondo una vita, voi ne sterminerete dieci mila. Le sembra qualcosa di non discutibile?’’
Sa che è qualcosa di discutibile, ma sembra che ogni soldato che abbia davanti – anche quelli che aiutano le anziane ad attraversare la strada ed i bambini a risalire sulle biciclette – abbiano gli occhi appannati da uno strato di amor patriottico che non ha niente a che fare con la guerra e lo sterminio sistematico delle razze.
Questo, l’ha capito anche Klain. Si è vendicato per quella risposta quasi pro-ebrea e così poco nazista di quella sera, ne è sicuro.
Nessuna trincea, per il tenente Dimitri Hoffman, né tantomeno nessuna linea di guardia, nessun plotone e nessun esercito.
‘’Lei non sarà mandato a combattere, Tenente. L’ho personalmente affidata al controllo e allo smistamento degli ebrei nel campo di concentramento di Dachau. Buon lavoro. Ha sette mesi’’
Ha calcato la parte finale, il bastardo impenitente.
Si pente ogni giorno di essersi arruolato per amore della Germania, inconsapevole dei piani folli di Adolf Hitler, ma questa volta deve stringere i pugni e i denti.
Sette mesi per ammazzare dieci mila persone.
Quando arriva a Dachau, il giorno dopo, vede solo un’immensa distesa di terra nera infinita. Filo spinato a contornarla, come se all’interno vi fossero davvero degli animali, ed una guardia posta in alto ad un pannello di controllo fatto di legno. Il fucile a doppio calibro che ha in mano gli brilla negli occhi, e li chiude. All’entrata, proprio come nel migliore dei film dell’orrore, serpeggia una scritta fatta con ferro, fuoco e – se lo sente – anche sangue.
ARBEIT MACHT FREI
 
Il lavoro rende liberi.
Si chiede chi mai possa liberare, la morte.
Già prima di entrare, prima di vedere le fosse comuni scavate da ebrei per altri ebrei e da polacchi per altri polacchi, prima di vedere le camerate bestiali, prima di vedere i corpi squassati ed ammassati per strada, prima di vedere la gente morire di fame o chiedere di morire o andare a morire, prima di vedere le ossa fuoriuscire dalla carne, prima di vedere il totale annullamento non solo della persona ma dell’essere umano, sa bene che il problema – a Dachau come a Birkenau e come ad Aushwitz – non è la morte nelle camere a gas, ridotti ad un numero e a carcasse.
Il problema è la vita.
Il vivere morendo.
 
 
Monaco di Baviera, campo di concentramento di Dachau, 1944
 
Quando Katerina e Judith mettono piede sulla terra ferma sentono qualcuno urlare, uno sparo, un bimbo che piange ed un anziano che muore di sete davanti ai loro occhi.
Kate trattiene le lacrime ma non ce la fa e, ancorandosi al braccio della sorella, sussurra ‘’cosa sta succedendo’’ ma non è una domanda. Lo sanno entrambe cosa sta succedendo. Lo sanno i loro genitori, spintonati in qualche altro vagone bestiame. Il viaggio è stato breve, solo qualche ora, eppure il tanfo di morte è insopportabile.
Non hanno dato né acqua né cibo a nessuno, durante quell’arco di tempo. Judith accarezza la mano di Katerina e le sussurra di stare calma, anche se dovrebbe essere il contrario, visto che è lei quella più piccola.
‘’Tu lo sai, vero?’’ le chiede Kate. ‘’Hai letto per settimane. Lo sai cosa ci faranno adesso, giusto?’’
Sì.
Sì, lo so. Lo so e lo sapreste anche tu e la mamma, se aveste provato ad interessarvi alla guerra.
Lo so, cosa ci faranno.
Lo so, cosa sta succedendo.
Sì.
Lo so.

