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Autore: Sgherebero    27/02/2015    0 recensioni
Secondo alcune teorie, il viaggio nel tempo sarebbe possibile, ma le tecnologie odierne non riuscirebbero un tale esperimento poiché troppo poco avanzate.
Oscuri segreti circondano gli Austin. Strani rituali, simboli magici e antiche storie. Mark apparentemente è un adolescente come tutti gli altri, ma non conosce la verità che si cela dietro la sua famiglia. Al suo diciassettesimo compleanno dovrà fare una scelta, una scelta che lo segnerà per sempre: continuar a vivere una vita tranquilla e ignorare la realtà che lo circonda, o accettare ciò che lo aspetta, scoprendo la verità sulla scomparsa di suo padr? Qualunque sia la sua decisione, una cosa non cambia... I Custodi lo cercheranno.
Genere: Avventura, Fantasy, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Londra, 1885. Mark stava correndo a più non posso, i vestiti fradici e la pioggia pungente e incessante che gli appannava la vista gli ostacolavano la fuga. Il vicolo sembrava farsi sempre più stretto ad ogni suo passo, l'oscurità era interrotta dalla luce giallognola e fioca dei lunghi lampioni alla sua destra. Diede un breve sguardo dietro di sé, ma riuscì ad intravedere solo le ombre deformi dei suoi inseguitori farsi sempre più vicine, lo stavano raggiungendo. Sentì degli spari alle sue spalle, i proiettili cocenti sfiorarono il suo corpo procurandogli qualche graffio lungo le braccia e le gambe, ma continuò a scappare senza più voltarsi. Non si udiva alcun rumore, fatta eccezione per quello della pioggia e dei passi veloci sulle pozzanghere che si ripeteva incessantemente. Fu la prima volta che ebbe veramente paura, paura di non rivedere più la sua famiglia. Svoltò a sinistra e poi la vide, una sfera deforme formata da pura energia lievitava a circa due metri d'altezza, non era più grande di una palla da baseball, e l'aura che emetteva aveva un colore verde smeraldo. -Ce l'ho fatta!- disse Mark mostrando un sorriso speranzoso, la runa sul suo palmo sinistro si faceva sempre più calda e stava incominciando ad assumere lo stesso colore di quella strana aura. -Non fategli raggiungere il portale o pagherete con la vostra vita!- gridò l'uomo probabilmente a capo degli altri quattro inseguitori. A quell'ordine susseguirono gli spari che irrompevano violentemente nel silenzio di quella notte. Mark era ormai ad una decina di metri dalla sfera di luce, le gambe stremate gli dicevano di fermarsi, ma lui non poteva, era troppo vicino al suo obiettivo. Afferrò l'orologio dorato che aveva legato al collo con una catenina e lo strinse nel palmo ancora più luminescente di prima, diventando quasi accecante. La sfera raccolse attorno tutta l'aura e esplose, lasciando posto ad un grosso vortice. Sentiva l'energia del varco travolgerlo e attrarlo a sé, riusciva a udire le grida infuriate degli inseguitori che avevano cercato di fermarlo, dopodiché ci saltò all'interno, lasciandoseli dietro. ...UN MESE PRIMA,NEL FUTURO... -Anche oggi siamo sopravvissuti a quest'orrenda scuola.- disse Stephen mentre si accendeva una sigaretta e scendeva le gradinate fuori alla Norman High School. -Dai, non è andata così male.- Mark fece qualche passo a destra per allontanarsi dal ragazzo, odiava che qualcuno fumasse vicino a lui. Due ragazzi, probabilmente di quarta, stavano parlando della partita di football che si sarebbe dovuta tenere quella sera nel campo della scuola. Mark non era un amante di quello sport, ma quando non aveva nulla da fare il venerdì sera andava a vederla con piacere. Mise le mani nelle tasche del pesante giaccone blu scuro per ripararsi dal freddo. Quell'inverno era più gelido del solito, la neve cadeva leggera e pian piano si accumulava lungo la strada e sui rami degli alberi, ormai privi di foglie. L'altro accennò il suo sorrisetto da sbruffone mentre teneva la sigaretta tra le labbra, con cui introduceva spesso qualche frase. -Parla per te, il compito di matematica è andato uno schifo. Scommetto invece che tu prenderai la solita A.- I capelli biondi e lunghi dell'amico erano coperti in parte dal cappuccio della sua felpa nera. Mark si sedette al centro dei gradini di marmo ghiacciati, il giaccone che indossava non riusciva nascondere suo fisico atletico e slanciato. -Che fai? Guarda che così ti si gelerà il culo.