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Autore: Eugenia_Rosini    23/02/2015    3 recensioni
Un omicidio. Un'interrogatorio. E una ragazza che farà di tutto per provare che non ha commesso il terribile crimine di cui l'accusano.
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La stanza è buia, non ci sono finestre. Ad illuminarla ci sono solo una traballante luce al neon e un grande vetro dove mi posso specchiare e che sicuramente sta nascondendo il detective nella camera adiacente.
Pensano che se mi faranno aspettare abbastanza a lungo in questa stanza tetra parlerò prima. Mi romperò. Pensano che magari mi metterò a piangere e confesserò tutto.
Ovviamente non succederà. Possono farmi aspettare tutte le ore che vogliono, ma non aprirò bocca, solo per il semplice motivo che non ho niente da confessare.
Finalmente si apre la porta ed entra il poliziotto che mi ha portata qui. È giovane, forse gli hanno assegnato questo caso perché pensavano che fosse facile. Non hanno neanche la minima idea di quanto si siano sbagliati.
Il detective si mette a sedere, con molta calma, e mi guarda come se si aspettasse che iniziassi a parlare subito.
Sostengo il suo sguardo finché non appare l’ombra di un sorriso sulle sue labbra.
“Allora?” Chiede quasi scherzosamente, “vogliamo iniziare?”
“Non vedo l’ora”, rispondo senza battere ciglio.
Posa sul tavolo una cartellina, la apre e tira fuori delle foto.
Sono le foto della scena del delitto, le foto del salotto di Daniel. La casa è in ordine, non ci sono segni di lotta, sembrerebbe quasi che non sia successo niente di strano. Se non fosse per il ragazzo con un proiettile in testa e disteso in una pozza del suo sangue, ovviamente.
Rimango in silenzio, a guardare la foto del mio ragazzo (ex?) e aspetto che il detective mi chieda qualcosa.
“Dei testimoni hanno riferito che lei e il suo ragazzo avete avuto una grossa lite quella sera”.
“Non mi pare che sia un crimine”.
“L’omicidio lo è, invece”.
“Beh, mi ritengo fortunata allora, visto che io. Non. Ho. Ucciso. Daniel”. Aspetto che mi guardi di nuovo negli occhi prima di continuare a parlare. “Mi pareva di averlo già dichiarato una volta o due, ma, non si preoccupi, sono disposta a ripeterlo per i più lenti di comprensione”.
Mi sta fissando adesso, e sulla sua faccia non leggo altro che serietà, rabbia e forse anche disgusto.
“Signorina Dane, non mi pare che lei sia nelle condizioni di scherzare, non quando tutte le prove puntano contro di lei”.
“Sono prove circostanziali”.
Mi guarda con un sorriso strafottente. “A dire il vero abbiamo trovato del DNA. Il suo, per l’esattezza”.
No. Non è possibile.
“Sta bluffando”, si deve essere così.
“Dice?”
“Certo. Io non ho ucciso nessuno. Il mio DNA non può essere da nessuna parte”.
“Abbiamo trovato l’arma del delitto, Julia. E, come ho già detto, abbiamo rilevato il suo DNA sopra di essa.”
“Non le credo”.
“Posso chiedere come fa ad esserne così sicura?”
“Perché se aveste realmente trovato il mio DNA sull’arma del delitto, a questo punto io sarei in prigione, e lei non starebbe continuando questo disperato tentativo di farmi confessare”.
Passa qualche secondo prima che parli di nuovo ed io respingo la voglia di gongolare per averlo zittito.
“Lei è molto intelligente, signorina”. Dice in tono accusatorio.
“Sbaglio o oggi ha una gran voglia di accusarmi di crimini inesistenti?”
“Beh, sa, a volte le persone sfruttano la loro intelligenza nel modo sbagliato”.
“Direi che a scuola è molto utile”, mi fermo per attirare la sua completa attenzione, “e direi che è molto utile anche per impedirmi di fare cose stupide, che potrebbero potenzialmente rovinare la vita di una persona. Come, per esempio, uccidere il mio ragazzo”.