‘’No’’ risponde, dopo qualche minuto. ‘’Non lo so’’
Una SS si avvicina a loro in modo minaccioso. Gli punta una pistola contro senza troppi preamboli. Katerina urla e il tedesco grida ‘’chiudi quella bocca, sporca ebrea’’
Non vola più una mosca nell’aria.
‘’Camminate’’ ordina, mettendole in fila dietro a centinaia di altre persone con una stella di David cucita sul petto. ‘’Portate solo un ricambio e qualche coperta, lasciate occhiali, gioielli e averi personali a terra. Sono stato chiaro?!’’
Si eleva un brusio di protesta, qualche coraggioso si ribella, qualcuno sgrida che non toglierà mai la fede, che non riesce a vedere senza occhiali. Non lo sanno, che non gli serviranno a niente.
Un’altra SS spara un colpo in cielo e cala di nuovo un silenzio di morte. La paura si sente a chilometri di distanza, Katerina trema e Judith sta cercando – da qualche parte – il coraggio di sperare dove sa bene che non esiste speranza. Ha letto Dante, da bambina, e le viene in mente un passo che – ancora non lo sa – la tormenterà a vita.
Qui si va fra l’eterno dolore, qui si va fra la perduta gente. Lasciate ogni speranza, o voi che entrate.
Eppure, dopo che ognuno si è spogliato senza saperlo della sua personalità, non è questa la frase che legge scritta con fil di ferro e lacrime: Arbeit macht frei. 
E’ fredda, Monaco di Baviera, e lo pensa da quando ne ha memoria. E’ fredda e malinconica, anche d’estate e anche a Natale. Ma quando varca quel cancello e sente le occhiate di gente che è lì dentro chissà da quanto, quando vede le loro facce smunte e dilaniate, Judith si dimentica del Natale, si dimentica del suo Dio ebreo, si dimentica di cercare il coraggio di sperare. Lo sa bene, cosa succede nei campi di concentramento. Mentre Katerina urla a gran voce il nome dei loro genitori – ‘’Mamma, papà!!’’ – implorandola di darle una mano, ‘che magari le sentono e le raggiungono – ‘’Non dobbiamo dividerci, Jude!!’’ –, Judith si guarda intorno e vede persone con pigiami a righe e inumane e si rende conto che è proprio così che si è sempre immaginata la morte.
Non dice a Katerina che è inutile cercare e chiamare Amalia e Mark. Non le dice che è inutile, perché li hanno smistati prima di partire. Non le dice che è il 1944, che non esiste più nessuna clemenza e più nessun ‘’se non riesce a lavorare gli spariamo’’, che se sei sotto i quarant’anni vivi e se hai un mese in più sei condannato a morte, che le camere a gas non sono un sogno utopico dell’America o dell’Armata Rossa.
Esistono e sente l’odore.
Il tanfo che c’è lì, nonostante molti si guardino in giro spaesati, lei lo riconosce subito. Ha letto quelle poche testimonianze di quelle poche persone che sono riuscite a scappare in Svizzera, troppi libri e troppi articoli per credere che sia puzza di sporco.
Cerca di non pensare al fatto che, forse, sta respirando i suoi genitori. Non sa quanto siano veloci i tedeschi ad uccidere, ma sa che l’Unione Sovietica minaccia la Germania e Hitler vuole cancellare ogni prova dei suoi abomini. Loro.
Non dice a Katerina, neanche quando la vede piangere ancora di più, che se la guerra finisce finiscono anche loro. Lei, che ha sempre sperato in una pace imminente, si trova a sperare che la guerra continui in eterno.
Negli occhi delle quattro SS che dividono uomini da donne, tutti sotto i quarant’anni, non c’è traccia di pietà o umanità: proprio come Caronte e Cerbero alle porte dell’Inferno. Gli occhi di ghiaccio impenetrabili, il fucile stretto in mano, la svastica che le brucia le pupille.
Se Dio esiste, deve chiedermi scusa.
E’ la prima cosa che pensa.
E poi ne arriva un’altra, di SS, esattamente identica alle altre quattro. Cammina più lentamente di loro, meno impostata e quasi ingobbita, il fucile non ce l’ha in mano ma appeso alla cintura e non alza lo sguardo da terra. Sembra non voglia neanche guardarli negli occhi. Li odia a tal punto?
Mentre la fila procede e lei si avvicina sempre di più allo smistamento, nonostante sappia già che andrà ovviamente dalla parte delle donne e sarà prima perquisita di ogni oggetto di valore (come se non si fidassero che li avessero già lasciati a terra), prega.
Ha come l’impressione che non avrà più voglia di farlo per molto tempo.
Se Dio esiste, deve chiedermi scusa.
Arriva a destinazione, Katerina che continua a tremare dietro di lei e a stringerle la mano, le parole dell’uomo di qualche tempo prima nelle orecchie – ‘’ci stermineranno tutti, è solo questione di tempo’’ –, la consapevolezza di essere ad un passo dalla fine.
La SS che si avvicina per perquisirla e spingerla dal lato destro è la quinta, ancora lo sguardo piantato nella polvere. Lei gli è vicina, le sue mani le tastano le cosce, i seni, le tasche e ogni lembo di pelle che potrebbe nascondere qualcosa. Si sente umiliata ed imbarazzata, Judith, ma continua a stringere di nascosto la mano di Kate e non dice una parola.
Succede in un attimo: la SS alza lo sguardo perché lo trova, il ciondolo a forma di fiore che le ha regalato suo padre quando era piccola, nascosto per bene nell’orlo della gonna. Si chiede come abbia fatto e si aspetta che glielo strappi di dosso, nonostante l’abbia privato della catenina per renderlo più mimetico. Eppure il soldato rimane immobile, la mano sul suo fianco e sul suo ciondolo microscopico e d’oro, e la guarda.
Non ha gli stessi occhi gelidi degli altri quattro, lo capisce subito e lascia la mano di Katerina. Rimane così per un tempo interminabile, il freddo nelle ossa e fra le pieghe dei vestiti e della vita, e la SS che continua a fissarla. Jude si chiede quanto ci metta a privarla di quell’ultimo oggetto che le ricorda chi è, e la lasci a morire.
E’ bello, quel soldato, ma lei non riesce a vederlo perché lo odia. Nonostante sia fermo e la stia fissando senza disprezzo, uno sguardo che non riceveva da una vita, lo odia esattamente come odia ogni singolo tedesco al mondo e ogni singolo nazista. La svastica parla, no?
E’ bello, i capelli biondi e gli occhi chiarissimi, ma lei lo vede come Lucifero. Uno dei guardiani dell’Inferno. Un assassino, come tutti gli altri.
Potrebbe addirittura essere colui che ha ucciso i suoi genitori, se non sono più su questo mondo. Si sorprende della sua apatia, perché non piange? Sa che sono morti, e allora perché non piange?
E poi, improvvisamente, il soldato le toglie la mano dal fianco e guarda la SS accanto a lui. ‘’E’ pulita’’ dice, poi le fa segno di entrare.
Il ciondolo è ancora sotto l’orlo della sua gonna.
 
