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Autore: tropicanaroses    27/02/2015    1 recensioni
Disse una volta qualcuno che tutto quello che si piange non è amore. Euridice, si chiamava la canzone. No, questa volta ci è dovuto andare qualcun altro a tirare fuori un’ombra dalle profondità oscure di un luogo senza ritorno; io sono rimasta alla luce gentile di un cielo grigio perla, un non luogo, ricordando come si respira senza affannare. Questa volta, invece di correrti incontro ho preferito vederti arrivare. Certo, mi sono anche assunta il rischio che tu non arrivassi mai. Ti ho amato così tanto, nonostante l’amore.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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The Greyhounds



 

Volere le cose con tutto il cuore non basta, è un fatto risaputo.
Alcuni tra noi, poi, più vogliono una cosa più si arrabattano sbagliando i tempi, i modi, rispondendo a una sequenza di note dell’anima che pesta sui tasti, producendo cacofonie dove dovrebbero esserci melodie. Alcune persone sono nate con il metronomo guasto e non c’è nulla da fare; condannati a seguire un tempo immaginario e noto solo a loro, cozzano contro il vetro antiproiettile del mondo e delle frasi che qualcun altro ha già scritto. Per loro, forse. Meglio di loro, senz’altro. Scavare a fondo nell’anima con un cucchiaio da portata conduce in luoghi che non sapevi esistessero, funzioni dell’essere clamorosamente poco funzionali. I leoni sono fuggiti altrove, qui sono rimaste solo le ossa spolpate delle loro prede. I lupi non ululano più sulle tombe delle nostre buone intenzioni. Cerchiamo di fare in modo che Dio non se ne accorga, ma riuscirci è un privilegio raro. Nessuno ci ripagherà del tempo sbagliato perso nelle nostre visioni. Non crediate che essere buoni sia una strada percorribile con la volontà; come molte altre cose, come l’orecchio per le parole, si tratta di un talento. Il tempo, il mondo, Dio forse sì, ma il talento non te lo puoi inventare.
Si paga ogni momento di felicità? Sì, quando è costruito su presupposti sbagliati. E i presupposti sono sbagliati sempre. Forse dovremmo farci pagare in anticipo, farci pagare in felicità.
Tu sei bella anche se non ridi, sai cadere quasi sempre in piedi…
I levrieri corrono più veloci di noi e del tempo, ed io ragiono solo per ossessioni. Non so fare spazio ai quieti tremolii, vivo di slanci, non ho mezze misure, spesso ho paura, a volte perdo la testa, e la felicità presupporrebbe che nessuno ti rivolgesse la parola mai, perché è un equilibrio così delicato e precario che alcuni sono pronti a giurare che non esista affatto.
Le stelle non ci guardano più; quando ci guardavano non ce ne siamo accorti; ora sono morte, soltanto smerigli di ricordi.
Vano sognare viali bagnati dalla pioggia e gioie perdute, mai avute o mai viste; grande la tentazione di rinchiudersi in quella stanza dentro di sé, perché il mondo è complicato per la gente che parla ai ricordi come se fossero specchiere.
Butta nel fuoco la poesia, tutta la musica che è mia; conserva solo l’altro ieri, i miei biglietti con i fiori.  Non so avere relazioni neanche con me stessa, figuriamoci con la gente, con il Messico e le nuvole, con i contraltari e i controcori e le divinità avverse all’uso di segreterie telefoniche.
Me lo disse una volta un mezz’uomo non originario della Contea, che io sapevo cadere quasi sempre in piedi. Ormai io sono a distanze siderali da tutto e la mia tristezza ha un suo modo di rifulgere che è di una bellezza catastrofica e indicibile. Certe cose non si possono raccontare, certe pieghe del tempo entro le quali io penso sono destinate a rimanere un mistero perfino per me stessa.
Quanto si pagano le cose che si fanno, e in quale conio? E che dire di me, che chiudo gli occhi e solo tu sei vera.
