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Autore: Inessa    08/12/2008    6 recensioni
Eppure sentiva un dolore sordo al petto, nel percepire la presenza altrui. Invidiava gli occhi delle altre ragazze che lo imprigionavano ad ogni movimento. Invidiava le orecchie di chi lo ascoltava recitare quei versi dedicati solo a lei. Invidiava coloro che leggevano le parole che lui aveva scritto di suo pugno solo per lei, quelle che gli appartenevano davvero. Avrebbe voluto isolare quei suoni, quei gesti, quegli sguardi e quelle parole, per non essere costretta al dolore di condividerli con altri estranei.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
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Scritta per la IV Disfida di Criticoni. Il prompt personale era Gioia/Dolore, quello di squadra una frase di Alessia Heartilly che trovate nel testo. Un lavoro che, mi duole dirlo, non mi soddisfa per niente, nonostante il tema mi stia molto a cuore e mi abbia spinta a documentarmi anche su particolari non presenti sui libri su cui ho studiato. Attendo con poca speranza i risultati (perché mi aspetto quello che mi merito e non è una bella prospettiva - almeno in questa versione mancano gli errori grossolani di grammatica che si trovano nell'originale -.-).

 

***

 

All’idea di te, dopo tanto tempo.







Lilička

di Izumi

 
 

Mosca, 14 Aprile 1961.

 

Sotto la pioggia battente, Mosca mutava d’aspetto. Era come se un’anima antica serpeggiasse tra le gocce e il grigiore della periferia al di sotto delle nubi, portando con sé quell’atmosfera greve e confortante allo stesso tempo che caratterizza la fine di un lungo inverno, tra la speranza della primavera e la nostalgia delle serate attorno alla stufa.

Lilja osservava le gocce scivolare sui vetri sottili delle finestre sigillate, rabbrividendo ogni tanto per gli spifferi umidi che entravano dalle fessure sul davanzale. Sapeva che quando la pioggia cadeva trasversalmente sull’asfalto, come in quel momento, il cattivo tempo era destinato a durare poco. Presto avrebbe smesso. Anche se così non fosse stato, sapeva bene che Mosca non si sarebbe arresa. Mosca non si era mai arresa alla pioggia. Mosca non si era mai arresa.

Un lampo illuminò l’angusta stanza in cui viveva con la sua numerosa famiglia: le sedie attorno alla stufa, le stoviglie sporche, il pavimento polveroso e la finestrella dalla quale guardava il cielo. Contò lentamente, trattenendo il respiro, uno, due, tre…

Quindici secondi e poi il tuono: il temporale si stava allontanando; la pioggia moscovita non si smentiva mai.

Ormai era quasi l’ora, quindi decise di smettere i vestiti casalinghi e prepararsi alla serata. Un semplice vestito blu, di taglio moderno, con pois bianchi, e un paio di semplici scarpette chiare che, lo sapeva, si sarebbero subito sporcate di fango. Eppure sapeva anche che a lui sarebbero piaciute lo stesso, così come gli sarebbero piaciuti i capelli biondi con i boccoli sformati dall’umidità. Sulle labbra un po’ di rossetto rosso, di pessima qualità.

Una volta fuori di casa, si incamminò di fretta verso la via Tverskaja, per l’appuntamento alla Majakovka. Era in largo anticipo, ma voleva avere la certezza di non perdere l’inizio delle letture.

Quando arrivò c’era ancora poca gente, oltre lei. Ragazzi, soprattutto, intenti a scherzare e darsi pacche vigorose sulle spalle, con una bottiglia di birra in mano, e qualche ragazza troppo giovane - vestita in maniera molto simile alla sua, ma con abiti meno sgualciti - seduta in disparte a guardarli in silenzio.

Come ogni volta, cominciò a guardarsi intorno, nella speranza di vederlo. Ad ogni minimo rumore, ad ogni passo che sentiva alle proprie spalle si voltava ansiosa, con la speranza di ritrovarsi i suoi occhi puntati addosso. Ma lui sarebbe arrivato tardi, come al solito. Si sarebbe lasciato attendere da lei e da tutti gli altri.

