Le
due macchine della polizia arrivano
poco dopo l'alba. Li hai chiamati tu, a fatica, digitando una cifra
dopo
l'altra sul tuo telefono. I lampeggianti blu inondano di colpo la
piccola
stanza con la loro luce artificiale e tu guardi fuori dalla finestra,
mentre un
gruppo di poliziotti entra nell'appartamento. Il primo che appare alla
porta è
Lestrade con il solito impermeabile logoro che non si decide a buttare
via. Ci
è affezionato, così sostiene. Io credo che sia stupido attaccarsi ad un
oggetto.
Tu
lo accogli con un quello che dovrebbe
essere un sorriso, ma che appare più come una smorfia e non riesce in
nessun
modo a celare quello a cui stai pensando. Sei stanco, esausto. Lo si
vede dagli
occhi, dal volto, dal modo nervoso in cui cammini. Lestrade sembra non
farci
caso, ma io sì. Io sì perché ti conosco, perché so cosa significa
quello
sguardo che evita di incrociare quello dell'ispettore, perché so che
ora
vorresti semplicemente andartene.
Invece,
testardo quale sei, rimani.
Sei
lì fermo, invece di tornare a casa
tua, a guardare la squadra di agenti della scientifica che entra nella
stanza,
sei lì a catalogarli uno ad uno, mentre calpestano il pavimento con le
loro
scarpe avvolte nella plastica e i corpi fasciati da tute azzurrine.
Eppure
vedo che vorresti andartene quando
ti dirigi in cucina e metti il bollitore sul fornello. Sei calmo e
vorresti
scappare.
Ma,
imperterrito, rimani.
Prepari
un tè, come se fosse un gesto
normale, e lo offri ai presenti che scavano a destra e a sinistra, che
controllano questo e quello. Sorridi gentilmente, ma le tue dita
tremano.
Dovresti fermarti. Lo sai che dovresti.
Imperterrito,
continui.
Lestrade
sta confabulando con qualcuno
dall'aspetto conosciuto ma di cui non ricordi il nome. Ti guarda e ti
fa cenno
di avvicinarti a lui. Ti parla col cuore. È un uomo che sa quello che
fa,
Lestrade. Tu no.
E,
nonostante il suo logico consiglio,
tu, illogicamente, rimani.
Soltanto
quando si girano tutti, lasciandoti
spazio, allora il tuo volto cambia. Quello che nascondevi appare sulla
superficie e ti trasfigura. Sei stanco e sai che dovresti andartene, ma
sei
ancora lì a guardare il sole fare capolino tra le case.
Ma
ora è tempo di andare. Nascondi le tue
paure e quelle lacrime amare che disperi di trattenere, nascondi i tuoi
occhi
che dicono sempre troppo e la faccia provata. E nascondi tutti i tuoi
ricordi,
nascondili tutti. E poi chiudili in un luogo segreto e non riaprirli
mai più.
Oppure gettali via in strada, lascia che siano spazzati dal vento,
dalla
pioggia, dalla neve. Dimenticati di loro, perché non ne hai più
bisogno. Non di
quelli tristi, non di quelli allegri. Dimenticali perché solo così
potrai
andare a casa, solo così le tue mani non tremeranno mentre versi il tè,
solo
così le tue lacrime nascoste cesseranno di esistere.
Non
ti devi preoccupare di me. Io, ormai,
la tristezza non la sento più. Se n'è andata appena ho toccato il
pavimento.
Quindi non preoccuparti. Dalle mie labbra fredde e dai miei occhi
vitrei non
provo più dolore. Non più quel dolore cupo e sordo che sentivo da
quando avevi
abbandonato questo appartamento. Nessun dolore. Non più.
Quindi
non preoccuparti.
E
se, per sbaglio, dovessi mai
richiamarmi dalle tue memorie, ricordati che non ti sono di alcuna
utilità.
Quindi
non preoccuparti, vai via.
E
non pensare che sia matto se ti dico
che, nonostante tutto, ti amo ancora.
Non
preoccuparti.
Ti amo
ancora.
N.d.A:
La "colpa" di tutto
quello scritto sopra è da imputare alla
canzone "Still In Love" di Nick Cave & The Bad Seeds, che mi
ha,
ovviamente, ispirato una Johnlock. Vi ringrazio per aver passato il
vostro
tempo a leggerla e mi scuso se, per sbaglio, vi ho distrutto moralmente.