- -Aspetto mia madre, mi accompagna con la sua auto.- rispose con tono vago mentre teneva lo sguardo puntato verso il cielo nuvoloso e i fiocchi di neve si poggiavano sul suo viso pallido, gli occhi azzurro chiari come il ghiaccio e i capelli corti neri gli donavano uno sguardo che faceva sciogliere le ragazze, ma lui non ci faceva caso. -Oh capito, ti farei compagnia, ma devo andare.- gettò la sigaretta e la calpestò col piede prima di andarsene, con un cenno della mano salutò Mark e si allontanò, confondendosi tra la piccola folla degli studenti di terza. In breve tempo rimase da solo, seduto ancora al centro della scalinata e con lo sguardo dritto verso la stradina da cui avrebbe dovuto intravedere la madre alla guida della sua auto. Si guardò l'orologio, era passata mezz'ora e lei era decisamente in ritardo. Pensò di farle uno squillo, ma poi si ricordò che il cellulare gli si era rotto qualche settimana prima. -Cavolo, siamo nel 2014 e non ho un telefono.- si alzò, aveva smesso di nevicare, ma ormai un filo sottile di neve aveva coperto gran parte della zona, i tetti delle case una a fianco l'altra, i marciapiedi, le auto parcheggiate. Si avviò verso la strada di casa, quando arrivò da dietro una macchina, si fermò vicino al marciapiede dove camminava Mark e il finestrino scuro sul lato del guidatore si abbassò, mostrando il viso di una donna sorridente e allo stesso momento dispiaciuto. I capelli biondi le cadevano lungo le spalle e il pesante giaccone grigio le risaltavano gli occhi neri. -Scusa tesoro! Il lavoro mi ha trattenuta più del solito e il traffico... non ne parliamo. Andiamo, sali.- -Non ti preoccupare.- Mark sorrise appena alla vista del genitore, posò lo zaino pesante sui sedili di dietro ed entrò nel posto del passeggero. La radio trasmetteva un brano dei Nirvana, The man who sold the world. A Mark non piaceva da impazzire, ma era orecchiabile e quindi decise di non cambiare stazione. -Allora, com'è andata oggi a scuola? Ti sei organizzato con i tuoi amici per uscire?- chiese Rosie mentre guidava con gli occhi fissi verso la strada, era sempre stata molto prudente alla guida, non superava i limiti di velocità, sorpassava raramente. Questo è il vero motivo per cui fa sempre tardi, pensava lui. -Oh, si si... certo.- rispose lui mentre guardava fuori al finestrino dell'auto. In realtà l'unico amico che aveva era Stephen, il resto dei ragazzi e ragazze era formato da gruppetti di bulli, fanatici di League of Legends (un gioco per computer che Mark non avrebbe mai capito), cheerleaders che stranamente non lo degnavano di uno sguardo e qualche secchione troppo impegnato a studiare e a diventare il capo del gruppo di scacchi della scuola invece di fare amicizia in classe. Il resto del tragitto lo passó quasi del tutto in silenzio ad osservare il paesaggio fuori l'auto pressoché immutato. Lunghe file di abitazioni risalenti all'inizio del novecento affiancate l'una all'altra, alcune addobbate anche con delle luci natalizie che rendevano l'ambiente decisamente più gradevole. Ogni tanto si notava un negozietto che interrompeva quella monotonia di case identiche, se non per qualche dettaglio. Insomma, quello era sempre stato lo stile di Staten Island, si potevano scorgere in lontananza i tetti dei grossi grattacieli lungo la costa dell'isola ad alcuni chilometri da New York. Arrivarono a casa, la quale si trovava su un piccolo rialzamento che la faceva spiccare tra tutte le altre. L'auto attraversò una stradina in terreno che portava alla soglia del grosso cancello di villa Austin. Era fatto interamente in ferro tinto da poco con una pittura verde oliva, le foglie arrampicanti levate da qualche mese avevano già ricominciato ad attorcigliarsi attorno alle sbarre, rendendo così l'entrata della casa simile a quella di un horror. Ci sarebbe bastato solo un temporale notturno, qualche fulmine, ed ecco un film degno di Dario Argento. Le porte di metallo si aprirono automaticamente leggermente cigolanti, lasciando entrare nel grosso giardino la macchina. La grande villa risaleva agli inizi del novecento, proprio come tutte le altre nel quartiere, ma a Mark pareva ci stesse qualcosa di più antico, qualcosa di molto più grande che però non riusciva a scorgere. L'erba perfettamente curata era coperta appena dalla neve che circondava