Storie originali > Commedia
Segui la storia  |      
Autore: ValeValchiria    19/02/2015    2 recensioni
MIO PRIMO RACCONTO ONLINE.
IDEATO E SCRITTO SULLA FALSARIGA DEI ROMANZI E FILM COMMEDIA AMERICANI
MA AMBIENTATO IN ITALIA, A MILANO.
Elettra Ferri ha 25 anni, è portatrice sana di pigrizia e ha
da sempre un'idea ben specifica di come vorrebbe fosse la sua vita. Ha
pianificato tutto: amici, amore, famiglia, sogni, emozioni. Un mese
dopo la sua laurea riceve un'interessante ma imprevista proposta di
lavoro e a questa si susseguono una serie di inaspettati ed incredibili
eventi che sconvolgono la sua fino ad allora placida vita, riportandola
a considerare suo malgrado i suoi piani per il futuro.
 
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 “È già passato un mese.”

Penso, con la testa appoggiata al finestrino del solito autobus delle otto e cinquantotto.  Mi riferisco alla mia laurea o più in particolare, alla sua proclamazione. Ci ho messo veramente tanto tempo, troppo, per laurearmi e non ho scuse né faccio sforzi per inventarmene perché la verità è che sono pigra, incredibilmente, stupidamente e assurdamente pigra. Va bene, qualche volta dei professori mi hanno volutamente messo i bastoni tra le ruote e mi hanno rimandata a casa con un sorrisino beffardo e la loro canonica frase: “Fossi in lei mi ripresenterei.” Ma nella maggior parte dei casi sono stata io stessa a mettermi i bastoni tra le ruote non studiando, evitando di aprire libri lunghi e tediosi solo per antipatia o noia oppure preferendo altre inutili attività quali: scrivere una delle mie insensate fanfiction su Glee oppure fare una partita di sei ore filate a The Sims. Partita che, tra parentesi, veniva interrotta solo dall’ennesimo errore di insufficienza di memoria ram del mio ormai obsoleto pc.

Sì, è passato un mese dal quel giorno atteso per anni e poi rivelatosi talmente breve ed insignificante. Ho indossato giusto ieri la maglietta blu ordinata da un negozio online con la scritta: “Trust me, I’m the Doctor” e il disegno stilizzato della famosissima cabina blu, in quel caso bianca, riferimento al telefilm Doctor Who e comprata appositamente per essere sfoggiata una volta ottenuto il diploma di laurea. Ovviamente nessuno aveva capito il riferimento e non avevo dubbi che fosse così insomma, la gente là fuori ha una vita che comporta amici, uscite sociali frequenti e feste, nessuno ha realmente tempo per incollarsi davanti ad uno schermo del pc e lasciarsi rapire da storie su alieni umanoidi e buffi ometti che viaggiano nello spazio a bordo di una gigantesca cabina della polizia! Nessuno a parte me e una schiera di nerd asociali, si intende.

Avendo impiegato così tanto tempo a laurearmi, credevo che la ricerca del lavoro sarebbe stata stancante, interminabile e per diverso tempo infruttuosa: mi sbagliavo. Il giorno successivo alla proclamazione della laurea, mi è stato proposto un lavoro come traduttrice da una piccola casa editrice emergente, a Milano. A quanto pare le nottate trascorse a tradurre capitoli di romanzi americani mai tradotti in Italia da pubblicare gratuitamente ma illegalmente sul web, avevano attirato attenzioni favorevoli, offrendomi questa meravigliosa opportunità.  Pare che queste persone seguissero assiduamente il mio  blog, conoscendo anche il più irrilevante dettaglio della mia vita perché si dà il caso che io sia una di quelle persone che si fanno ben pochi scrupoli a scrivere anche il più patetico dettaglio della propria vita sul web. Sanno che sono figlia unica e fiera di esserlo, che ho un bouledogue francese di sei anni di nome K-9 (sì, sempre Doctor Who, lo so!), che sono amante del rosa, dei peluche, che ho un’insana ossessione per gli uomini over cinquanta come Colin Firth e Mark Harmon e un altro centinaio di imbarazzanti dettagli personali. Considerato tutto ciò che ho scritto in quel blog, a questo punto, credo che nemmeno i miei genitori mi conoscano bene quanto i miei futuri datori di lavoro e il mio primo istinto dopo quella telefonata è stato di rinunciare al colloquio. L’idea che sapessero anche la mia taglia di reggiseno (sì, ho scritto un post del tutto insensato nel quale elogiavo una specifica marca di biancheria intima economica) mi imbarazzava. Per fortuna quel briciolo di buon senso e di decenza che ancora dimora nel mio cervello mi ha spinta a valutare la cosa con obiettività, arrivando alla conclusione che questo lavoro potrebbe essere la mia grande opportunità, il famoso “treno che passa una volta sola nella vita”.  Dopotutto ho studiato le lingue straniere per anni, amo leggere e amo tradurre, quali sono le possibilità che mi venga proposta un'altra offerta simile? Con la crisi economica, la disoccupazione giovanile ai massimi storici e la carenza generale di posti di lavoro, sarebbe stato davvero una follia rifiutare.