Lo dicevo l’altra sera, ormai mi manca il coraggio e anche la voglia di farmelo infondere. Sono poche le cose davanti alle quali ancora chino la testa, e l’ultima in ordine di tempo è come al solito una persona. Una persona che forse non sa che non si abbattono mai i muri senza sapere perché sono stati costruiti; forse non sa neanche che la gente è una responsabilità enorme di cui farsi carico, che guarirla significa acquisire anche il potere di ferirla — che sempre esula dalla nostra volontà, ci sfugge di mano. Facciamo male perché non siamo onniscienti, perché siamo esseri umani finiti e fallibili, e se anche abbiamo l’accortezza di pensare alle conseguenze delle nostre buone azioni, pensiamo sempre a quelle sbagliate. Non bisognerebbe mai provare a guarire le persone come me, io sono imprevedibile. Non sono mai riuscita a gestire le mie reazioni, a ritrovare quel che cercavo esattamente quando lo cercavo, o ad avere reale fiducia in qualcuno. Spesso mi hanno delusa, ma per qualche legge che non capisco pare che questo non sia un motivo accettabile per dismettere quella sciocca abitudine di alzarsi la mattina e donarsi al mondo. Tralasciando le ferite, le urla, le volte in cui quasi muoio di crepacuore e quel che mi salva è sempre un’immagine, un libro —mai una persona nel senso generalmente accettato del termine — tutto sommato ci sono arrivata viva, qui. E mai fu lungo un bacio, breve un viaggio, o ingannata la memoria del suo dolore al fianco.
È che nessuno può fare a meno di essere chi è e non capirci mai niente.
Sono stanca di amare, amare, amare e di amare sempre per prima, sempre di più e sempre con il meglio che posso trarre dalla mia personale geometria di intelligenza e cuore.
È questo bisogno di scrivere. Sarai la sera quando non mi perderò, la rabbia vera di un pensiero che non ho, l’ombra che scende per dimenticare me, la ninna nanna di un dolore che non c’è… La storia farà scempio d’uomini e parole, gli uomini non saranno più frasi d’amore, ma nel continuo disperarci che c’è in noi io so per sempre che tu ci sei.
Tu, amore per le piccole cose, per gli occhi e per le mani. Amore per gli infaticabili guerrieri che portano la lue anche nella mia eterna oscurità illuminata dal riflesso argenteo della luna. Non ci hanno mai insegnato ad amare, ci è mancato l’esempio. Che tutto ciò che ci è caro abbia pietà di noi e ci mostri il cammino, un qualunque cammino, per arrivare da qualche parte. Non è che si può stabilire un limite quantitativo al bene che si è disposti a dare, o a fare. Io almeno non sono capace. Però se ti vuoi dare devi darti sempre, non solo quando vuoi. O quando puoi. O quando sai. Salvarsi è un termine ridicolo, perciò ci ha sempre fatto ridere. Dispersed are we, come scriveva Virginia Woolf. Anche lei sapeva, anche lei vedeva correre i levrieri più veloci del tempo per portare messaggi che altrimenti non sarebbero mai giunti a destinazione.
Quante bugie abbiamo detto all’amore? Quante gliene dico io, tutti i giorni? Ho un amico che a volte mi ricorda Alessandro Magno, con i suoi capelli biondi e il suo sterminato sguardo che valica un numero imprecisato di limiti e confini, per inghiottire il mondo in un salvifico abbraccio e non ricordo più che cazzo volevo dire perché è suonato il citofono. Il pensiero era bello, però. Era bello il suono che faceva mentre mi scorreva dentro, infilandosi nelle mie vene per uscire alla luce artificiale della sera, sopra il foglio. Ti amerò sempre, Alessandro, per l’eleganza della tua tristezza e quel capotico desiderare, desiderare senza mai riuscire a vedere la fine dei tuoi desideri. Amerò sempre gli occhi che si sforzavano di voler guardare dove nessuno riusciva a vedere. Lì non c’è l’essenziale, come credeva Saint Exupéry, lì c’è tutto il resto. Mi capisci? Tutto il resto.