l'intera casa, di solito c'era Frank a quell'ora, il giardiniere che Rosie aveva assunto svariati mesi prima poco dopo essersi trasferita col figlio dal Canada in America, era un vecchietto sulla sessantina e anche un pò grassoccio, che però aveva sempre un sorriso a 32 denti stampato sul volto. Mark non ci parlava spesso, ma quando lo faceva, l'anziano riusciva a strappargli qualche risata o sorriso da dosso. Uscì dalla macchina parcheggiata in giardino e si avviò alla porta con lo zaino in spalla, la madre lo raggiunse subito dopo con passo veloce, quasi come se fosse ansiosa di qualcosa. Prese la copia delle chiavi dalla tasca del giaccone e aprì la porta, le luci del salotto arredato in stile moderno erano tutte spente, cosa che la madre non faceva mai, poi si accese di colpo la lampada a soffitto e spuntarono dall'entrata della cucina suo zio Peter e la zia Michela che tenevano insieme una piccola torta tra le mani con delle candele e una scritta sopra "Buon Compleanno!". Non poteva crederci, lui stesso si era dimenticato che quel giorno compieva diciassette anni! Rimase incredulo per qualche secondo, si voltò verso la madre cercando di capire se centrasse qualcosa in tutto quello e come risposta trovò uno sguardo divertito di evidente complicità con gli altri due parenti. L'abbracciò per qualche secondo e dopo quella piccola attesa riuscì a dire solo una parola ai presenti: Grazie. Era passata qualche ora dalla festicciola a sorpresa, Mark si trovava al piano di sopra in camera sua, steso sul letto e con le grosse cuffie, che gli coprivano di gran lunga le orecchie, ad ascoltare musica. Guardava il soffitto, le tende beige alla finestra facevano penetrare poca di quella luce rimasta. Teneva fra le mani l'orologio che gli aveva regalato la madre. Era molto semplice, senza troppe pretese, tenuto da una catenina dorata, la piccola circonferenza argentea all'estremità aveva qualche graffietto che però solo guardandolo attentamente si poteva notare. Le lancette, anch'esse in oro, puntavano l'orario esatto, le 7:30, mentre i numeri erano segnati con i caratteri romani. A prima vista poteva sembrare solo un orologio a ciondolo di seconda mano, ma per Mark era qualcosa di inestimabile. -Apparteneva a tuo padre.- queste furono le parole di Rosie, con le lacrime agli occhi, prima di porgerlo tra le mani di lui. Dietro all'orologio si poteva notare il nome del padre inciso nell'oro, Jason Parker. Gli era stato detto che dopo la sua morte, Rosie gli aveva dato il cognome materno. Era avvenuto tutto un mercoledì notte, lui era troppo piccolo per ricordare, un incendio era divampato in pochi secondi nel condominio dove vivevano, riuscirono a scappare, ma Jason no. Persero tutto in quell'incendio, Mark non aveva mai visto il volto del padre perchè le foto erano andate bruciate, ma la madre gli diceva che bastava si guardasse allo specchio per vederlo, aveva i suoi occhi azzurri, o i lineamenti leggermente spigolosi del viso. Si alzò dal letto, indossò al collo il ciondolo e ,dopo aver contattato al computer Stephen per organizzarsi a vedere la partita di quella sera, scese le scale diretto verso l'uscita di casa. -Dove vai?- Disse lo zio Peter, seduto sul divano a guardare la tv, era molto simile a Rosie: capelli biondi, occhi neri. Mark e la madre convivevano con lui e la zia da quando erano arrivati a Staten Island, e la cosa non era affatto male. Avevano una villetta, l'affitto, diviso a tre, era accettabile, e gli zii erano persone molto gentili. -Vado a vedere la partita di football della scuola con Stephen.- Rispose mentre apriva la porta e si avviava fuori in giardino, Peter arrivò alla soglia di casa e poco prima di chiudere la porta disse al ragazzo di stare attento e di non tornare troppo tardi, insomma, le solite frasi da parenti. -Mark, fermati!- Si girò di scatto, Rosie lo guardava un pò preoccupata, era poggiata allo stipite della porta e teneva al petto stretto tra le braccia un evidente vecchio quaderno in cuoio. -Che c'è? Va tutto bene?- -Ecco, io...ti devo dire una cosa.- -Mamma, più tardi, ora devo andare.