Col passare dei minuti la piazza iniziò a popolarsi. Gruppi di ragazzi uscivano dalla stazione della metropolitana sulla sinistra e riempivano l’aria di risate. Alcune coppiette si nascondevano alla vista degli altri per godersi un po’ d’intimità: lui con la gelatina nei capelli, il cappotto largo di modello americano, lei con una gonna che probabilmente sarebbe stata disapprovata dalla sua babuška russa delle campagne del sud-ovest. Tutt’intorno l’odore della terra bagnata e i fiori colorati delle aiuole che scintillavano alla luce del tramonto resa opaca dalle nubi.

Si era fatto tardi, ormai, e l’atmosfera si scaldava. Con gesti quasi furtivi i ragazzi si passavano i fogli quasi illeggibili dei samizdat1 battuti a macchina da scrivere, con gli ultimi versi di Galanskov. Forse era solo lei a sentirla, ma sembrava che un alone di gioia serpeggiasse nell’aria grigia di pioggia, che l’attesa si respirasse nell’aria fresca del tardo crepuscolo moscovita. Il giorno durava sempre di più, man mano che si avvicinava la bella stagione e presto le ore della notte, che erano quelle che preferiva, si sarebbero ridotte ad una manciata.

- Il fumo di sigaretta ha mangiato l'aria...

Il suo cuore perse un battito. Si era talmente estraniata dalla realtà da non notare che tutto intorno a lei era calato il silenzio, che tutti si erano voltati, pronti ad ascoltare, verso la statua al centro della piazza. Con la sua posa fiera, Vladimir Vladimirovič Majakovskij aveva riacquistato il suo ruolo di catalizzatore delle serate. La sua figura di pietra, con il braccio sinistro piegato su un fianco e lo sguardo che volgeva ad est, verso il centro della città, era illuminata dal basso da una luce rossastra.

Ai suoi piedi, stava lui. Vladimir Vladimirovič, per un buffo scherzo del destino.

- La stanza è un capitolo nell’inferno di Kručenych2.

Recitava i versi del grande poeta alle sue spalle come se gli appartenessero e aveva su di sé gli occhi dei presenti. Il migliore, tra tutti quelli che quella sera avrebbero letto o recitato a memoria. L’unico capace di farle battere il cuore all’impazzata e farle tingere di rosso le guance pallide per il freddo. E la consapevolezza che, in quel momento, anche lui stava pensando a lei la faceva fremere di gioia.

- Ricorda, accanto a questa finestra, per la prima volta, freneticamente, carezzai le tue mani. Oggi eccoti seduta…

Finalmente incrociò il suo sguardo e quei versi divennero solo suoi. Quegli occhi scuri la attiravano verso di sé, verso i suoi movimenti al centro della piazza. I suoi abiti erano trasandati, ma la sua capacità di calamitare l’attenzione, di far vivere agli uditori le emozioni dei versi sulla propria pelle facevano passare tutti gli altri dettagli in secondo piano.

Sfolgorante e insieme soffice, capace di racchiudere in un suono l'amore che aveva sempre cercato.3

Seguiva le sue parole, quelle che più amava e più spesso si sentiva sussurrare tra i capelli, impresse a fuoco nella mente. Bisbigliava appena, partecipe, senza far arrivare i suoni che produceva alle sue stesse orecchie, per non rovinare la voce calda e roca di lui.

- … il cuore in una morsa di ferro.4

Eppure sentiva un dolore sordo al petto, nel percepire la presenza altrui. Invidiava gli occhi delle altre ragazze che lo imprigionavano ad ogni movimento. Invidiava le orecchie di chi lo ascoltava recitare quei versi dedicati solo a lei. Invidiava coloro che leggevano le parole che lui aveva scritto di suo pugno solo per lei, quelle che gli appartenevano davvero. Avrebbe voluto isolare quei suoni, quei gesti, quegli sguardi e quelle parole, per non essere costretta al dolore di condividerli con altri estranei.

Un applauso commosso accolse i versi finali, quelli più duri, che le facevano salire le lacrime agli occhi, soprattutto in quel giorno, che li aveva visti ostinati anche di fronte ai festeggiamenti per un nuovo traguardo raggiunto dall’Unione Sovietica e dall’umanità5. La lettura di quella sera aveva un significato speciale per tutti coloro che amavano i versi del grande poeta, per tutti coloro che avevano a cuore la storia della Patria; quella passata e quella presente. Erano trascorsi trentuno anni esatti da quando, con un colpo alla tempia, aveva abbandonato la poesia e la causa, nel suo studio al numero sei di piazza Serov, nei pressi della Lubjanka.