“Signorina Dane, questo non è un gioco. Le ricordo che nello stato di Washington è prevista la pena di morte”.
“Pensa che non lo sappia?!” rispondo stupita, “pensa che sia una psicopatica? Che questa sia tutta una commedia per me?!”
La mia voce adesso è pacata, glaciale, sto cercando di mettercela tutta per non iniziare a urlare e a piangere, e, vi potrà sembrare strano, ma non è affatto facile farlo quando ti stanno accusando di avere ucciso il tuo ragazzo.
“Agente, mi creda”, continuo nello stesso tono, “so che se mi incriminate le cose si metteranno molto male. Me ne rendo conto. E so che forse non sto facendo una buonissima prima impressione, ma è solo un meccanismo di difesa, ok? Sto dicendo la verità”. Lo guardo dritto negli occhi mentre una lacrima mi scivola lunga la guancia nonostante mi sia sforzata di non piangere.
“Io non ho ucciso Daniel. Lo amavo, lo amavo con tutta me stessa. E, sì, quella sera abbiamo litigato”, guardo ancora una volta la foto del suo cadavere, “ma non gli avrei mai fatto del male”.
Il Detective Wilson non dice una parola. Continua a fissarmi, immobile, mentre io continuo a piangere silenziosamente.
Rimaniamo così per un bel po’ di minuti, o magari solo per qualche secondo. Il tempo sembra dilatarsi all’infinito in questa stanza claustrofobica.
“Ok”, dice, “ti credo”.
Come scusa? Pensavo che avesse già comprato i biglietti per la mia esecuzione.
“Non mi aveva detto che siamo passati al darci del tu”.
“Julia”. Wow, adesso sembra mio padre dopo che ho rotto la finestra dei vicini.
Vorrei scusarmi, ma non sono molto brava con le scuse.
“Grazie”, dico invece, “sono felice che almeno una persona sulla faccia della terra non creda che sia un’assassina psicopatica”.
Sorride tristemente. “Vedi, Julia, il problema è che il fatto che io ti creda non cambia niente. Le prove sono ancora tutte contro di te e anche se sono tutte circostanziali, come mi hai gentilmente fatto notare, sono abbastanza per convincere una giuria che sei stata tu ad uccidere Daniel”.
Sento un nodo formarsi in gola. Sta andando tutto a rotoli, la mia vita prima di tutto, e in senso tristemente letterale, aggiungerei.
“Quindi come riuscirà a farmi scagionare?”
“Trovando il vero assassino”, dice semplicemente, nemmeno stessimo giocando a Cluedo.
Inizia a cercare dei documenti nella sua cartellina. Ne tira fuori uno ed inizia a leggerlo.
“Allora, iniziamo analizzando le prove contro di te”.
Beh, ci vorrà un po’.
“Innanzitutto ti hanno vista litigare con Daniel poco prima dell’ora del decesso e non ci sono testimoni che possano confermare la tua versione, ovvero che sei andata a casa subito dopo, giusto?”
Annuisco lentamente.
“Benissimo”. Scrive qualcosa su un foglio giallo. “Perché avete litigato?”
“Pensavo che mi tradisse”. So che dovrei continuare ad articolare la frase ma penso che se iniziassi a parlare mi metterei a ridere. La situazione è così poco divertente che è davvero esilarante. Sembra così stupido adesso. Certo, direi che ogni mio precedente problema possa essere considerato stupido rispetto alla mia attuale situazione. Ragazzo morto, accusa di omicidio, probabile pena di morte. La gelosia è stata doppiata da un bel pezzo.
“Avevo preso il suo cellulare e ho visto il messaggio di un ragazza che gli stava dietro da almeno un anno- “
“Alexis Troudeau, giusto?” Mi interrompe.
Annuisco.
“Era ad una festa, e ci sono almeno una dozzina di testimoni che possono confermarlo, quindi ha un alibi, nel caso si stesse chiedendo cosa ho fatto nell’ora che ti abbiamo fatto aspettare. Continua pure”.
