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Autore: KeyLimner    27/02/2015    0 recensioni
"Una vena pulsava sulla fronte di Carl.
In una qualunque altra giornata, si sarebbe potuto dire che la colpa fosse del caldo torrido, ancor più insopportabile in quello studio chiuso, e maggiormente a causa delle finestre sbarrate. Ma già il fatto che le finestre fossero sbarrate, con un caldo simile, era un chiaro segno che non si trattava di una giornata qualunque.
Le urla della folla, assembrata fuori dai cancelli della fabbrica, erano chiaramente udibili anche attraverso i doppi vetri. Qualcuno di tanto in tanto provava a scagliare dei sassi contro le imposte, ma per fortuna erano abbastanza solide da resistere.
Ogni volta che sentiva il rumore sordo dei ciottoli che le urtavano, Carl sobbalzava..."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una vena pulsava sulla fronte di Carl.
In una qualunque altra giornata, si sarebbe potuto dire che la colpa fosse del caldo torrido, ancor più insopportabile in quello studio chiuso, e maggiormente a causa delle finestre sbarrate. Ma già il fatto che le finestre fossero sbarrate, con un caldo simile, era un chiaro segno che non si trattava di una giornata qualunque.
Le urla della folla, assembrata fuori dai cancelli della fabbrica, erano chiaramente udibili anche attraverso i doppi vetri. Qualcuno di tanto in tanto provava a scagliare dei sassi contro le imposte, ma per fortuna erano abbastanza solide da resistere.
Ogni volta che sentiva il rumore sordo dei ciottoli che le urtavano, Carl sobbalzava.
«Io, francamente, questa vostra ostinata difesa del comunismo la trovo assurda, oltre che anacronistica. E anche un poco pretenziosa, a dirla tutta».
Diede una boccata nervosa alla sigaretta che teneva in mano.
«Voglio dire… La mia mamma mi ha generato con un corpo sano e ben fatto. Pretenderesti tu che io lo dividessi con tutti i poveri diavoli cui è stata amputata una gamba? No di certo. E perché mai allora dovresti pretendere che io divida i proventi di questa fabbrica, che la mia povera mamma mi lasciò morendo… insieme a questo corpo su cui tu non oseresti accampare alcun diritto… fra tutti i diseredati? Che, io ci ho colpa se sono dei diseredati, se la loro mamma invece non gli ha lasciato che un paio di gambe e di braccia per lavorare?».
Francis, di fronte a lui, scosse il capo.
«Fai dei paragoni senza senso. Certo, non hai nessuna colpa se a un povero cristo hanno amputato una gamba, ma nel mondo non c’è mica un numero limitato di gambe. C’è invece un numero limitato di ricchezze, e voi, che le arraffate tutte, le togliete di bocca ai poveracci».
Carl spalancò gli occhi, arrossendo visibilmente.
«Arraffate? No, no… Io non ho arraffato un bel niente. Mio nonno, la sua fabbrica, l’ha tirata su col sudore della fronte, mattone per mattone, sgobbando spesso tutto il giorno e tutta la notte… e alla sua morte l’ha consegnata come un gioiellino nelle mani della mia mamma. Che a sua volta, assieme al babbo, ci ha lavorato tutta la vita affinché crescesse e prosperasse. E ora hanno lasciato questo compito a me. Tu dici che dividere i proventi di una fabbrica e dividere un paio di gambe non sono la stessa cosa. Ma allora io ti dico questo: che io questa fabbrica la sento mia proprio come sento mie le gambe, perché in essa scorre il sangue di mia madre proprio come in queste gambe, e strapparmela via sarebbe né più né meno come amputarmi una gamba. Né più, né meno».
Fissò con sguardo vacuo un punto al di sopra della spalla sinistra di Francis, come se stesse pensando intensamente a qualcosa. Dopodiché i suoi occhi caddero sulla finestra, e rabbrividì.