‘’Pensi che ci uccideranno?’’
‘’No’’
Sì.
‘’E allora perché ci fanno dormire così, al freddo, in questo camerone angusto?’’
‘’Non lo so, Katerina’’
Perché non gli interessa come moriamo, abbiamo solo la colpa di esistere.
‘’Pensi che mamma e papà stiano bene?’’
‘’Sì’’
No.
‘’Ma mi dici che hai letto per tutto questo tempo sui giornali? Possibile che non sai niente?’’
‘’Non me lo ricordo, lo sai che sono sempre stata distratta’’
Prega, sorellina. Prega.
 
Si chiama Hoffman, lo ha scritto sulla targhetta attaccata sul petto della divisa. Si chiama Hoffman, a giudicare dai gradi dovrebbe essere un tenente o un maggiore, ed è il capo della sua camerata.
E’ passata una settimana, forse, anche se Judith non si sorprenderebbe se siano passate solo sette ore. Non ha neanche più freddo, il pigiama a righe le sta di tre taglie più grande ed è usato, probabilmente il vecchio proprietario – sicuramente un uomo, a giudicare dalle misure – è morto. Probabilmente stanno morendo tutti.
La kapò del suo reparto è una delle peggiori, le hanno detto quelle poche persone che parlano ancora. Il silenzio regna sovrano, le frustate sulla schiena per chi sbaglia pure, gli spari sono la loro colonna sonora. Neanche salta più. Non ha paura, al contrario di Katerina che non si stacca un attimo da lei e non smette un secondo di singhiozzare, anche mentre lavora o mentre mangia la sua misera razione di cibo.
Non ha paura neanche più di notte. A casa sua, in quella che le sembra una vita precedente, non riusciva a chiudere occhio per due ore di fila. Una di quelle notti, Katerina le aveva parlato.
‘’Ti mancano mamma e papà?’’
Kate aveva venti anni ma ne dimostrava molti di meno, a volte.
‘’Mi mancano le stelle’’ le aveva risposto.
Era contenta che Amalia e Mark fossero morti. Era contenta che non fossero presenti a vedere tutto quel dolore, contenta che non respirassero puzza di morte e che non pregassero un Dio che a Dachau neanche esisteva. Gioisce del fatto che siano troppo lontani per vedere la sofferenza e lo scempio che si sta consumando sulla terra.
Non c’è misericordia, a Dachau.
E’ felice che siano morti. Sorride, a volte.
Se Dio esiste, deve chiedermi scusa.