Ciò non toglie il fatto che il colloquio mi terrorizzi. Non ne ho mai fatto uno in vita mia e ho paura di cosa potranno chiedermi, considerato che praticamente ogni dettaglio della mia vita è già in loro possesso. Sapranno anche cosa sto indossando in questo momento, perché ignorando il fatto di essere costantemente seguita e letta, ho dedicato un intero post ad un fantomatico “outfit da lavoro” accompagnato da una decina di foto di me, la mia camicetta verdeacqua, il mio tailleur beige e una rispettabilissima riproduzione di decolleté da haute couture. Ho dimenticato però di fotografare la borsa.

“Non sapranno che borsa avrò con me!”

Penso soddisfatta, rendendomi conto solo pochi istanti dopo di quanto stupida sia questa mia costatazione. Mi sento agitata e una parte di me vorrebbe mandare all’aria tutto quanto e gettarsi nel primo negozio disponibile ed economico di Galleria Vittorio Emanuele (probabilmente H&M) dentro al quale soffocare ogni mia preoccupazione tra un jeans skinny e una minigonna plissettata. Cercando di calmarmi, scorro rapidamente la playlist del mio ipod, sperando di trovare la canzone giusta per quel momento. Se i film romantici e le innumerevoli commedie americane che ho visto nei miei venticinque anni di vita mi hanno insegnato qualcosa, ad un certo punto troverò il pezzo giusto che mi accompagnerà per tutto il tragitto rimanente, introducendomi alla scena successiva di questa mia imprevedibile giornata. Trovo almeno un paio di brani che sarebbero praticamente perfetti per ma alla fine opto per “Mr Blue Sky”, riprodotto almeno un centinaio di volte dal giorno del suo trasferimento nell’ipod.  È il mese di gennaio, sto andando a Milano, percorrendo un lungo tratto di strada completamente avvolto nella nebbia, ma inizio a sentirmi bene a credere che riuscirò a vedere il mio cielo azzurro, prima che questa giornata giunga al termine.

Mentre proseguo il viaggio a bordo della metropolitana, stento a credere che tutto quanto sia reale, che non si tratti di uno dei miei soliti sogni ad occhi aperti. Constatato di trovarmi schiacciata contro una parete del vagone della metro da almeno quattro persone ben più alte e corpulente di me e non sul morbido lettino della mia cameretta, prendo finalmente contatto con la realtà. Sto andando al primo colloquio della mia vita, mi verrà offerto un lavoro coerente con il mio percorso di studi e a rendere tutto ancor più straordinario, gli uffici della casa editrice dove potrei iniziare a lavorare già da domani, si trovano a San Babila, nel pieno centro di Milano tra lusso, alta moda, negozi e sfarzo, come ho desiderato dal primo giorno nel quale ho iniziato a studiare lingue alla Statale. Inizio a sospettare che possa esserci qualcosa sotto. Non mi è possibile credere che tutto sia realmente bello come sembra. Potrebbe trattarsi di una truffa, potrebbe essere un’imboscata tesami dalla Finanza per aver violato, credo, almeno una ventina di diritti d’autore, traducendo sfrontatamente libri  stranieri trovati online. In fondo, per quanto emergente e minore possa essere, quale casa editrice chi sceglierebbe ma il nome “In Libro Veritas” senza pentirsene? Per quale motivo scegliere un nome tanto lungo e sciocco? Credo che nemmeno un generatore random di nomi sarebbe stato in grado di partorire un titolo simile.

