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Autore: suni    09/12/2008    6 recensioni
Giuseppina, per gli amici Giù, Pi per gli affezionati. Diciotto anni di goffaggine, sfortuna e individualismo. Quando suo malgrado cambia città e arriva nella nuova scuola non si aspetta altro che una nuova scarica di sfighe, e invece la ruota sembra girare. Perché Eva è una vicina di banco strepitosa, Francesco l’amico ideale, Greg, Lalla, Patty e Jack la compagnia perfetta. Ma Giù è Giù e la vocina nella sua testa le ricorda che non può essere su.
E difatti c’è un un ma. Un ma alto e biondo, con tanto di occhi azzurri, adorabili fossette e giacca arancione.
Tra serate alcoliche adolescenziali, improbabili sessioni cinematografiche, confidenze tra i banchi e risate miste alle lacrime, Giù scoprirà che anche affrontare i cambiamenti non è un’impresa impossibile. E che ad essere se stessi, alla fine, c’è soltanto da guadagnare. Anche quando si è, appunto, insostenibilmente Giù e tassativamente…sfortunati?
Genere: Generale, Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gentili lettori,

è con trepidazione che vi vengo a sottoporre l’inizio del mio primo racconto a capitoli originale.

Mi sembra ancora impossibile di essere riuscita nell’impresa di iniziare qualcosa di lungo – senza quantificare cosa lungo stia ad indicare, ma non temete, non sono Tolkien – che si disegni con relativa chiarezza su carta e si prospetti definito già dal principio.

Dunque, questo è un racconto poco serio e senza pretese. L’ho scritto ripensando ad anni che ormai non sto più vivendo e che ricordo con affetto, gioia e anche con un po’ di pena. La mia adolescenza è stata, a posteriori, estremamente bella, ma so benissimo che viverla non è stata sempre una favola. C’è dell’ironia verso quell’età in queste pagine, ma è un’ironia molto affettuosa.

Non è assolutamente un racconto autobiografico e nessuno dei personaggi che compaiono è reale, come non lo é la maggior parte delle vicende narrate. Ogni riferimento a persone realmente esistenti e fatti accaduti è puramente casuale.

Con questo, vi auguro una buona lettura.

suni

 

 

 

 

INSOSTENIBILMENTE GIU’

 

 

 

 

Giuseppina riteneva fermamente che nella vita non ci fosse nulla di peggiore del trasferirsi da una città all’altra durante l’adolescenza.

Niente a parte chiamarsi Giuseppina, naturalmente: nell’anno domini 2003 ritrovarsi con un nome proprio del genere costituiva la vergogna più grande che un essere umano potesse provare, se non si superavano le sessantacinque primavere. Erano gli inconveniente dell’avere una madre retrograda e svanita, persa negli anni trenta e del tutto priva di qualunque senso del gusto: non per niente si chiamava Serafina, lo zio Agenore e la nonna Immacolata. I nomi imbarazzanti costituivano una consolidata tradizione familiare dal lato materno e infatti il papà, un banalissimo Marco, passava ogni anno il pranzo di Natale a sbellicarsi dalle risate stringendo la mano dei vari prozii Agamennone e cugine Ermenegilda della moglie.

Conseguentemente, Giuseppina aveva optato per il farsi chiamare con un sonoro Giù per gli amici occasionali o un intimo Pi per gli affezionati, e già questo faceva parte del problema: cambiando città avrebbe cambiato anche i suddetti amici e questo significava dover sopportare di sopravvivere a chissà quanti drammatici mesi sentendosi chiamare Giusy o – sommo orrore – Pina prima che la gente capisse quanto avrebbe preferito un’infibulazione all’onta di ricevere soprannomi del genere.

Ad ogni modo Giù effettivamente si era appena trasferita in una nuova città. E questo era appena meno peggio di chiamarsi Giuseppina.

Aveva letto una quantità di libri e visto chissà quanti film in cui la protagonista liceale si vedeva sradicare come un geranio e trasportare da un angolo all’altro del mondo al seguito di genitori gretti ed egoisti che non ricordavano più cosa volesse dire doversi costruire una vita sociale. Sapeva perfettamente che il trauma poteva essere anche insormontabile e che spesso alla malcapitata avveniva di trovarsi investita di poteri spiacevoli e circondata da persone inquietanti come era successo anche a quella mentecatta di Buffy. Che sì, poi aveva incontrato quel gran figliolo di Angel, ma comunque.

Quella seconda parte della storia, quella in cui lei si faceva valere e trovava un ragazzo secondo di poco in bellezza a Johnny Depp arrivando a conquistarsi la stima di tutti e diventando eroina nazionale, Giù lo sapeva, era prerogativa soltanto delle storie di fantasia, libri e film appunto.

A lei, nella realtà, sarebbe spettato unicamente il trauma.

