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Autore: Sandra Prensky    19/02/2015    4 recensioni
"Dalla cima del grattacielo riusciva a vedere gran parte di Manhattan. Il vento gli sferzava intorno, ma lui non dava segno di accorgersene. Tutto ciò che succedeva al di sotto di lui, nella città, i suoi rumori, colori, avvenimenti, sembravano tutti lontani anni luce.
Avrebbe dovuto accorgersene subito."
Ennesima fanfiction su Clint Barton e Natasha Romanoff
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Dalla cima del grattacielo riusciva a vedere gran parte di Manhattan. Il vento gli sferzava intorno, ma lui non dava segno di accorgersene. Tutto ciò che succedeva al di sotto di lui, nella città, i suoi rumori, colori, avvenimenti, sembravano tutti lontani anni luce.

Avrebbe dovuto accorgersene subito. Avrebbe dovuto accorgersene quando si era offerta volontaria per la missione. Di sicuro si era resa conto che quella era una missione di sola andata e l'aveva accettata prima che qualcun altro lo facesse. Tipico di Natasha. Come aveva fatto ad essere così stupido? Ecco spiegato il perché lei l'avesse invitato a cena a casa sua. Ecco spiegato il perché di quel bacio. Ecco spiegato il perché di quella notte. Ecco spiegato il perché di ogni cosa che avesse fatto quel giorno. Anche un bambino l'avrebbe capito. Ora lei aveva salvato il mondo ancora una volta, e ancora una volta il mondo se ne fregava e ne era all'oscuro, a nessuno importava niente della sua morte, come a nessuno importava di lei quando era in vita. La gente ignorava di essere ancora lì grazie a lei. D'altra parte, a chi sarebbe importato? Era solo una ragazza normale. Non indossava tute scintillanti, non aveva poteri sovrannaturali, non andava in televisione, non era stata trovata fuori dalla casa di Stark senza vestiti. Era solo un'assassina russa che lavorava per un'organizzazione segreta americana. Non sarebbe nemmeno stata una grande notizia per i giornali affamati di supereroi vistosi.

Lui all'inizio non ci aveva nemmeno creduto. Non poteva essere vero. Quando Fury lo aveva convocato in ufficio, certo, aveva notato May uscire con gli occhi lucidi, avvenimento più unico che raro. Aveva notato la faccia sbigottita di Coulson e Hill mentre andavano da Melinda. Aveva notato i loro sguardi di compassione quando lui era passato loro accanto. Ma aveva fatto finta di non accorgersene, ostinato come non mai. Era entrato nell'ufficio di Fury, e ne era venuto fuori quasi subito dopo, di corsa, diretto verso l'uscita dell'edificio. Non gli interessava la compassione di Fury o di chiunque altro. Non piangeva, non si disperava. Non pensava a niente. Camminava, senza sapere dove andava, senza badare al mondo intorno. In mezz'ora si ritrovò davanti a una porta. Gli ci vollero dieci minuti buoni per accorgersi che non era casa sua, ma quella di Natasha. Entrambi avevano una copia della chiave di casa dell'altro, in caso di emergenza, quindi entrò. La casa era esattamente come la mattina in cui lui si era risvegliato quando lei era già partita. Probabilmente al momento lei era ancora viva... Chissà a cosa pensava, chissà se aveva paura di morire o se era tranquilla sapendo che almeno sarebbe morta lei e non Clint. Lui non l'avrebbe mai saputo. Girò per la casa come se fosse la prima volta che la vedesse. Prese molti dei suoi libri, anche se molti erano in lingue straniere che lui non sapeva parlare o sapeva poco. Lesse le quarte di copertina, lesse le annotazioni che lei aveva fatto, poi rimise uno a uno i libri al rispettivo posto, come se lei fosse potuta arrivare da un momento all'altro a rimproverarlo. Lesse gli appunti appesi al frigorifero, esaminò tutti i CD e i film che aveva. Aprì i suoi cassetti, il suo armadio. Tutto gli ricordava i momenti passati insieme, tutto gli ricordava lei. Posò lo sguardo sul letto, e solo allora notò un angolo di carta che spuntava da sotto il cuscino dove lui era stato quella notte. Lo tirò fuori con cautela, come se fosse un oggetto fragilissimo. Era la busta di una lettera. La aprì. Sul foglio all'interno c'era scritto, in una grafia che lui avrebbe riconosciuto ovunque:

“Caro Clint,

sono brava con le parole, ma a quanto pare non con gli addii. So che non tornerò da questa missione, l'ho saputo fin dall'inizio. Ti prego, perdonami se non ti sveglio per salutarti, ma non ce la faccio. Non riesco nemmeno a guardarti ora, mentre dormi, senza pensare che è l'ultima volta che ti vedo. Se ripenso a tutto ciò che abbiamo passato insieme... A quante volte mi hai salvata, molte più di quelle in cui è successo il contrario. È arrivato il momento di saldare i miei debiti. Addio, Occhio di Falco.

Nat.

P.S. Scommetto 10 dollari che non hai notato che la busta non è ancora vuota.”

Automaticamente, senza nemmeno accorgersi di quello che faceva, prese la busta e ne estrasse una foto. C'erano lui e Natasha, seduti sui gradini di quello che poteva essere un monumento di Washington. Lui stava parlando e aveva un sorriso stampato sulla faccia, lei si stava sistemando una ciocca dietro l'orecchio, come faceva sempre quando era felice, e guardava lui con quello che probabilmente era uno dei sorrisi più sinceri che avesse fatto in tutta la sua vita. Non avrebbe saputo dire quanto fosse vecchia quella foto, si sarebbe detta di qualche anno prima perché lei aveva ancora i capelli lunghi, ma erano stati a Washington così tante volte che era impossibile dirlo di preciso. Non si ricordava nemmeno dell'esistenza di quella foto. La girò, e notò che c'erano un paio di scritte dietro. Una, con una calligrafia che al momento non riconobbe, diceva “Per Natasha: May e io abbiamo scommesso sul fatto che non saremmo mai riusciti a documentare il fatto che entrambi sapete sorridere, se volete. Beh, ho vinto. Se mi vuoi uccidere, sai dove trovarmi. XX, Maria.”. Sotto, invece, Natasha aveva annotato: “Ormai serve di più a te. Ah, e mi devi 10 dollari.”

Clint si sedette, lo sguardo vacuo, la lettera in una mano e la foto nell'altra. Non sapeva dire quanto tempo fosse stato lì, inerte, se pochi minuti o diverse ore. Non riusciva a pensare, a muoversi, a dare qualunque segno di essere vivo. Successe all'improvviso. Alzò gli occhi sulla foto e si rese conto che Nat era morta, morta e non poteva tornare indietro. Non l'avrebbe mai più rivista, mai più i suoi occhi verdi, mai più i suoi capelli rossi, non avrebbe mai più sentito la sua voce, non avrebbe mai più avvertito la sua presenza di fianco a lui mentre andava al lavoro, mai più! Quella foto e i tanti ricordi erano tutto ciò che rimaneva di lei. Si buttò per terra, in ginocchio, urlando come non aveva mai urlato, fino a non avere più aria nei polmoni, fino a quando il bruciore che gli cresceva in gola non divenne insopportabile. Solo a quel punto si accasciò, in posizione fetale, e pianse come un bambino, fino a quando, senza nemmeno accorgersene, si addormentò.