Alzo lo sguardo per cercare di scorgere lo schermo indicante le fermate della metropolitana. Non è la prima volta che, troppo presa dai miei pensieri, mi capita di non accorgermi di essere giunta a destinazione. Generalmente me ne rendo conto solo quando le porte del treno si stanno per chiudere, ormai troppo tardi anche per tentare di scendere con un improbabile scatto felino. A tale proposito, sono pressoché sicura che se la casa editrice non si rivelerà una truffa, riuscirò a dare il meglio di me in una delle mie celebri figuracce che vantano: inciampare da ferma nei miei stessi piedi, urtare qualcuno o qualcosa, impigliare borsa o capi d’abbigliamento in maniglie, spigoli o qualsiasi superficie sporgente nei paraggi oppure aprire la borsa al contrario, rovesciando a terra tutto il suo contenuto (compresi fazzoletti usati, assorbenti e carte di caramelle ammuffite). Non avevo valutato la mia sbadataggine, scegliendo l’abbigliamento per il colloquio del quale tanto mi ero sentita fiera scrivendo un post sul mio blog. Optando per modeste ma ben più comode e sicure ballerine avrei ridotto la possibilità di inciampare del 60%, lo stesso vale per la gonna per colpa della quale sono stata costretta ad indossare delle collant. Non ho dubbi che le  calze si smaglieranno, rimanendo impigliate in qualche sedia e il rischio che mi trovi con un bel buco  sulla coscia proprio nel momento del colloquio è altissimo. Le persone non mi credono quando racconto loro delle mie rocambolesche avventure e a volte stento crederci io stessa nel raccontarle eppure nonostante cerchi di fare attenzione, non smettono di verificarsi. Nel corso degli anni, però, ho imparato ad accettare questa mia goffaggine, cercando di sdrammatizzare e di vederla come una mia caratteristica, una peculiarità che mi rende unica. Meno male, aggiungerei, perché dubito che al mondo possa essere stato creato un altro essere umano altrettanto sprovvisto di grazia e con un equilibrio pressoché inesistente.

Uscendo dalla metropolitana, scelgo di prendere le due scale principali, che sbucano ai piedi del Duomo. Nonostante l’abbia visto in un centinaio di occasioni, non posso fare a meno che rimanerne rapita ogni qual volta me lo ritrovi di fronte: così bianco, imponente e luminoso, al punto di spiccare e farsi notare anche in mezzo alla nebbia. Quando arrivo in cima alla scala chiudo gli occhi e respiro profondamente. Sono nata e vivo in un piccolo paese di provincia, in campagna, per me Milano è e resterà sempre emozionante, una città viva, animata e ricca di meraviglie. Mi sento così bene in mezzo a tutta quella gente che mi sfreccia affianco frenetica, spesso urtandomi. Mi sento libera perché, a differenza di dove abito io, posso camminare a testa alta senza il rischio di essere giudicata e di sentire la pettegola di turno alle mie spalle prima salutarmi e sorridermi per poi criticare i miei vestiti, le mie scarpe o il mio atteggiamento riservato e quindi considerato maleducato. Sì, devo pur sempre evitare lo stormo di piccioni svolazzanti e la schiera di vucumprà che cercano in ogni modo possibile e immaginabile di rifilarmi i famosi braccialetti della fortuna, anche lanciandomeli addosso, tuttavia è un prezzo che sono disposta a pagare.