Anche perché oggettivamente Giù non era figa come Buffy e non portava il suo stesso tipo di minigonne, non aveva un carattere vulcanico come Pippi Calzelunghe né il fascino etereo di Isabella Swan e porco Giuda, prima di fare amicizia con qualcuno ci metteva una vita, anche perché era piuttosto selettiva e aveva passatempi magari non particolarmente comuni.

Giù era quel genere di diciassettenne che per presa di posizione si sforzava di non uniformarsi. Al tempo stesso, non le interessava sbandierare nessuna presunta diversità. Non voleva mettersi gli occhiali D&G ma nemmeno vestirsi di nero e tagliuzzarsi le vene, oppure sfoggiare camicioni colorati di cotone nepalese ingombranti come impalcature. La sua intera personalità seguiva in ogni ambito quel desiderio di anonimo individualismo e di conseguenza la sventurata sviluppava ciclicamente lievi problemi d’identità cui sicuramente un trasferimento traumatico non avrebbe giovato. Per giunta il suo completo disinteresse per ogni forma di moda e la sua deliberata mancanza di cura per l’estetica la portavano a compiere sbalzi anche inquietanti, ché non era raro vederla presentarsi in classe conciata accidentalmente come un cyberpunk un giorno e appallottolata in un’innocua mise di braghe in tela e golfino sdrucito l’indomani.

Quello e il fatto che fosse poco interessata agli svaghi di massa la rendevano leggermente isolata già in ambienti che frequentava dalla nascita: non osava nemmeno pensare a cosa sarebbe stato presentarsi in una nuova scuola, dove nessuno la conosceva, e per di più ad anno iniziato.

La catastrofe.

Era quella la ragione per cui, in quel grigio mattino d’inizio inverno, esitava davanti allo specchio scrutando torva la propria immagine riflessa, rischiando di presentarsi in ritardo in classe al primo giorno. Quella e il fatto di non essere molto sicura di voler comparire davanti ai suoi nuovi compagni prima di aver subito un’operazione di chirurgia plastica che la rendesse completamente irriconoscibile, anche se poteva sembrare inutile dal momento che quelle persone non la conoscevano nemmeno con il suo aspetto autentico, ma dopo l’operazione lei avrebbe saputo che loro non potevano riconoscerla comunque e si sarebbe sentita in pace con se stessa.

Qualcosa del genere, insomma.

Era la prima volta da quando andava a scuola che trascorreva più di quattro minuti a vestirsi. Aveva spulciato tutto il suo guardaroba, ancora parzialmente ammonticchiato negli scatoloni del trasloco, nel tentativo di trovare degli abiti che non le facessero attirare l’attenzione e impedissero la formulazione di qualunque giudizio approssimativo sulla sua persona. Resasi conto che quest’ultima speranza era tragicamente vana aveva stabilito di cercare almeno di non sembrare un panda con la criniera da leone: cosa che tendeva ad avvenire quando si lasciava andare a se stessa – cioè sempre - per via dei capelli crespi e tiziani e delle occhiaie clamorose che la accompagnavano dalla tenera età di dodici anni, per ragioni su cui nemmeno il suo medico curante aveva saputo fornire spiegazioni convincenti.

Dunque si era messa un filo di matita nera sugli occhi, che erano di un bel verde rugginoso e costituivano uno dei pochi attributi di se stessa che non la disgustasse particolarmente. Aveva trascorso un quarto d’ora a spazzolarsi i capelli, tirandoli come se avesse dovuto staccarseli tutti senza eccezioni, e al momento quelli aveva un’accettabile conformazione che seguiva più o meno quella della sua nuca e che con un po’ di fortuna avrebbe tenuto almeno fino a dopo l’intervallo senza l’ausilio di gel e lacca, che andavano contro i suoi principi. Per l’uscita da scuola aveva anche pensato a mettere nello zaino un berretto nero – esitando sulla scelta di un più pratico passamontagna - così da poter nascondere eventuali rigonfiamenti della capigliatura al momento di sfilare fuori dalle porte.

Si era infilata un paio di jeans chiari e non stretti, un maglione verde e il suo cappotto vintage ma non troppo – nel senso che gliel’aveva passato sua madre in memoria della gioventù e che non vantava pretese particolari. A concludere aveva infilato guanti lanosi, sciarpa formato lenzuola e gli stivaloni neri da Marines che la accompagnavano dalle medie, indispensabili per sopravvivere ai marciapiedi ghiacciati senza rimediare fratture composite settimanali.

Del resto ne sapevano, i Marines: avevano fatto il Vietnam, che non era proprio come una passeggiata sul lungomare.

Fatti loro, comunque.

“Giuuuuuù! Muoviti, è tardiiiii!”

La voce di sua madre risuonava come una sirena dei pompieri, ricordandole l’infausto destino che l’attendeva. Giù era una ragazza mediamente coraggiosa e fornita di un certo fatalismo, dunque si gettò un’ultima occhiata dolente, fece alla propria immagine una linguaccia propiziatoria e scattò fuori trotterellando giù per le scale, senza aver fatto colazione, senza sigarette e senza avere idea di quale fosse il numero del suo autobus.

Merda.

   
 
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