Il funerale passò senza quasi che se ne rendesse conto. Non era nemmeno un vero e proprio funerale, si erano riuniti in uno stanzone del quartier generale di NYC dello S.H.I.E.L.D., seduti su sedie di plastica intorno a una bara di legno. Non erano nemmeno in molti, c'erano solo lui, Fury, Coulson, May, Hill e Steve. Stark aveva mandato un biglietto, stranamente scritto da lui e non dalla sua segretaria Pepper, in cui diceva che per impegni di lavoro non poteva essere presente, ma mandava le sue più sentite condoglianze e diceva di contattarlo se avessero avuto bisogno di qualcosa. Durante quel prototipo di cerimonia funebre tutti si alzarono in piedi per dire qualcosa. Lui rimase seduto durante tutti i discorsi, come in trance, incapace di udire alcun suono. May gli dovette dare una gomitata per farlo tornare in sé, all'arrivo del suo turno. Non avrebbe voluto dire niente, ma sapeva che era quello che gli altri volevano da lui, e sentiva di doverlo a lei. Quando fu ora di portare via la tomba, dopo interminabili minuti di silenzio, non gli permisero nemmeno di avvicinarsi, temendo che sarebbe crollato di fronte ai loro occhi. Avrebbe voluto protestare, ma non ne aveva la forza. Si sentiva vuoto, inutile. Si incamminarono verso il cimitero dove l'avrebbero seppellita, sotto una pioggia torrenziale. Si ritrovò mezz'ora dopo, impalato davanti alla lapide, a cercare di capire se le gocce che gli scivolavano veloci sulla faccia erano gocce di pioggia o lacrime. Probabilmente entrambe. Avvertiva lontanamente gli altri presenti salutarlo prima di andare via, ma erano troppo lontani per capire cosa dicessero. Dopo quelle che l'orologio del cimitero indicava essere due ore, si voltò e si incamminò verso casa.

Per un lunghissimo mese aveva puntato a sopravvivere. Mangiava appena, dormiva pochissimo e quando dormiva era tormentato dagli incubi, girava per lo S.H.I.E.L.D., per casa sua, per le strade come se fosse un fantasma. Non sentiva niente e nessuno. L'unico motivo per cui tirava avanti era perché sapeva che lei lo aveva fatto per salvare lui, per far sì che lui vivesse. Non si staccava mai dalla foto e dalla lettera. Sebbene gli facesse male anche solo pensarci, non riusciva a separarsene.

Ora era lì, in cima al grattacielo. Non ce l'aveva fatta. Non riusciva proprio, ogni giorno sembrava peggio del precedente. Tutto ciò che voleva era tornare da lei. Così, con la busta ancora in mano, si alzò. Sussurrò un “mi dispiace” al vento, e si lasciò cadere. Era stato facile. Era quasi piacevole, come volare. Presto l'avrebbe rivista, pensò, e questo sembrò affievolire di poco il peso che portava nel petto. Sentiva l'aria colpirlo con l'intensità di uno schiaffo, ma niente gli importava più ormai.

Dalle strade lo videro. Qualcuno strillò, qualcun altro gridò di aiutarlo. Ma come si aiuta uno che cade da un grattacielo? Cadeva, cadeva, cadeva, sempre più veloce. Pochi avevano il coraggio di guardare. Le mamme portavano via i bambini. Qualche poliziotto cercava invano di allontanare la folla. Tutti aspettavano il fatale tonfo, segno di un'altra vita sfuggita da questo mondo. Eppure, niente. Non c'era stato alcun rumore. Doveva essere arrivato, ormai. Chi si era coperto gli occhi tolse le mani, vinto dalla curiosità. L'uomo era lì, in piedi, incredulo. Nessuno osava fiatare. Il silenzio era assoluto, non una persona si mosse. Dopo un po', una donna ruppe il silenzio e si avvicinò a lui. “Si sente bene?” chiese, con una faccia attonita. “Sa cosa le dico?” rispose lui “Credo di non essere mai stato meglio in tutta la mia vita.” e con un sorriso se ne andò.

Si parlò della vicenda per giorni, nessuno riusciva a capacitarsi di come un comune uomo avesse fatto a sopravvivere a una caduta del genere. I giornali facevano a gara a tirare fuori spiegazioni, una più assurda dell'altra. I testimoni inventavano cose improbabili, tutto pur di guadagnarsi un posto nel notiziario. Diversi testimoni dissero addirittura che a salvarlo fosse stato il fantasma di una ragazza con i capelli rossi.  

   
 
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