Aspetto un secondo per riprendere il filo del discorso.
“Si, dicevo, quindi sono andata fuori di testa ed ho iniziato ad urlare in mezzo alla strada”, quasi mi metto a ridere di nuovo ricordando questa scena, “Dio, sono stata veramente ridicola. La regina del dramma, mi chiamavano da piccola”. Sorrido perché è stato proprio Daniel a darmi quel soprannome.
“Dopo quella scenata sono tornata a casa quasi di corsa, e qualche ora dopo mi hanno chiamato per dirmi che il mio fidanzato era morto e che io ero stata accusata del suo omicidio. Riesce ad immaginarselo? Un momento prima sono a mangiare gelato direttamente dalla vaschetta pensando che l’amore della mia vita sia finito, e quello dopo scopro che lo è nel modo più assoluto e definitivo possibile. È divertente non trova anche lei?”
Il detective mi guarda serio, compassionevole.
“Ma come? Non ride? Era una battuta, sa. Cercavo di rallegrare un po’la situazione, ma la capisco, il mio senso dell’umorismo adesso non deve essere proprio dei migliori”.
Stavolta inizio a ridere per davvero, in modo completamente isterico. Vedo che il mio progetto di mantenere un’aria distaccata e superficiale salutarmi dalla finestra.
L’espressione del detective si fa ancora più seria ed io smetto di ridere di colpo.
“Si, lo so, adesso non è il momento di scherzare”, dico con una voce glaciale, “c’è in ballo la mia vita eccetera, eccetera, eccetera. Il fatto è, detective, che non importa quanto tempo passeremo dentro questa cavolo di stanza. Qualcuno mi ha incastrato ed ha fatto veramente un bel lavoro e non scopriremo mai chi ha realmente ucciso Daniel. È inutile illudersi. Ormai sono fottuta e lei non riuscirà a salvarmi. Quindi può prendere la sua cartellina, i suoi appunti ed andare gentilmente a quel paese, per quanto mi riguarda. Lasci perdere me e il mio penoso senso dell’umorismo”.
Dopo questo discorso da premio Nobel, non si degna neanche di guardarmi, continua a fissare quei suoi documenti del cazzo nella sua cazzo di cartellina gialla come se non mi avesse neanche sentito.
Sto praticamente parlando da sola. Ed io che pensavo di piacergli nel profondo.
“La pistola che ha ucciso Daniel corrisponde per marca e calibro a quella che ha comprato un anno fa, per autodifesa sembrerebbe”.
“Ho denunciato la scomparsa di quella pistola tre mesi fa”.
“Quindi è stato premeditato”.
“Soffre di disturbi della personalità, per caso? Le ricordo che cinque minuti fa ha dichiarato che mi credeva e che voleva aiutarmi”.
“La sto aiutando, signorina Dane”, dice rimanendo impassibile. “In tribunale non saranno tutti carini e gentili come me. Quindi la sto preparando a quello che diranno gli avvocati dell’accusa, perché sia chiaro, nel 97% dei casi lei andrà comunque in tribunale se non troviamo il vero assassino, indipendentemente dal fatto che io le creda o no”.
“Siamo tornati a darci del lei, quindi? Ed io che pensavo che stessimo facendo dei passi avanti”.
Aspetto per un suo sguardo ammonitore, ma non succede niente.
“Quindi è così che ha intenzione di trovare il vero assassino? Simulando un’udienza di tribunale in questo sgabuzzino polveroso? Non dico di essere un’esperta in risoluzione di omicidi, ma da quello che so lei dovrebbe essere là fuori a cercare nuove prove per incriminare quel figlio di puttana, piuttosto che stare qui a farmi sembrare una criminale”.
Come al solito non si scompone neanche un po’davanti al mio sfogo, anzi inizia a parlare con voce ancora più calma.