Hoffman prende lei ed una ragazza dai capelli nerissimi, numero 38593, come domestiche personali della sua casa bellamente diroccata all’esterno di Dachau. Dentro, le case dei tedeschi non possono starci. Non sono degni, gli ebrei, di respirare la loro stessa aria.
Jude si domanda se alle SS piaccia, la puzza dei forni crematori nell’aria. Deve essere l’odore dolce della vittoria.
Piange.
Non per lei o per la numero 38593. Piange per Katerina, da sola chissà dove, da sola sempre. Piange perché tossisce sangue da giorni, sua sorella, e perché lo sa bene che l’igiene non vive nel campo di concentramento. Conosce la tubercolosi, conosce il tifo. Sa che non si curano senza infermeria, e sa che – in infermeria – è meglio non entrarci.
A volte, vorrebbe sapere di meno. Vorrebbe essere come Katerina: spaventata ma inconsapevole. La consapevolezza la rende ancora più arresa.
Arbeit mach frei.
Lasciate ogni speranza, o voi che entrate.

Sono passati mesi dall’ultima volta che ha visto le stelle, ed una sera Kate le ha detto che mancano anche a lei. Più di mamma e papà. ‘’Forse, il loro è un reparto un po’ migliore di questo’’
Sicuramente.
‘’Katerina, promettimi che farai di tutto per vivere’’
‘’Perché dici così? Mi spaventi’’
‘’Prometti?’’
‘’Prometto. E tu, Jude? Tu prometti?’’
‘’Te lo prometto’’
Entra, in onore di quella promessa, nella casa di un assassino senza fiatare. Non ricordava la bellezza di una casa, la bellezza di mobili intagliati e lampadari preziosi, la luce rilasciata da un camino e il profumo di qualcosa sotto al forno. Aveva dimenticato casa sua, avrebbe dimenticato anche il suo nome se Katerina non l’avesse chiamata ogni giorno.
Ed ora?
La numero 38593 ha dimenticato il suo cognome, ma ricorda di avere quindici anni – ‘’ne dimostro di più, per questo mi sono salvata’’ – ed è polacca ma parla bene il tedesco.
E lei? Lei parla bene il tedesco?
 