Ho sempre amato le anime a me affini perché lo erano, e le altre perché non lo erano. Ho amato le rose, le chiese, e i ricordi, e la nota di dolore sforzata di alcune canzoni di Vecchioni, ma mi manca amare con rabbia e incoscienza. Mi manca quella nebbia di parole che mi si affollava in mente quando amavo, e mi manca la mano che la diradava come se non pesasse niente, e che spesso era la mano di Milady. Mi mancano i racconti intorno ai fuochi fatui. Perfino aver messo e visto molto di più di quel che realmente c’era in certi luoghi e in certe anime mi manca, e l’immensa sofferenza che arrivava poi, così spessa e tumida che confinava con la delusione.
Mi manca non saper più dire queste cose, prendere un viso e dirle — dire. Dire gli anni sono solo dei momenti, amore mio, ed io sono in un angolo della sala a braccia conserte per trattenere il cuore in petto e guardo il Cyrano de Bergeràc con Gerard Depardieu ripetendo le frasi a memoria, con gli occhi offuscati dalle lacrime e dallo sgomento; io sono lì e ci sei anche tu, disteso di traverso tra i miei pensieri, ed ogni cosa al mondo parla di te. Ogni poesia mai composta sembra sia stata scritta per ricordare agli altri i lineamenti del tuo viso, la curva del tuo mento, la potenza sconfinata dei tuoi occhi che si chiudono sotto le mie labbra quando ti accarezzano le ciglia. E il tempo in cui siamo lontani è insopportabile e necessario, ed io senza di te non ho Ursa Major a cui puntare per orientarmi, perché tu sei il nord, il sud, l’oriente e l’occidente di quella poesia di W.H. Auden, e tutte le terre che palpitano nel mezzo. Perché il tuo cuore, il tuo soltanto, è la ragione per cui l’Universo funziona dentro me, e hai saputo farmi tornare la speranza nelle tazze di caffè, nelle piogge improvvise, nelle mani che si sfiorano. Tu soltanto hai giustificato ogni respiro rotto, ogni sordo dolore, tu hai guarito ogni angolo di me e con la tua mano hai sotterrato la paura. Tu che esisti, tu che ti dai a me e non mi sembra mai abbastanza, ed io che sbando ubriaca d’amore e mi cadono le cose di mano e mi sento fragile, perduta e sola senza di te. Senza i tuoi occhi a guardarmi, per dirmi che sono forte, che sono cosa buona. Senza le tue braccia a cogliermi di sorpresa sul balcone, sottraendomi all’infinito che sempre mi porta via e non vuole riscatto, no, soltanto divorarmi e riempirmi l’anima di una meraviglia dolorosa che mi infesterà le mani finché sarò viva, ma tu lo capisci e non lo temi. Quante volte un fiore, un bicchiere di vino, una frase ad effetto mi hanno trascinata lontano dal luogo in cui ero. Quante volte sono rimasta sgomenta a fissare uomini che mi accusavano di aver combattuto per avermi e perso. Dovevo odiare meglio, odiare un po’ di più. Invece di pensare “combattere? Cosa ne sai di che vuol dire combattere per qualcosa? Non è un soliloquio né una danza, è un eterno compromesso con se stessi. Una buona dose di dolore e tristezza, e convinzione di aver perduto anche le battaglie che in fondo sai già di aver vinto.” No, combattere per qualcuno non è un soliloquio e tu lo sai. Tu mi hai voluta e non me lo hai fatto passare per una cortesia. Tu mi hai voluta e senza me non potevi vivere, l’ho sentito dentro le ossa. Per questo ho detto di sì, anche se forse lo avevo detto già prima prima ancora che me lo chiedessi. Perché non posso sempre essere io a disegnare le mappe, a decidere i come, i quando, e i perché. No, per una volta mi sono limitata ad esistere, ad amarti, e se tu lo avessi visto, bene, o altrimenti quale dolore, quale pena sarebbe stata peggio di aver fatto ancora una volta tutto da sola? Amato da sola, combattuto da sola, sofferto da sola, perso da sola. Disse una volta qualcuno che tutto quello che si piange non è amore. Euridice, si chiamava la canzone. No, questa volta ci è dovuto andare qualcun altro a tirare fuori un’ombra dalle profondità oscure di un luogo senza ritorno; io sono rimasta alla luce gentile di un cielo grigio perla, un non luogo, ricordando come si respira senza affannare. Questa volta, invece di correrti incontro ho preferito vederti arrivare. Certo, mi sono anche assunta il rischio che tu non arrivassi mai. Ti ho amato così tanto, nonostante l’amore.