“Ovviamente ci sono persone che lo stanno facendo, Julia. Il mio compito è quello di interrogarti per avere nuove informazioni, cosa che non sta succedendo. Quindi se per riuscire bene nel mio lavoro devo simulare un’udienza e farti sentire una criminale, che così sia. Non mi fermerò solo perché te ti sei arresa alla tua condanna. Non me ne andrò di qui finché non avremmo trovato la persona che ti ha incastrato”.
“Non mi sono arresa”, sussurro. E non so a chi lo sto dicendo, chi sto cercando di convincere. Probabilmente me stessa, perché so benissimo che il detective Wilson ha perfettamente ragione. Anche una persona entrata adesso nella stanza capirebbe chi dei due ha ragione e chi ha torto.
Ho mollato, ho smesso di combattere e mi sono rassegnata al fatto che non uscirò viva da questa prigione e che tutti pensano che sia una psicopatica assassina.
“Possiamo ancora prenderlo”, dice Wilson.
“Lo crede davvero?” La mia voce è scettica, ma so che lui lo pensa davvero. Infatti annuisce, determinato e deciso come non mai. Deve vere una considerazione molto alta di sé stesso se pensa di riuscire a scagionarmi.
“Rianalizziamo i fatti”.
“Oh mio Dio!” Urlo esasperata. “Ormai sa cosa è successo! Sono tre giorni che ascoltate la mia versione dei fatti. Lunedì pomeriggio ho litigato con Daniel perché pensavo che mi tradisse, ho fatto una scenata in mezzo alla strada, sono andata a casa, sola, e non ci sono testimoni che possono confermarlo. Un’ora dopo suona il telefono, rispondo, è la polizia che mi dice che il mio ragazzo è stato ucciso e io sono in cima alla lista dei sospettati perché ho un movente ma non un alibi.
Vengo alla centrale, mi interrogate, siete ancora molto sospettosi ma mi lasciate andare, due giorni dopo trovate l’arma del delitto che corrisponde alla pistola che ho comprato un anno fa per autodifesa e di cui ho denunciato la scomparsa più di tre mesi fa, ma voi pensate che avessi pianificato tutto, così mi arrestate, mi accusate di omicidio di primo grado ed eccoci qua.
Daniel è ancora morto, io sono ancora la sospettata numero uno, la mia pistola è sempre l’arma del delitto ed io sono ancora completamente fottuta. Non importa quante volte “rianalizziamo in fatti”, qualcuno mi ha incastrato e lei non riuscirà a cambiare il fatto che verrò accusata per un omicidio che non ho commesso”.
Mi fermo un attimo per riprendere fiato. “Ed ora non mi rifili tutte le solite stronzate sul non perdere la speranza e sul non arrendersi mai, perché ho superato da un bel pezzo quello che la speranza può aggiustare. Quindi, si, ha ragione, mi sono arresa. Ma non per una mancanza di fiducia nei suoi confronti o nei miei. È solo che sono sempre stata una persona logica e razionale, e adesso la regione mi sta dicendo di aprire gli occhi ed accettare la realtà per quello che è”.
Guardo il detective con intensità, come se lo stessi sfidando a controbattere. Ovviamente lo fa, i miei sguardi intensi devono fare abbastanza pena.
“Julia, qui non si tratta di speranza, ragione, arrendersi, non arrendersi. Qui si tratta solo di prove per dimostrare una certa versione dei fatti. Non ti sto chiedendo di non arrenderti, e non ti sto chiedendo di avere fiducia in me, o nel mondo o nella speranza, perché sono d’accordo con te, sono solamente stronzate. Quello che ti sto chiedendo di fare è di aiutarmi e di aiutare te stessa a trovare delle prove che, se quello che dici è vero, sono sicuramente da qualche arte. Dobbiamo solo cercare nel posto giusto e per farlo devo assolutamente rianalizzare i fatti con te perché solo te puoi cogliere qualcosa che ci può essere realmente utile. E comunque un bravo avvocato riuscirebbe a non farti condannare, queste prove non bastano a renderti colpevole oltre ogni ragionevole dubbio”. Sorride di sbieco, “quindi forse, dopotutto, dovresti ancora sperare fino in fondo che non sarai condannata”.