E’ sera, del 1944 sicuramente – visto che la guerra non è ancora finita, e sapeva che mancava poco – ma di un mese e un giorno che non conosce. Probabilmente è passato febbraio e anche marzo, il freddo sembra essersi attenuato. Ora si raggiungono facilmente gli otto gradi, una vera fortuna. Non indossa più il pigiama a righe ma una vecchia divisa bianca opaca e sgualcita, sicuramente più calda e meno lurida.
La numero 38593 è morta il giorno prima: febbre alta. Laddove non si cura neanche un raffreddore, è ovvio che vi si muore. Il tenente Hoffman, che è sempre fuori casa e ritorna sempre tardissimo, non ne ha presa un’altra.
Non si sono mai scambiati parola, nonostante lei abbia ancora il ciondolo a forma di fiore nascosto in un orecchio. Probabilmente neanche l’ha riconosciuta, ma lei non può dimenticare.
Le ricorda la Judith del prima Dachau, quando immaginava già cosa sarebbe successo ma non l’aveva ancora provato sulla propria pelle.
Non ha notizie di Katerina da esattamente una settimana. Ora che riesce a far caso al sole, conta con attenzione ogni alba ed ogni tramonto per rendersi conto dello scorrere del tempo. Spera e prega ogni notte, di nascosto come se si vergognasse di farlo nella casa di un nazista, che stia bene.
Che non vomiti più sangue.
Che non sia tubercolosi.
Se Dio esiste, deve chiedermi scusa.
E’ sera, sta per andare a letto perché – perfino lì – ha il coprifuoco alle ventidue, quando la porta si apre. Sa che deve essere per forza Hoffman, perché nessun altro ha il permesso di entrare in casa sua. Sa che le sue domestiche tedesche, che hanno un trattamento diecimila volte migliore del suo, sono ritornate a casa dalle loro famiglie da un’ora.
Sono soli ed ha paura ed è contenta, perché finalmente sente qualcosa.
Aspetta che lui entri, perché sarebbe maleducazione andar via prima, e fa un leggero cenno con il capo prima di voltarsi, sperando che lui non la fermi.
Ed invece lo fa.
‘’Fermati’’ ordina, e lei obbedisce con la schiena ritta e le spalle tese.
Ed ora?
‘’Voltati’’
Lei lo fa senza fiatare. Farebbe qualsiasi cosa le chiedesse di fare, dopotutto. Judith, che è di spalle, si volta e lo guarda. Aveva dimenticato i tratti del suo volto, eppure li riconosce immediatamente. Non deve avere più di ventisei anni.
‘’Avvicinati’’
E lei lo fa.
‘’Come ti chiami?’’
I suoi occhi non sono cattivi come quelli delle altre SS o delle kapò. Non sembrano denigrarla o prenderla in giro o disprezzarla. Le mancano, quel tipo di sguardi.
La sua domanda la sorprende ma non lo dà a vedere. Ha imparato a nascondere un sacco di cose.
Jude alza il braccio, anche se non sposta la maglia, indicando il numero tatuato sotto la carne. ‘’Numero 45678’’ risponde.
Hoffman non si muove, ma scuote la testa. Sembra quasi divertito. ‘’No, intendo il tuo vero nome’’
Nessuno glielo ha mai chiesto, da quando ha messo piede a Dachau. Deve pensarci, prima di rispondere, quasi abbia paura di sbagliarlo.
‘’Judith’’ le mancava dirlo. ‘’Judith Wolf’’
‘’Judith’’ sussurra. Le manca qualcuno che sussurri il suo nome in quel modo. Qualcuno per cui non sia solamente un numero sterile. ‘’Quanti anni hai, Judith?’’
Le sembra impossibile che le stia davvero accadendo, che un nazista la riconosca dotata di personalità e porti quasi rispetto alla sua persona. Le sa di assurdo, quella situazione. Il tenente Hoffman è ancora in divisa, ha ancora la svastica inchiodata sul braccio e il berretto a coprirgli i capelli biondi e il fucile sulla schiena, che chissà quanti suoi fratelli aveva condotto a morte quel giorno. Eppure non le sta parlando da ariano, se lo sente. Non le sta parlando da antisemita, non la vede solo come una giudea ma anche come una persona.
Quanti anni ha?
‘’In…’’ balbetta, spaventata. ‘’In che mese siamo?’’
Vuole solo essere sicura della risposta. E vorrebbe ritornare a sapere anche lei, quanti anni ha. Se è già passato il suo compleanno. Anche se non si illude dell’arrivo di una risposta, questa invece arriva.
‘’10 aprile del 1944’’
Ha una voce gentile, il tenente Hoffman.
Gentile?
‘’Diciannove anni compiuti la settimana scorsa, tenente’’ risponde flebilmente, lo sguardo sempre più basso rispetto a quello del tedesco, per portare rispetto come aveva imparato a suon di schiaffi dalle domestiche tedesche. E Hoffman fa quello che lei non si sarebbe mai aspettata che facesse.
‘’Sono Dimitri’’ le dice, tendendole la mano. E’ buio in casa, ma vede i suoi occhi brillare e non lo vede più come Lucifero. Le manca, il contatto con la pelle, e gli stringe la mano.
E poi pensa che, comunque, non la ucciderebbe.
‘’Perché…’’ sussurra. ‘’Perché è così gentile con me?’’
‘’Perché sono una persona gentile’’
Lo sa.
‘’Ma non sta andando contro la legge? Contro Himmler o Hitler?’’
Dimitri non le risponde, le lascia la mano e si sfila la giacca della divisa militare. ‘’Domani dici alla governante di scucirti quella stella dalla divisa. Non voglio più vederla’’
Poi va via.
 