Ma non so più scrivere così.
Lasciatemi in questa zona d’ombra, questo sentimento di non partenza.
Quante ne sappiamo sull’amore. Storie che ci hanno raccontato, che ci hanno dato senza chiedere — perché noi ne sapevamo, sì, ne sapevamo a non finire sull’amore. Quante ne abbiamo vissute, strette, lunghe e solitarie come strade senza uscita. Quante ne abbiamo viste, senza saperle guardare se non bendate, vibrando come le corde di un violino su una sinfonia di Pachelbel, malate di una stanchezza bellissima, elegante, imperitura come la volta del cielo che non cresce né cala perché ci appartiene dal momento esatto in cui ci è appartenuto anche l’amore. Come lui, alle volte cade in rovina.
E l’amore, l’amore, l’amore, che bella scusa per sentirsi vivo è stato questo amore… E l’amore, l’amore, l’amore, che insensata pagina di violenze, lacrime e sudore.
Con la presunzione di non aver mai ricevuto lettere d’amore, perché, per noi, solo noi sapevamo scriverle. Noi e Fernando Pessoa, forse, ma non era vero.
E l’amore, l’amore, l’amore, che infrangibile anello è stato il tuo amore: l’attimo nella nebbia che più credibilmente rassomiglia al sole.
Questo avrei dovuto scrivergli, ma ancora non l’ho fatto e forse non lo farò mai. Ci hanno insegnato che gli uomini sono stitici nei confronti dell’amore, ma si sbagliavano. Noi lo sapevamo, perché abbiamo sempre pianto su parole d’amore scritte da uomini — Shakespeare, Wilde, notti interminate, indimenticabili — eppure li abbiamo lasciati sbagliare senza contraddirli.
Siamo state noi a scontarne le conseguenze però, perché abbiamo amato come donne educate all’amore dagli uomini. Il che significa, mia cara, che abbiamo amato gli uomini con l’amore degli uomini, e ne abbiamo tratto tutti soltanto sgomento — perché le donne amplificano ogni cosa, ma gli uomini sanno scriverla, e unire le due qualità provoca solo sentimenti destinati ad esplodere in un boato, perché tutto è sempre stato troppo, da che è nato il mondo, e a noi non hanno insegnato neanche il senso della misura.
Difficile trovare uomini educati all’amore dalle donne, che sappiano guardarci con gli stessi occhi assurdi e assorti con cui noi guardiamo loro. Che capolavoro sono, gli uomini. Macchine straordinarie, nascondono abissi e misteri, affatto banali e disattenti come le maestre ci dicevano a scuola. Guardiamoci bene, cambieremo. Com’è giusto, domani ci lasceremo. Com’è giusto ci sarà sempre il mondo di mezzo, e al mondo non si può sfuggire perché, indipendentemente da dove guardiamo o decidiamo di guardare, purtroppo ci siamo incastrati dentro.
Noi, poi, che peraltro scivoliamo ad ogni passo sull’inchiostro, che speranze pretendiamo di avere.
Per questo è giusto non disperare. Perché noi facciamo sempre il contrario, il contrario, il contrario, e continueremo a farlo finché non avremo ragione. Per principio e per disperazione, e per quell’assurda incapacità a rassegnarsi con cui siamo nate come a volte si nasce con una voglia su una guancia, correremo nei boschi sempre più veloce dei levrieri.  Perché forse noi, diversamente da loro, non vogliamo arrivare a destinazione.
Forse.

   
 
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