«E poi… giacché ora i diseredati vengono qui a chiedermi un pezzo della mia fabbrica - cui si sentono legati da chissà quale diritto ancestrale, sebbene nessuno della loro famiglia abbia mai alzato un dito per essa, a differenza del mio povero nonno - chi mi dice che un giorno una massa inferocita di zoppi non arriverà qui, pretendendo una delle mie gambe?».
Fece un gesto di stizza con la mano che reggeva la sigaretta, facendo cadere sul pavimento il mozzicone di cenere che si era accumulato nel frattempo.
«Verrà il giorno in cui tutti cammineremo con una gamba sola, perché qualcuno avrà deciso che è un’ingiustizia che alcuni abbiano diritto a due gambe per qualche capriccio del caso… per il semplice fatto che i loro genitori non hanno trasmesso loro qualche grave malattia che li costringa ad amputarsele». Puntò un indice minaccioso verso Francis. «Non venire a dirmi che non te l’avevo detto, quando succederà. Perché succederà. Eccome, se succederà».
Francis allargò le braccia per poi lasciarle ricadere di colpo lungo i fianchi.
«Allora non c’è via d’uscita. Allora siamo tutti condannati a rimanere diseredati e zoppi a vita».
Carl lo guardò corrucciato. La sigaretta si stava consumando lentamente nella sua mano, ma lui sembrava essersene del tutto dimenticato. Poi all’improvviso la sua fronte si distese. Scoppiò a ridere, guardando Francis con un’aria tra il divertito e il provocatorio. «Ma poi parli tu», disse, spegnendo la sigaretta ancora non del tutto consumata nel posacenere. «Tuo padre aveva tre ville sul mare. Sei andato a studiare ad Harvard. Per anni io te, tutte le estati, abbiamo trascorso delle splendide vacanze alle Canarie, in Australia, ai Caraibi. E poi… tutto d’un botto, t’è preso questo capriccio di fare il proletario. Ma chi vuoi prendere in giro!».
Francis abbassò la testa. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato. Lo aspettava con timore dall’inizio della discussione. E il guaio era che non sapeva cosa rispondere. Non in un modo che Carl potesse capire. Se avesse fatto cenno ai libri che aveva letto… a tutte le teorie che mostravano che quel mondo era possibile… alla sua simpatia per gli operai e per la loro condizione… Carl gli avrebbe di certo riso in faccia.
Quindi non ribatté. Si alzò goffamente dalla sedia e con gli occhi bassi mormorò:
«Vado a riferire agli altri».
Poi uscì.
Carl lo seguì con lo sguardo. Quando la porta sbatté alle sue spalle, fece ruotare la sua poltrona girevole e prese a fissare il gigantesco ritratto di suo nonno che occupava tutta la parete. Lo sguardo dell’uomo era severo. Implacabile. Lo osservava - come sempre - con aria colma di rimprovero al di sopra degli enormi baffoni grigi e del colletto della giacca inamidata, come se Carl per lui fosse un’immancabile delusione.
Senza smettere di fissarlo, recuperò la sigaretta dal posacenere e la riaccese.
 
Il capo operaio ascoltava il resoconto di Francis in silenzio. Non lo interruppe mai, non si lasciò mai sfuggire neanche un’esclamazione, ma il suo cipiglio si fece sempre più corrucciato e minaccioso.
Quando però Francis ripeté le parole di Carl sul duro lavoro di suo nonno nella fabbrica, fece schioccare le labbra, adirato.
«Certo che ha proprio una bella faccia tosta», esclamò. «Il sangue di sua madre! Il sudore di suo nonno! Ma che gran figlio di puttana!».
Sputò per terra con disprezzo.
«E il nostro, di sudore? Di tutti gli operai che la sua famiglia sfrutta senza ritegno da decenni, che sgobbano dalla mattina alla sera - guarda un po’! - senza ottenere nessun riconoscimento? Vedendosi sbattere la porta in faccia non appena si azzardano a chiedere uno straccio di aumento di stipendio? Che cosa sarebbe la sua meravigliosa fabbrica senza il nostro lavoro, eh? Te lo dico io: nient’altro che un fottuto guscio vuoto. Allora sì che lo vedresti scendere dalla sua poltrona del cazzo per baciarci i piedi, supplicandoci di rimetterci a lavoro!».