Una settimana più tardi, dopo aver scoperto che Dimitri Hoffman aveva obbligato le domestiche tedesche ad aumentare la sua razione di cibo, lui rientra di nuovo in anticipo e lei decide di non andarsene subito a letto. La sua voce, qualche giorno prima, le ritorna alla mente: ‘’Non esiste il coprifuoco, in questa casa, Judith’’
Le piace, quando la chiama per nome. Perfino la pistola sembra acquisire un altro colore, fra le mani di Dimitri. Le sembra impossibile che un ragazzo così uccida qualcuno. Lo fa?
Ovvio che lo fa. Deve.
Si sfila la giacca e la lancia sul divano, poi la guarda e sembra essere sul punto di dirle qualcosa di importante. ‘’Hai parenti, qui?’’ le chiede. A Judith viene da piangere, per la prima volta dopo tantissimo tempo.
Ha parenti? Ha più qualcuno al mondo?
Si sente denudata, sola e inumana. Preferirebbe la morte. Preferirebbe ricevere la sua pena, essere giudicata, sottostare alla legge del contrappasso e dannarsi per l’eternità, piuttosto che sopravvivere in quel Limbo.
‘’Avevo i miei genitori’’ risponde, monocorde. ‘’E mia sorella. Si chiama Katerina, numero 45679’’
Dimitri non sembra indifferente, anzi, addirittura dispiaciuto. Evidentemente sa bene cosa succede agli ebrei internati a Dachau, dopotutto lei è stata anche fin troppo fortunata. Anche Jude sa cosa succede agli ebrei internati a Dachau, ma preferisce non pensarci.
‘’Vuoi che controlli se sono vivi?’’ le chiede Hoffman, improvvisamente. Crede di aver capito male e ci mette un bel po’ a rispondere.
‘’Forse è meglio di no’’ anela.
‘’Mia sorella e i miei genitori sono morti l’anno scorso, saltati in aria per colpa di una bomba sovietica. Io ero sul fronte e l’ho saputo solamente al mio ritorno. Avrei preferito che qualcuno me lo dicesse prima’’
Non sa se credere a questa storia, ma sa che crede a Dimitri. E sa che ha ragione e che è meglio saperlo.
‘’Lo farebbe davvero?’’ si accerta. Il soldato le si avvicina e le poggia una mano sulla guancia. Non ha paura di infettarsi o prendere qualche malattia o di sfiorare la sua pelle dura. La mano di Dimitri è morbida come la ricordava. ‘’Te lo farò sapere entro dopodomani’’ le risponde, ma la mano resta esattamente dov’era prima.
Judith spera non la allontani mai. Le manca così tanto un po’ di calore umano, qualcuno che la faccia sentire donna e viva e vivente, anche.
In Dimitri non vede più un assassino, non ci riesce. Non vede neanche più la svastica o le armi. Vede solo il graffio argenteo e cicatrizzato ma profondo che gli attraversa tutto il sopracciglio destro. Quando lui abbassa la mano e le spoglia di nuovo la guancia, è lei ad alzare la sua e a portarla esattamente su quella ferita.
Lasciate ogni speranza, o voi che entrate.
Sa che potrebbe ucciderla, sa che non lo farebbe ma – se anche così non fosse – lei nemmeno proverebbe a fermarlo. Forse sta sperando di morire, si sta gettando consapevolmente nella tana dei lupi con il desiderio di essere sbranata. Vuole solo tornare a respirare aria di vita.
Ma quanto dura l’Inferno, Dante? Dov’è Virgilio? Perché sono sola?
‘’Che cosa hai fatto?’’ gli chiede, passando direttamente al tu. Lo fa senza pensarci, in automatico, e serra gli occhi per paura che le arrivi un pugno. Non arriva, sente solo il respiro leggero di Dimitri sul suo polso. Non la sta allontanando, non la sta odiando. Le respira accanto, addirittura.
‘’Una mina vagante’’ risponde.
Ed è in quel momento che Judith realizza che anche i tedeschi sanguinano e si feriscono e soffrono e muoiono. Punta poi il suo sguardo sulla svastica che il soldato ha sul braccio e non riesce a sfiorarla neanche con la punta dell’indice. ‘’Tu non sei nazista’’ dice, e non è una domanda.
‘’No’’ soggiunge lui, immobile. ‘’No, non sono nazista’’
‘’Quindi non mi odi?’’
‘’Non capisco perché dovrei farlo. Non ti odio, Judith’’