Vladimir Vladimirovič Majakovskij aveva premuto il grilletto, a dispetto delle promesse fatte alla sua Lilja.

Trattenne il fiato mentre il suo Vladimir si dirigeva verso di lei, accolto dai gesti affettuosi degli altri ragazzi della Majakovka, la sigaretta tra l’indice e il medio della mano destra. Aveva uno sguardo greve, mentre aspirava il fumo e lo tratteneva per diversi secondi, insieme al respiro. Rispondeva distrattamente ai saluti. Soprattutto lui sentiva con particolare partecipazione l’anniversario di quel giorno.

Come sempre, quando lui le era vicino, anche lei riceveva dei saluti educati e poco affettuosi. Sapeva che, se non fosse stato per la sua presenza e per il rapporto che li legava, non le avrebbero riservato quel rispetto. Non c’era posto per le ragazze come lei nei circoli maschili della Russia di quegli anni. Malvestita, un po’ rozza e di certo non bella.

- A quelle come te non avrebbero dovuto permettere di fuggire dalla campagna, Lilja Andreevna. Vladimir Vladimirovič ti scopa solo perché sei il pezzo che manca per completare la sua opera.

Sentiva quelle parole rimbombarle nelle orecchie ad ogni sguardo che le veniva rivolto. Ad ogni saluto velatamente educato. Prima a Vladimir, poi a lei, com’era naturale.

Finalmente le si fermò davanti, e le prese il mento tra le dita che odoravano di fumo. Le accarezzò le labbra dapprima con il polpastrello ruvido e scuro del pollice e poi con le sue stesse labbra, sfiorando con i denti la carne sensibile. Aveva il solito sapore di vodka e tabacco.

La baciò come se la amasse davvero; come se le parole dure che spesso le venivano rivolte fossero solo delle menzogne. Come se la accogliesse ogni notte nel suo letto perché era semplicemente lei e non perché si chiamasse Lilja.

- Lilička…

Lilička, appunto, come a lui era permesso di chiamarla. Come l’unica donna amata da quell’uomo in pietra che si trovava di fronte a lei. Da un Vladimir Vladimirovič vissuto trentuno anni prima, che era stato eletto a simbolo e oggetto di culto da quella generazione di giovani poeti e in cui l’uomo che sussurrava in quel momento il suo nome, con la devozione di un amore sofferto, si incarnava pienamente.

La prese per mano e la condusse fuori dalla folla radunata ancora attorno al monumento ad ascoltare il giovane Kalinin, intento a leggere versi nuovi, o a commentare sottovoce le ultime notizie del Sintaksis6. Scavalcarono i cordoni di protezione che circondavano l’uditorio per non disturbare e non essere disturbati.

Vladimir spense una sigaretta sull’asfalto col tacco della scarpa e ne accese subito un’altra. Aspirava il fumo e lo tratteneva con un’espressione talmente assorta da ingelosire Lilja, con una punta di delusione. Invidiava persino il fumo della sigaretta e avrebbe voluto che riservasse a lei quella stessa dedizione, quell’espressione concentrata ed estatica. Che respirasse l’aria dalle sue labbra così come aspirava la nicotina. Un pensiero folle.

L’estremità incandescente delle papirosy con cui amava assuefarsi riusciva a stregarla. Vista, olfatto, udito, tatto, tutto era concentrato su di lui. Avrebbe voluto sentire anche il suo sapore, ma non aveva il coraggio di scostargli la mano e prenderselo. Conquistare le sue labbra lasciarsi assuefare.

Fu lui, quasi leggendole nel pensiero ad avvicinarsi e baciarla, mentre con la mano libera le accarezzava i capelli dietro la nuca. Un amore che era un triste connubio di dolore e gioia. Gioia quando la baciava come se si trovassero da soli all’ombra del monumento della Majakovka, dolore quando la realtà faceva capolino, insinuandole nella mente una sensazione più razionale e fondata di un dubbio.