Avendo scelto di prendere quell’uscita della metropolitana, sono costretta a percorrere un pezzetto in più di strada per arrivare a destinazione ma camminare per me non è un problema, specialmente perché la strada pullula di vetrine sfavillanti e tentatrici. Vetrine che mi limito ad osservare da lontano, ripromettendomi di entrare in quei negozi solo quando il mio colloquio sarà terminato decidendo quindi di premiarmi o consolarmi con un nuovo capo d’abbigliamento o un nuovo paio di scarpe. Una volta percorsa la galleria, arrivata in zona San Babila, estraggo dalla tasca del cappotto il cellulare che fino a quel momento non ho avvertito la necessità di controllare. Non conosco l’indirizzo e mi trovo quindi costretta a controllare sulla mappa. Accendendolo trovo la solita sfilza di messaggi e chiamate perse da parte di mia madre, altrimenti definita: “l’incarnazione umana del termine apprensione”. Sono figlia unica ed è normale che tenga molto a me e che si preoccupi ogni qual volta una mia risposta ad un suo messaggio arrivi in ritardo di anche solo cinque minuti, ritengo però che quindici sms, sei chiamate perse e due messaggi lasciati in segreteria con un mix tra preoccupazione e insulti, molti insulti, siano eccessivi. Dopo averla rassicurata per la millesima volta di essere ancora viva e non in mano ad una banda di terroristi internazionali pronti a chiedere il riscatto per tenermi in vita, posso finalmente tornare a concentrarmi sul motivo per il quale mi trovo a Milano quel giorno: il colloquio di lavoro. Seguo le indicazioni sulla mappa e mi trovo davanti ad un edificio di almeno venti piani, praticamente identico a qualsiasi altra struttura circostante. Accanto alle due porte di ingresso, su una parete, sono posizionate una dopo l’altra una serie di targhe e placche metallizzate che indicano tutte le attività commerciali presenti in quello stabile. Riesco a scorgere un dentista, un chiropratico, una decina di avvocati, un paio di commercialisti, uno studio notarile e infine, proprio in cima e in un angolo abbastanza remoto ecco il nome: “In libro Veritas” , una targa metallica stretta e lunga in rilievo scritta in corsivo. Mi metto in punta di piedi per riuscire a toccare la targa, dubitando ancora che quel posto esista e che non sia la tanto temuta imboscata. Come ho appreso da Wile il coyote, mio concorrente su schermo di sventure, la pratica di creare cartelli fittizi e sostituirli a quelli originali è molto in voga quando si vuole tendere una trappola a qualcuno.

La targa è reale, ovviamente. A giudicare dalle condizioni del materiale sembra essere lì da diverso tempo, il che non fa che rassicurarmi. Inizio poi a pensare che una divisione della Finanza potrebbe comunque essersi messa d’accordo con i proprietari di questa attività, convincendoli ad invitarmi da loro e che una volta varcata la soglia di quel palazzo al di là del bancone della portineria che intravedo dalle porte vetrate, salterà fuori un uomo in divisa armato e pronto ad arrestarmi. Do una rapida occhiata all’interno dell’atrio, cercando di non farmi notare dalla signora della portineria. Dopodiché scoppio a ridere, sorpresa dall’incredibile dose di sciocchezze che il mio cervello è in grado di generare in momenti di ansia e stress, come questo.

-Posso aiutarla?

Mi chiede immediatamente la signora della reception, vedendomi entrare timorosa. Prima di risponderle accosto la porta.

-Sì, ehm… sto cercando gli uffici della casa editrice: “In libro veritas”.

Chiedo, avvicinandomi al bancone. Trattengo un sorrisetto mordendomi il labbro inferiore, pronunciando per la prima volta ad alta voce il terribile nome di quella casa editrice. A differenza mia la signora della portineria non sembra scomporsi.

-Deve prendere l’ascensore qui sulla destra, piano ottavo.

Risponde rapidamente, guardandomi solo per una frazione di secondo, chinando poi subito il capo su quello che sembra essere un giornaletto della settimana enigmistica.

-Grazie.

Ribatto con un fil di voce, temendo di infastidirla in quell’attività verso la quale sembra provare smisurato interesse. Dopodiché seguo le indicazioni e raggiungo l’ascensore, prima chiamandolo al piano terra e poi all’ottavo. L’edificio è piuttosto datato,  probabilmente eretto attorno agli anni sessanta e l’ascensore in legno con pavimento in moquette rossa mi dà la sensazione di essere in procinto di fare un viaggio del tempo.  Arrivata a destinazione, rimango stupita da ciò che mi trovo davanti: una enorme sala completamente vuota, pareti spoglie e prive di intonaco, pavimenti in parte coperti da un telo in cellophane e diversi attrezzi da lavoro sparsi qua e là. Non ha affatto le sembianze di un ufficio, non ancora perlomeno, poiché sembra solo un cantiere.  Mi guardo attorno  ma non trovo nessuno a cui chiedere informazioni. Davanti a me, sulla destra, c’è una scala di legno dalla quale mi pare di sentir provenire delle voci. Procedo con cautela, anche per evitare di inciampare nel telo plastificato, tentativo miseramente fallito poiché ancor prima di raggiungere il corrimano della scala al quale speravo di potermi reggere, uno dei miei tacchi si incastra avvolgendosi tra un pezzo di telo non fissato e del nastro isolante, facendomi finire per terra. Mi lascio cadere senza tentare di rimanere in equilibrio, con l’illusione che per una volta non ci siano occhi indiscreti a testimoniare la mia caduta.