Katerina è morta di tubercolosi tre giorni dopo la partenza di Judith per casa Hoffman, glielo dice Dimitri la sera seguente. Il suono delle sue parole mortificate risuona all’interno della casa buia e vuota, e Judith piange.
‘’E’ colpa mia’’ dice. ‘’Non ho saputo proteggerla. E’ colpa mia’’
Non riesce più ad essere contenta per lei, perché non vedrà più scempi. Non riesce a smettere di pensare che preferirebbe saperla sofferente ma viva. Dimitri la abbraccia per la prima volta, ma Jude non ci fa caso. Katerina è morta, i suoi genitori sono morti.
Si divincola dall’abbraccio del tenente e si inginocchia ai suoi piedi.
‘’Judith’’ sussurra Dimitri, tentando di rialzarla. ‘’Ma cosa stai facendo?’’
La pistola che ha attaccata alla cinghia brilla come la stella di David che Dimitri ha buttato settimane prima, quando lei la prende e gliela dà.
‘’Uccidimi’’ piange, implora, prega. La punta dell’arma, però, resta puntata verso il basso. Il tedesco che non parla più.
Arbeit macht frei.
‘’Dimitri sparami’’ continua, persa. ‘’Sparami, ti prego. In nome di Hitler, sparami’’
Dimitri alza la pistola e la avvicina alla sua tempia. Judith chiude gli occhi e si prepara, spera che il colpo parta presto. Eppure non succede. Sente la pistola cadere a terra, Dimitri inginocchiarsi dinanzi a lei e – prima che possa anche solo rendersene conto – le sue labbra contro le sue.
‘’Non posso’’ le dice, scosso e trafelato. ‘’Non posso ucciderti’’
 
Quando si sveglia, ritrova il braccio di Dimitri sulle sue spalle e la sua testa sul petto del ragazzo. I ricordi della notte precedente le ritornano in mente. Le sembra passata una vita dall’ultima volta che si è sentita voluta da qualcuno. Una vita dalla vita.
Sa che non può durare.
‘’La Germania sta capitolando’’ le dice Dimitri. Lei salta perché credeva stesse dormendo. Evidentemente neanche lui dorme mai. ‘’Hitler sa che perderà la guerra. L’Armata Rossa è perfino più vicina di quanto ci eravamo aspettati’’
Non c’è paura o delusione nella voce di Dimitri.
‘’E non sei scontento, soldato?’’ gli chiede. ‘’State perdendo’’
Tanto non si considera più tedesca.
‘’Avevamo già perso nel 1939, quando hanno aperto i campi di prigionia per i sovietici. O nel 1940, quando hanno aperto le porte di Aushwitz. Avevamo perso già al primo sparo contro un ebreo o un polacco. Meritiamo di morire sotto i cannoni dell’Armata Rossa’’
E’ sempre tanto triste, Dimitri. Sempre tanto tormentato, tanto deluso, tanto autodistruttivo. Si odia come se la guerra l’avesse fatta scoppiare lui. Non perché ha dormito con un’ebrea, non perché ama un’ebrea, non perché non è nazista. Si odia perché è tedesco. Non è contento di non essere ebreo, come tutti in questo periodo, ma è scontento di essere tedesco.
Si vergogna.
‘’Non è colpa tua’’ gli dice Judith, ma non riesce a confortarlo. Non può. Non può perché mentre lei è lì, nel suo letto, e ha avuto la fortuna di incontrarlo, milioni di persone stanno piangendo e stanno morendo. Non ce la fa, ad aiutarlo oltre.
‘’Di notte sogno le loro facce’’ le risponde lui. ‘’I volti trafelati di tutte le persone che ho dovuto uccidere. Sento puzza di Zyclon B nonostante faccia tre docce al giorno. Mi guardano dall’alto, quegli ebrei, e mi puntano il dito controLi ho uccisi io. Probabilmente avrei ucciso anche te’’
Gesù è condannato a morte.
‘’Mi hai detto che ne hai fatti scappare cinquanta’’ dice Judith. Non lo fa presente solo per confortare lui, ma per alzare se stessa da terra. Lo sa, che ama un assassino. Sta cercando di vedere meno marcio. Lo sa, che Dimitri Hoffman non è nazista. Dimitri Hoffman non è Hitler. ‘’Li hai salvati, quelli’’
‘’Cinquanta contro quattro milioni’’ risponde.
Jude si sente male e trattiene un conato di vomito.
‘’Devi andartene’’ le dice, all’improvviso. ‘’Più ci avviciniamo alla fine della guerra più vanno veloci. Presto verranno anche nelle case dei soldati, a prendervi e a uccidervi’’
‘’Morirò, quindi?’’
Tanto non ha paura.
Gesù è condannato a morte.
‘’No’’ esclama Dimitri. ‘’Sarai libera. Stanotte sarai libera’’
‘’E tu?’’
Dovrebbe ringraziare il suo Dio ebreo, perché altre persone pagherebbero per essere al suo posto. Perché Dimitri le sta chiedendo scusa da parte del Signore, è la scusa che il Signore le sta offrendo, eppure non ce la fa. Non riesce nemmeno a pensare lucidamente.
Se Dio esiste, deve chiedermi scusa.
‘’Quando la guerra finirà, se ci salveremo, ti troverò di nuovo’’ le sussurra, e sente che è sincero. Che è sempre stato sincero. Ma quel ‘’se ci salveremo’’ la spaventa a morte. Pensa che, infondo, si finisce sempre per innamorarsi di chi ci salva.
‘’E poi, soldato?’’
‘’E poi ci sposiamo’’
Lei gli mette fra le mani il ciondolo a forma di fiore. E’ giusto così.
 