Lei non era davvero Lilička, come lui non era davvero Vladimir Vladimirovič. Non quelli che avrebbero voluto, almeno.

- Il cielo è pesante stasera, Lilička. – disse con le labbra ancora a poca distanza dalle sue. Le piaceva respirare il suo odore quando era così vicino, ma quella sera era più flemmatico del solito, lontano da quelle notti in cui la schiacciava tra le lenzuola del suo letto, infiammandole la pelle del petto con la barba incolta e i sensi con le mani che la accarezzavano tra le gambe. Quando sussurrava il suo nome tra i gemiti, come se fosse stata davvero, ancora una volta, la Lilička che amava.

Nel frattempo Ščukin7 aveva iniziato a recitare i suoi versi.

- Sarà la pioggia. – ipotizzò Lilja, non riuscendo a trovare nulla di più consono da dire, nulla che fosse più degno del ragazzo che aveva davanti. Lei non frequentava nemmeno l’università, dopotutto, ma leggeva devotamente i samizdat.

Lui aspirò un’ennesima boccata di fumo e scosse semplicemente la testa, senza condannare la sua inadeguatezza – Si prepara qualcosa di più grande. C’è qualcosa di nefasto, in questo giorno.

Un brivido la attraversò, insieme ad un principio di cattivo presagio, ma non ebbe il tempo di percepirlo. Qualcuno iniziò ad urlare dai margini della folla e in poco tempo si era scatenato l’inferno sulla piazza. Vladimir la prese per mano e la portò lontano, attraversando follemente la strada. Le guardie avevano iniziato a disperdere la folla.

- Aspettami qui. – le intimò.

- Vladimir, ti prego… - le lacrime avevano iniziato ad offuscarle la vista.

Era il quattordicesimo giorno di aprile.

- Non mi lancerò dalla tromba delle scale, non berrò il veleno…8

Iniziò a piangere silenziosamente, registrando ogni sfumatura della sua voce bassa e resa roca dal fumo. Riuscì appena a sfiorargli i capelli lunghi fino all’orecchio.

- Non premerò il grilletto sulla tempia…

Il trambusto e i suoi passi che si allontanavano in fretta non le permisero di sentire gli ultimi versi.

- Permettimi almeno di coprire con un’ultima tenerezza il tuo passo che si allontana.

Nemmeno il suo Vladimir avrebbe mantenuto la promessa fatta.

E al dolore di quell’attimo e di tutti quelli che l’avrebbero accompagnata in seguito si mescolava la gioia, al pensiero che non avrebbe più dovuto condividerlo con la Majakovka. Un altro pensiero folle.

Era il quattordicesimo giorno del mese di aprile.



***



La polizia era intervenuta, quella sera, probabilmente per sedare una rissa, alla lettura di poesie organizzata in anniversario della Morte di Vladimir Vladimirovič Majakovskij.

Alcuni dei soggetti politicamente più attivi vennero arrestati e processati con accuse di sovversione.

Fu l’ultima delle letture dei Ragazzi di Piazza Majakovskij.





Fine









1 “Che si pubblica da sé”, strumento del dissenso sviluppatosi negli anni ’50 – ’60: i versi dei poeti dissidenti, censurati dall’autorità, circolavano illegalmente in copie scritte a macchina e riprodotte anche con carta carbone (di conseguenza, spesso, poco leggibili).

2 Uno dei poeti futuristi più attivi della prima epoca sovietica.

3 Da Certamen di Alessia Heartilly.

4 I versi in corsivo da Il fumo di sigaretta… in poi costituiscono la prima strofa di Lilička – In luogo di una lettera, poesia scritta nel 1916 da Majakovskij e dedicata a Lili Brick, sua coinquilina ed amante nonché moglie del suo amico e coinquilino Osip Brik.

5 Riferimento al primo viaggio nell’orbita terrestre, effettuato da Jurij Gagarin il 12 aprile 1961 e promosso da Nikita Chruščëv, allora leader dell’URSS.

6 Rivista non autorizzata redatta da Aleksandr Ginzburg.

7 Fu davvero l’ultimo a recitare quella sera.

8 Da qui in poi, in corsivo, i versi finali di Lilička.







Un abbraccio virtuale ad Alessia.  

   
 
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