-Si è fatta male?

Illusione immediatamente andata in frantumi. Cerco di alzarmi da sola, prima che il mio interlocutore possa vedermi in viso. Sfortunatamente mi trovo costretta a sfilare la scarpa per poterla liberare dal nastro.

-Sto bene, la ringrazio.

Rispondo, senza alzare lo sguardo.

-Aspetti, le tengo fermo il telo.

Aggiunge, raggiungendomi e precipitandosi nella zona “incriminata”. Grazie al suo aiuto riesco ad estrarre la scarpa con più facilità e la infilo subito al piede.

-Grazie.

Alzo infine gli occhi, per poter ringraziare quella persona misteriosa, mio salvatore in una situazione fastidiosa e che pare non ridere di me, per il momento. La persona che trovo davanti ai miei occhi si rivela essere totalmente differente da come me l’ero immaginata solo pochi istanti prima, nel pieno dell’imbarazzo. Avendo intravisto una tuta da lavoro grigia sporca di vernice e degli scarponi pesanti, probabilmente di tipo antinfortunistico, mi aspettavo un faccia a faccia con il tipico imbianchino un po’ in là con gli anni, stempiato e con qualche chilo di troppo, praticamente un clone di Mauro, amico di mio padre e imbianchino di fiducia di famiglia da oltre vent’anni. Nulla di più diverso: la persona davanti a me è un ragazzo probabilmente più giovane di me, molto alto, capelli biondi piuttosto lunghi e soprattutto meravigliosi occhi chiari di un colore che credo non aver mai visto prima d’ora: un misto tra grigio-azzurro e argento. Fatico a non rimanere a bocca aperta, davanti ad un viso oggettivamente tanto bello.

-Si figuri, è stata colpa mia, non ho fissato bene il telo, chiedo scusa.

Aggiunge con un tono di voce molto grave e profondo, dettaglio che mi aveva indotta a pensare di trovarmi di fronte ad un uomo e non un ragazzo. Non rispondo, limitandomi a sorridergli.

-C’è per caso la signorina Elettra Ferri?

Chiede una voce proveniente dalle scale. Immediatamente do una pulita ai miei vestiti, cercando di ricompormi per ritornare ad esser presentabile.

-Sì, sono io.

Rispondo, affacciandomi per cercare di intravedere la persona che ha appena chiamato il mio nome.

-Venga su, signorina, la stavamo aspettando.

Senza pensarci troppo salgo le scale, raggiungendo finalmente l’interlocutore. Si tratta di un uomo sulla quarantina, altezza media, occhi e capelli scuri, vestito in abiti eleganti ma da lavoro, un completo grigio che sembra vestirlo a pennello.

-Finalmente la vedo dal vivo. Sono Gianmarco Verità, presidente.

“Verità”, “Veritas”, inizio a pensare che il ridicolo nome della casa editrice sia semplicemente un gioco di parole costruito sul cognome del suo presidente, non credevo che esistesse un cognome simile. Il signor Verità mi porge la mano che immediatamente stringo, ricambiando anche il brillante sorriso che subito dopo mi rivolge.

-Ha parlato con il mio socio, Antonio Monicelli, ci raggiungerà tra poco nel mio ufficio, se vuole seguirmi.

Annuisco ed immediatamente lo seguo. Anche il piano superiore risulta essere incompleto e in ristrutturazione, benché sia in condizioni migliori di quello inferiore. Riesco a percepire odore di vernice fresca lungo tutto il corridoio e alcune porte chiuse sono ancora coperte da una pellicola trasparente, macchiata da gocce di pittura.

-Prego.