Sento le parole del detective affondare dentro di me e lasciare un segno, ma non mi aiutano, anzi mi fanno sentire ancora più inutile.
“Detective, io so che ha ragione”, sospiro rumorosamente, “ma non so neanche come aiutarla. Le ho davvero detto tutto quello che so”.
“Questo lo so, Julia. Ma andiamo, chiudi gli occhi, pensa a quel giorno”.
Così lo faccio, chiudo gli occhi. Ma niente, assolutamente niente. Tutto quello a cui riesco a pensare è la paura, questa paura incessante che si è impossessata di ogni piccola particella del mio corpo e che non mi fa muovere, non fi fa pensare. Sono come paralizzata. Schiacciata. Dalla paura, dai sensi di colpa, da questa situazione così irreale che una remota parte del mio cervello crede ancora che sia un incubo. Magari tra poco mi sveglierò e racconterò a Daniel dello strano sogno che ho fatto dove mi accusavano di averlo ucciso. Lui riderà e dirà che la prossima volta che litighiamo dovrà stare attento o finirà male per davvero.
“Forza, Julia, cosa vedi?”
E poi mi rendo conto che un incubo, per quanto orribile, non riuscirebbe mai a raggiungere un tale livello di.
Così cerco di scacciare la paura, cerco di ricordarmi cosa è successo quel giorno. Cosa vedo?
Vedo Daniel, in mezzo alla strada, che cerca di difendersi. Da chi? Da me ovviamente. Io sono davanti a lui e sto urlando come una matta, ho il suo telefono in mano. Lo butto per terra e sento il rumore del vetro che si rompe. Spingo Daniel e gli dico che preferirei vederlo morto piuttosto che sentire un’altra parola uscire dalla sua bocca. Scappo, spingo tra la folla che si è formata intorno a noi e sento un rumore strano, ma familiare. Non ci faccio molto caso ma quando sono davanti a casa mia, con le chiavi in mano, lo sento di nuovo. Cos’era quel rumore?
E poi lo capisco.
Era una macchina fotografica.
“Qualcuno mi ha fatto una foto. Una mentre litigavo e una davanti a casa mia”.
Guardo il detective, sperando di vedere il mio entusiasmo riflesso nei suoi occhi, ma rimango amaramente delusa. Lui non sembra neanche la metà esaltato di quanto lo sono io.
“Voglio dire, può essere utile, no? Può provare che dopo la litigata sono tornata a casa mia”.
“Beh, certo ma non c’è modo di recuperare queste foto. Suppongo che tu non abbia visto la persona che le ha scattate, giusto?”
Il mio silenzio è una risposta abbastanza esauriente.
“Senti perché non ti riposi un po’? Che ne dici se ti vado a prendere un caffè?”
Annuisco lentamente.
Il detective esce dalla stanza, lasciandomi sola.
Osservo il mio riflesso nel vetro e mi chiedo se nell’altra stanza ci sia ancora qualcuno che mi sta guardando. Non penso, visto che siamo qui da più di due ore.
Prendo gli appunti del detective e inizio a leggere la sua scrittura estremamente precisa, senza neanche una cancellatura. Quando leggo delle foto sento un sorriso nascermi sulle labbra, ma lo trattengo. Devo dire che è stato veramente un bel tocco.
Ripasso mentalmente i piccoli inizi che faranno capire al detective dove abita James, così finalmente troverà le foto ed io potrò andare a casa.
Giusto, quando esco devo ricordarmi di ringraziarlo, è stata una sua idea dopotutto.
Guardo di nuovo il mio riflesso e sorrido, senza riuscire a trattenermi. Non è un sorriso freddo e estremamente calcolato come al solito, ma è spontaneo.
Felice.
Sapevo che non potevo aver lasciato il mio DNA sulla pistola.
 
 
 
 
  
 
   
 
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