Di fronte al suo sfogo, Francis sembrò farsi sempre più piccino, come se la sfuriata fosse diretta a lui in prima persona, e non a Carl.
«Devi cercare di capirlo, Arturo», mormorò, cercando di calmarlo - anche se era come tentare di arginare un fiume in piena. «Lui è sempre stato abituato a vivere in un certo modo. Non ha mai immaginato che potesse esserci qualcosa di diverso. Sono sicuro che se gli diamo ancora un po’ di tempo…».
Ma Arturo già aveva smesso di ascoltarlo. Si rivolse verso la massa accalcata sotto di loro, che attendeva sempre più impaziente cercando di capire dal movimento delle loro labbra di cosa stessero confabulando.
«Compagni!», gridò.
Il brusio cessò di colpo.
Centinaia di occhi erano incollati al suo volto duro. Centinaia di orecchie pendevano dalle sue labbra.
«Compagni… e amici. Ciascuno di voi sa per quale motivo siamo qui riuniti, oggi».
Arturo fece una pausa per guardare tutti negli occhi ad uno ad uno.
«Per decenni i nostri antenati hanno lottato contro un sistema che li opprimeva. Contro dei padroni che li sfruttavano… e dei governi che non facevano altro che coprire la merda dei padroni. Fra l’Ottocento e il Novecento, gli oppressi di tutta Europa hanno alzato la testa di fronte ai tiranni, dopo tanti secoli passati a camminare a capo chino. Oggi i tiranni provano a ficcarci di nuovo sotto il giogo. Hanno dimenticato la nostra forza.
«E anche noi, a quanto pare, abbiamo dimenticato. Abbiamo lasciato che si riprendessero gli spazi che ci eravamo faticosamente conquistati. Che tornassero a metterci i piedi in testa. Abbiamo lasciato che ci aggiogassero come muli, e che tanti decenni di lotte evaporassero come neve al sole.
«Ma forse… forse dobbiamo essere più indulgenti con noi stessi. Forse non è stata del tutto colpa nostra. I nostri antenati erano ancora troppo immaturi per fare la rivoluzione, e non sono riusciti a gettare delle basi solide per l’avvenire.
«Noi siamo oggi nella loro stessa condizione, ma siamo più consapevoli. Sappiamo cosa vogliamo. Abbiamo una precisa coscienza dei nostri diritti e delle nostre possibilità. E siamo, se possibile, ancora più forti. Possiamo ripetere le imprese dei nostri antenati, e riuscire dove loro hanno fallito.
«Oggi siamo qui riuniti, compagni… per cambiare la storia!».
La folla esplose in un boato.
Improvvisamente i singoli individui parvero dissolversi in un’anonima moltitudine, che seguì come un solo uomo Arturo mentre marciava verso l’entrata della fabbrica, scansando senza tante cerimonie un Francis paonazzo che agitava inutilmente le mani per fermarlo.
L’enorme cancello che precedeva l’ingresso fu abbattuto senza difficoltà. Al passaggio della folla, le robuste sbarre metalliche parvero accartocciarsi su se stesse come fossero fatte di cartapesta. Centinaia di piedi calpestarono impietosi quei ruderi, marciando sulle macerie del passato con la fierezza dei nuovi dèi venuti a scacciare dal trono i vecchi.
Da dentro, il signore della fortezza sentì i muri della sua roccaforte tremare. Poi il rombo, le grida, il furore della folla che avanzava come un uragano distruggendo tutto ciò che incontrava sul suo cammino… e la sua mente si riempì di un unico pensiero.
Stanno arrivando.