Mi invita il signor Verità, lasciandomi entrare in quello che credo sia il suo ufficio, dopodiché chiude la porta. Esito a prendere posto e ancora una parte di me mi suggerisce di rimanere in allerta, specialmente per la strana accoglienza ricevuta. Il socio di questo signore, Antonio Monicelli come ho appena appreso, mi ha telefonato circa un mese fa poco prima di Natale, dandomi appuntamento per oggi. Mi chiedo, dal momento che ho comunque dovuto aspettare un mese prima di ricevere questo colloquio, per quale motivo non abbiano scelto di chiamarmi al termine della ristrutturazione degli uffici. È vero, si tratta del primo colloquio di lavoro della mia vita, tuttavia credo che chiunque al mio posto troverebbe la situazione quantomeno curiosa.

-Si sieda pure.

Mi siedo, utilizzando una delle due sedie posizionate di fronte alla maestosa scrivania che occupa buona parte della stanza. La disposizione dei mobili dell’ufficio sembra essere provvisoria: al di là della scrivania e delle sedie, non c’è altro se non un paio di scatoloni e una libreria vuota.

-Allora… suppongo abbia portato un curriculum.

Senza farmelo ripetere prendo la borsa, facendo ben attenzione che la cerniera sia rivolta verso di me e non verso il pavimento, dalla quale estraggo una cartelletta trasparente che contiene il mio scarno curriculum per porgerlo al signor Verità. L’uomo lo prende, estraendolo dalla cartelletta e lo scruta rapidamente, dopodiché lo posa sul tavolo.

-Bene. Immagino che il mio socio le abbia già spiegato la natura del lavoro.

Annuisco.

-Generalmente le farei un paio di domande personali, per capire esattamente che tipo di persona ho di fronte ma, avendo letto il suo blog, non mi sento di chiederle altro.

“Sa anche troppo”, penso tra me e me, cercando di mantenere la calma e bloccare ogni possibile segno di nervosismo.

-È un’osservatrice silenziosa ma molto eloquente, signorina Ferri.

Si riferisce sicuramente alla mia terribile abitudine di scrutare ogni cosa, spostando lo sguardo da destra a sinistra senza sosta, per paura di perdere anche il più insignificante dettaglio. Non so come ribattere e temo di essere sembrata maleducata in questo mio atteggiamento. Fortunatamente è ancora lui a parlare, sollevandomi dall’imbarazzo di una risposta giustificatrice.

-Come le è stato detto, la nostra è una casa editrice emergente e solo da poco ci siamo trasferiti ufficialmente in questo edificio che, come può vedere, è in fase di ristrutturazione.

Speravo mi concedesse qualche dettaglio in più ma mi accontento e preferisco non aggiungere nulla. È il mio primo incontro con questa persona ma stranamente non mi sento agitata e la mia ansia è notevolmente diminuita, rispetto a poco prima che entrassi nell’edificio. Inizio ad attribuire il merito alla mia goffa caduta, la mia previsione di fare una delle mie tante figuracce si è realizzata, che altro potrebbe succedermi di peggio?  A parte la famigerata imboscata della guardia di finanzia che ancora temo, ovviamente.

-Essendo la nostra un’azienda giovane, per così dire, abbiamo deciso di assumere uno staff di neolaureati, proprio come lei, per permettere ad azienda e dipendenti di crescere di pari passo, di fare esperienza insieme.

Le motivazioni sembrano buone, fin troppo buone. Pur non avendone il coraggio ho almeno una ventina di domande da porre ma aspetto che finisca di parlare o che sia lui stesso ad invitarmi a farne.

-Siamo rimasti particolarmente colpiti da lei, l’abbiamo seguita per mesi prima di deciderci di contattarla. Abbiamo subito trovato curioso il fatto che ogni libro da lei tradotto rientrasse nella lista dei nostri potenziali acquisti, nelle nostre trattative.

Questa affermazione mi fa trasalire. Inizio a sudare freddo. È possibile che queste persone mi abbiano chiamata per punirmi? Avrei dovuto tenere in considerazione la possibilità di pestare i piedi a qualcuno. Sebbene io non abbia agito con cattiveria e le mie traduzioni siano state realizzate senza scopo di lucro.

-Mi dispiace.

Affermo, incapace di aggiungere altro.