- Non aspettò nemmeno la risposta di Rosie che si voltò e dopo aver messo in moto l'auto, si avviò alla partita. Guardò lo specchietto retrovisore che mostrava la madre ancora fuori alla casa, a discutere con lo zio Peter di qualcosa che evidentemente doveva essere molto importante. Si chiese se avesse fatto la cosa giusta, ma aveva visto l'orologio che portava le 7:50, mancavano solo dieci minuti alla partita e non avrebbe avuto tempo di parlar con lei. Posò l'auto nel parcheggio posteriore della scuola, quasi pieno, poteva sentire le grida della folla provenire dal lato opposto al suo. Uscì dalla macchina e raggiunse gli spalti, Stephen era seduto al centro e stava guardando la partita appena cominciata mentre si accendeva la solita sigaretta. Si sedette al posto conservato dall'amico che con un cenno del capo lo salutò. -Sei in ritardo.- Disse Stephen con un tono affatto offeso, ma leggermente incuriosito. -Già, non avevo notato l'orario, scusa.- Il tempo passò così velocemente tra esultanze e cose varie che quando la partita finì, a Mark sembrò fosse passata appena mezz'ora. Ormai era sera, i quattro alti lampioni ai rispettivi angoli illuminavano il campo occupato non più dalle due squadre, ma dalle cheerleaders della scuola che esultavano la vittoria del team locale con delle coreografie niente mali. Tornò all'auto con cui avrebbe dato un passaggio a Stephen, dato che abitavano nella stessa zona, a cinque minuti a piedi l'uno dall'altro. Mentre guidava, notò il suono di alcune sirene alle loro spalle farsi sempre più vicino. Un enorme camion dei vigili del fuoco li aveva superati in un attimo. -Cavolo, ma che è successo?- disse Mark mentre guardava Stephen, che per risposta alzò le spalle come per dire "E che ne sò". Dopo qualche minuto di macchina vide da lontano una grossa coltre di fumo che si distingueva dal nero della notte tanto che era fitta. Proveniva da una piccola collina circondata da qualche albero, e al centro di essa, una casa andava in fiamme. Il viso del ragazzo si fece ancor più pallido di prima, lì c'era la sua casa. Pigiò il piede sull'acceleratore e senza dare conto alla segnaletica o ai semafori corse il più veloce che potesse. Fermò l'auto arrivato di fronte al cancello della villa e da lì poteva vedere ciò che stava accadendo, era vero, non stava sognando. Le fiamme divampavano su tutta la villa, un esplosione provenire dalla soffitta lo fece sobbalzare, non diede conto ai vigili che invano stavano cercando di placare quell'incendio. Pensò a sua madre e ai suoi zii, potevano essere ancora intrappolati in quella gabbia rovente, spinto da ciò, corse verso l'abitazione e aprì la porta. Alle sue spalle Stephen stava gridando all'amico di fermarsi, ma ormai era troppo tardi. Il fumo gli impediva di vedere attorno a sè e lo soffocava, mentre il fuoco attorno a lui gli bruciava i vestiti. Non udiva grida di dolore o richieste di aiuto, si coprì il naso e la bocca col collo del giaccone, sperando di riuscir a respirare un pò meglio, ma nulla. Cercò guardarsi attorno, tutto era sotto la morsa del fuoco e si stava incenerendo pezzo per pezzo. Ai suoi piedi c'era l'unica cosa che sembrava esser rimasta intatta, il quaderno in cuoio che teneva qualche ora prima la madre, lo afferrò con una mano prima di esser tirato da qualcuno fuori alla villa. Cadde a terra, il contatto della sua pelle con la neve fredda gli fece riprendere appena i sensi. Alzò lo sguardo verso il suo salvatore, era Stephen, era entrato in quell'inferno e l'aveva portato fuori. Si levò il guanto che aveva alla mano sinistra e per la prima volta in tanti mesi Mark notò un tatuaggio che aveva l'amico sul palmo di quella mano. Aveva una forma strana, sembrava la lettera di qualche alfabeto di una lingua antica, poi si ricordò la lezione di storia di quel pomeriggio. Era una runa celtica, iniziò ad emettere un bagliore rossastro. Stephen gli afferrò la mano con la sua che ormai sembrava luccicare di luce propria. -Cosa stai...- Non ebbe il tempo di finire la frase che un dolore lancinante gli attraversò la mano sinistra, stretta alla sua. Con la mano libera, il ragazzo che prima Mark credeva un amico gli tappò la bocca, impedendo di far uscire le grida agonizzanti di lui. Era come se lo stessero marchiando con un segno incandescente, la testa gli iniziò a girare e la presa sembrava talmente forte da potergli rompere la mano. Stephen si inginocchiò vicino a lui e guardandolo negli occhi sussurrò una frase. -Buon compleanno, Mark.- Dopodichè, il buio.
   
 
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