Forse in un primo momento fu assalito dal terrore, ma a quel terrore seguì subito una strana forma di rassegnazione.
Quando sentì i passi implacabili dei suoi aguzzini lungo le scale, strinse convulsamente i braccioli della sedia. Poi però lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e attese che i giudici del popolo venissero a decretare la sua condanna.
Lui che non era mai stato religioso, nel Giorno del Giudizio iniziò a pregare Dio.
E per tutto il tempo, non abbandonò mai lo sguardo di suo nonno. Che, mentre attendeva la sua fine, sembrò stranamente addolcirsi, quasi a concedergli - se non l’assoluzione - almeno un’attenuante della pena.
Quando infine sentì che erano dietro la porta, voltò la poltrona verso di loro. Sul suo viso non c’era più traccia di paura.
E la folla entrò.
 
È fatta.
I servi hanno cacciato via il tiranno, e ora siedono nella reggia al posto dei loro nobili oppressori. Indossano le loro vesti e portano i loro scettri.
Gli oppressi si sono presi la loro vendetta.
Inizia ora una nuova età dell’oro. Un’era di pace e di splendore, destinata a durare a lungo.
Dalle postazioni appena conquistate, questo popolo di creatori aspetta solo gli ordini del proprio capo.
Ed eccolo, il loro saggio pastore, in cima alla torre violata da dove impartiva i suoi ordini il vecchio tiranno.
Lentamente, si avvicina al trono. Accarezza lo scranno di pelle con gli occhi che luccicano. I suoi polpastrelli si attardano sulle piccole imperfezioni, soffermandovisi con dolcezza.
Lentamente, si siede. Un velo di solennità scende subito sul suo volto severo.
Resta immobile per qualche minuto. Gli occhi cadono sul ritratto del padrone spodestato, che ancora troneggia sulla parete, simbolo del vecchio regime.
«Togliete subito quella cosa!», esclama, disgustato e furioso. Due ragazzi si precipitano immediatamente a staccare il dipinto dalla parete. Quando il muro è libero, il campione del popolo appare visibilmente sollevato.
Si gira, e in mezzo al nutrito gruppetto che attende con deferenza alle sue spalle vede il suo fidato amico, Francis. Lo scruta a lungo.
Fa un cenno a uno dei due uomini che hanno appena rimosso il quadro, che si avvicina. Gli bisbiglia qualcosa all’orecchio. Quando si rialza, quello bisbiglia a sua volta qualcosa al compagno, ed entrambi si girano verso Francis. Gli si accostano camminando quasi in sincronia. Presolo sotto le ascelle, iniziano a trascinarlo.
Stupito, l’uomo cerca di divincolarsi.
«Cosa… cosa…? Lasciatemi subito andare… Lasciatemi, ho detto!».
Ma quelli non accennano a mollarlo. Allora Francis si volta implorante verso Arturo e dice: «Ti prego, di’ loro di lasciarmi… Non ho fatto niente, lo giuro!».
Lui lo guarda impassibile.
«Sei un traditore».
Francis spalanca gli occhi, spaesato. «Cosa?! Io, un traditore? Ma se sono stato sempre al tuo fianco! Ti ho sempre sostenuto! SEMPRE!».
L’uomo ribatte senza battere ciglio: «Tutti gli amici del tiranno sono nemici del popolo. E traditori. Meritano di morire».
Francis viene portato via urlante, ma nessuno lo guarda uscire. È come se avesse già smesso di esistere nel momento in cui il capobranco ne ha decretato la morte. Tutti gli sguardi sono puntati su di Lui.
Che, con aria altera, si alza dalla poltrona e si dirige verso la finestra - adesso spalancata - da cui può vedere la folla in trepida attesa.
«La guerra è vinta, miei prodi. Il nemico è sconfitto. Siete finalmente liberi. Adesso però è il momento di ricostruire. Di forgiare un nuovo mondo dalle ceneri del vecchio. Tornate dunque ai vostri lavori, e mettetevi all’opera».
  
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