-E di cosa? Ho detto che erano di nostro interesse, non che le abbiamo acquistate. Inoltre dovrebbe ringraziare se stessa: avendo già letto diverse sue traduzioni, non abbiamo bisogno di sottoporla ad alcuna prova. Posso assumerla senza alcuna riserva, signorina Ferri.

Ancora troppo preoccupata per l’affermazione precedente, non mi accorgo della parola “assunzione”, appena pronunciata dal signor Verità, che in questo momento mi sta fissando in attesa di una mia risposta o di una mia qualsiasi reazione. Dopo circa una ventina di secondi scoppia a ridere, arresosi all’idea che la mia reazione non arriverà a meno che non sia lui stesso a suggerirla.

-Non credevo ma è davvero genuina e spontanea come dice e dimostra di essere nel suo blog, lo sa? Le ho appena detto che ho intenzione di assumerla, l’ha capito?

Sorrido, lasciandomi sfuggire una risatina nervosa dopodiché finalmente rispondo.

-Non so cosa dire io… la ringrazio!

Esclamo, utilizzando un tono di voce eccessivamente alto che non nasconde per nulla  la mia improvvisa euforia. Mi sento ancora troppo frastornata per rendermi effettivamente conto di cosa mi stia succedendo ma di certo l’entusiasmo ha iniziato a prendere il sopravvento. Il socio del signor Verità ci raggiunge pochi minuti dopo, portando con sé il mio contratto che mi viene illustrato e spiegato punto per punto in maniera approfondita. Faccio del mio meglio per risultare calma, risoluta e soprattutto professionale e fingo esitazione prima di firmare il mio contratto. Mi tremano le mani nel momento in cui la penna si posa sul foglio, la prima come la sesta volta. Quando finalmente le pratiche burocratiche vengono portate a termine, i miei datori di lavoro mi danno appuntamento a lunedì, invitandomi a presentarmi con puntualità per poter conoscere i miei collaboratori e familiarizzare con l’ambiente.

-Arrivederci, a lunedì!

Ripeto, scendendo dalle scale con un incontenibile sorriso sulle labbra. Mi accorgo solo ora di una rientranza nella parete che conduce ad un’altra stanza dove probabilmente si trovava il ragazzo che mi ha aiutata a liberare il tacco dal cellophane sul pavimento.

-Buona giornata!

Esclama, quella stessa voce grave e profonda di poco prima. Il ragazzo biondo ora si trova davanti a me, ai piedi delle scale, intento a coprire con del nastro adesivo alcune prese.

-Buona giornata!

Ripeto, augurandomi di non regalare un “bis” della mia figuraccia di poco prima. Una volta uscita dall’edificio tiro un respiro di sollievo, il cuore inizia a battermi all’impazzata e tutte le emozioni assopite fino a quel momento si risvegliano, facendomi quasi girare la testa. Ho appena ricevuto la mia prima proposta di lavoro, il mio ufficio è in una posizione fantastica e invidiabile e anche il salario offertomi è ben al di sopra delle mie aspettative, trattandosi del mio primo impiego e mi meraviglio di essermela cavata con soltanto un piccola e quasi inosservata figuraccia. Mi concedo il tempo per elaborare tutto ciò che mi è successo, per poter focalizzare e convincermi che forse per la prima volta dopo tanti anni, è arrivato il mio momento di gloria. Telefono quindi a mia madre, che sarà rimasta sulle spine e attaccata al cellulare per tutto questo tempo, in attesa di una mia chiamata. Le racconto ogni cosa, ogni singolo dettaglio aggiungendo che però ne parleremo in maniera più approfondita a cena, quando anche mio padre tornerà dal lavoro. È quasi ora di pranzo e quindi decido di fare una telefonata a Katia che lavora come receptionist in un ufficio in zona. Dopo aver ricevuto una risposta positiva da parte sua, mi affretto per raggiungere il bar nel quale ci siamo date appuntamento, ansiosa di poter raccontare anche a lei della mia incredibile mattinata.

.

.

.

.

.

.

.

SPAZIO AUTRICE: Non ho mai pubblicato storie online. Questo racconto è la mia prima commedia ed è una sorta di esperimento, spero di trovare un riscontro positivo. Pubblicherò il prossimo capitolo tra una settimana. Grazie per la lettura!

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Commedia / Vai alla pagina dell'autore: ValeValchiria