Quando Judith scappa via, accompagnata su una collinetta da Dimitri, vede Dachau in lontananza. Riesce a sussurrare un ‘’grazie’’ all’uomo che l’ha salvata, prima di prendere a correre. Deve raggiungere il confine e dire alla Croce Rossa di chiamarsi Nikole Hoffman, il nome della sorella morta di Dimitri. La cureranno e poi dovrà correre in Svizzera, in un modo o nell’altro, o in America, ed aspettare e pregare che la guerra finisca presto.
Mentre corre lontano sente l’aria diventare sempre più pulita, il tanfo di morte diradarsi fino a scomparire. Vede il campo di concentramento, alla sua destra, diventare sempre più piccolo. Il filo spinato scompare, nella sua mente. Il fumo nero che vede da lontano diventa trasparente e profumato, come quello che fuoriusciva dal forno a legna quando sua madre cucinava la torta di mele.
Mentre corre e si allontana, forse piangendo, decide che è questa l’immagine che conserverà nella memoria: la risata di Katerina che le risuona nelle orecchie, la sua mano stretta attorno al suo braccio magro, il profumo della torta di mele della sua mamma e la puzza della pipa del suo papà. Nessuna recinzione elettrica, nella sua mente. Nessuna camerata, solo i loro due letti enormi e morbidi e sempre sfatti.
Casa sua, a Monaco di Baviera, con le pareti verde acqua e le mattonelle di terracotta. Nessuna stella di David cucita sulle camice e sui vestiti, nessun ‘’vietato l’ingresso agli ebrei’’, nessuna paura di morire e voglia di farlo presto, nessun ‘’Arbeit macht frei’’, nessuna tubercolosi e nessun esperimento. Nessun numero. Nessuna fame.
Nessun Inferno.
E’ finita, pensa.
Non sa da quanto tempo sta correndo, ma non si sente stanca. Il vento le sferza la pelle, ma non sente dolore. Il suo tatuaggio – numero 45678 – non le mette più tristezza. Le ricorda che è viva.
Le ricorda Dimitri.
Dovrebbe cercarlo, dopo la guerra, ma sa già che non lo farà. Non lo farà nemmeno lui.
Come con i ricordi troppo dolorosi, che si accantonano e si dimenticano per paura che facciano ancora più male di prima. Lo ama perché l’ha salvata, e lui la ama perché gli ha dato modo di salvarla e farlo sentire meno in colpa. Ha salvato cinquantuno ebrei.
Cinquantuno su sei milioni. 
L’ultima cosa a cui pensa è che non resterà in silenzio. Che non permetterà che si dimentichi. Poi, da lontano, vede una croce rossa su uno sfondo bianco.
 
Berlino, gennaio 1950
 
Dimitri Hoffman muore il 7 gennaio del 1950 con una pallottola in gola. Judith, quando lo legge sul giornale nella gelida Berlino del dopoguerra, pensa a tutti i volti degli ebrei uccisi che Dimitri sognava di notte. Pensa che, dopotutto, i tedeschi non hanno vinto niente.
Nessuno ha vinto.
Le parole di Dimitri, di cinque anni prima durante una notte di tempesta, le risuonano nelle orecchie.
‘’Sai cosa non mi piace di questo posto, Jude?’’
‘’No, cosa?’’
‘’Non ci sono fiori da regalarti’’



 
Con ritardo di quasi un mese, per non dimenticare.
Quello dell'Olocausto è un argomento che mi sta davvero a cuore, non solo per gli ebrei
ma anche per tutti i polacchi, gli omosessuali, gli zingari e i sovietici uccisi. E niente, mi sono solo
sentita di scrivere queste venti pagine, sperando che piacciano a qualcuno. 
Grazie <3
Harryette
  
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