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Autore: Leonhard    02/03/2015    5 recensioni
...e poi avrebbero sicuramente giocato a quel gioco stupido che si era inventato Tsuyoshi: "Pensieri, opere, parole, omissioni". Abbreviato, fa popo. un gioco veramente della popo. Ahahah...non aveva mai avuto uno spiccato senso dell'umorismo: neanche lui rideva...bah...
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Aya Sugita/Alissa, Sana Kurata/Rossana Smith, Tsuyoshi Sasaki/Terence | Coppie: Sana/Akito
Note: Lime, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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11.

 
La camera d’ospedale odorava di alcol; fu il naso ad informarla che era tornata cosciente, che era tutto finito. Aprì lentamente gli occhi, lasciando che la pallida luce le ferisse gli occhi. Era accuratamente coperta fin al mento da un lenzuolo candido e da una coperta verde acido e sentiva un tepore assolutamente piacevole in contrasto con l’aria frizzante di metà marzo che c’era fuori da quella finestra.

Oltre il vetro vide distintamente le gemme alle estremità dei rami degli alberi aprirsi timidamente, come a saggiare l’aria, presentando una punta verde poco più grande dell’unghia del mignolo. Era un verde diverso: non sterile e finto e pallido come quella coperta, ma vivo ed energico, carico di aspettativa e di promesse di estati calde e piacevoli da cominciare a godersele già solo volgendo gli occhi su di lui.

Ignorando la tensione del tubo della flebo fissato al suo braccio, accarezzò la pancia. Era piccola e liscia, anche se leggermente morbida e rilassata. Non seppe dire se si sentiva sollevata nell’avere nuovamente la pancia piatta oppure se sentiva già la malinconia della pancia da gravidanza. La porta si aprì con un lieve cigolio ed entrò un dottore dal camice bianco. Chiuse la porta e si avvicinò al letto senza proferire parola. Infine parlò.

“La signorina Sana Kurata?” chiese, con cauta voce professionale.

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Akito non riusciva a pensare se non alla pancia ed al volto di Sana. Lo guardava con quegli occhi finti, quell’espressione ferma ed inespressiva, gli parlava con voce automatica, apatica. Con quella voce gli stava dicendo che era incinta e sapere che lei non si rendeva conto di parlare così e di guardarlo così non lo fece stare meglio.

Probabilmente lei era convinta di star manifestando tutta la sua ansia e la sua paura sia nella voce che nell’espressione e la sua sorpresa nel sentir parlare di ricaduta ne era la prova.

“Sei…incinta?” ripeté, distogliendo l’attenzione dalla malattia della bambola. Lei annuì.

“Sono andata dal medico per degli esami richiesti dal regista” disse. “E mi ha detto che sono incinta. Di quasi due mesi”.

“Ma…tu prendevi la pillola…” disse, ma Sana gli disse quello che pensò il secondo successivo.

“Akito, nessun contraccettivo garantisce protezione totale” disse. Il ragazzo cercò di mantenere un contegno e posò le bacchette; non aveva più fame e lo accettò, anche se non gli piaceva l’idea di tutto quel sushi nel cestino dell’immondizia. Sospirò ed abbassò la testa sul tavolo.

“Chi lo sa?” chiese.

“Mi sono sfogata con Tsuyoshi” rispose. “Avevo bisogno di parlare ed ho chiamato lui. Ma mi sono fatta promettere che manterrà il segreto”. Entrambi erano convinti di star pensando la stessa cosa; lui all’università di entrambi, al suo dojo, alla sua vita. Non era quella l’evoluzione del loro rapporto che aveva pensato quando aveva accettato di andare a letto con Sana. Sentì la voce di lei parlare; poté quasi andare oltre il tono distaccato e percepire nervosismo e paura.

“Non siamo costretti a tenerlo…” disse. Akito alzò lo sguardo su di lei. “Il dottore mi ha detto che posso abortire se non ce la sentiamo…”. Con questa le aveva sentite proprio tutte: lei parlava a lui, proprio a lui, di aborto. Anche se era il modo sbagliato per stare insieme, era comunque una vita innocente.

“Non esiste” disse. “È nostro e ce lo teniamo. E se mi proponi di nuovo una cosa del genere abortisci da sola”. Il viso della ragazza rimase invariato, ma gli occhi si inumidirono e lei si lanciò ad abbracciarlo.

“Avevo tanta paura che mi dicessi di ucciderlo…” sussurrò all’orecchio. Per qualche minuto non dissero nulla, impegnati a cercare calore e coraggio l’uno tra le braccia dell’altro. Akito si ostinava nel suo silenzio, così prese nuovamente lei la parola.

“Ho bisogno di te…” mormorò.

“Lo so…” fu la risposta.

“Non posso farcela da sola a portare avanti la gravidanza”.

“Già…”.

“Vieni a stare da me” disse. Questa volta il ragazzo non rispose; la strinse a sé più dolcemente, dandole la risposta che voleva. Stretta in quell’abbraccio, Sana si sentì di colpo molto meno sola e disegnò sul volto un sorriso che non apparve.

La serata finì pochi minuti dopo. Akito era tornato a casa sua, sconvolto dalle novità dell’ultima ora. Lui un padre? Ma scherziamo? Come faceva ad essere un padre se lui stesso non ne aveva avuto veramente uno? Che razza di padre avrebbe potuto essere? Secondo Sana sarebbe stato un buon padre ed anche lui con il passare del tempo si era fatto un’idea del rapporto che avrebbe voluto con suo figlio. Ma una cosa erano i progetti, un’altra era diventarlo veramente.

Tirò l’ennesimo sospiro della serata. Credeva veramente a quello che le aveva detto: non le avrebbe mai permesso di abortire e non l’avrebbe perdonata se avesse preso da sola quella decisione. Rimuginando sulla serata, tornò a casa e buttò distrattamente un cambio dentro una borsa: le aveva promesso di stare con lei e così avrebbe fatto. Se non per il bambino per lei, per la sua voce stentorea, per il suo volto inespressivo, per la sua psicotica convinzione di essere ancora la ragazza solare ed allegra nonostante la ricaduta della malattia della bambola.

Quella notte, nel letto della ragazza, non riuscì a chiudere occhio: rimase ad ascoltare il respiro regolare di Sana che quasi rimbombava nell’aria, forse rassicurata dalla sua presenza, oppure in preda a uno dei sintomi della malattia. Il suo pensiero era fisso sul suo ventre e si riscoprì invidioso di quella piccola nuova vita: lei se ne infischiava dei problemi esterni, poco gliene importava del fatto che quelli che sarebbero stati i suoi genitori andavano entrambi all’università ed avevano un sacco di progetti. Il fatto di essere un figlio indesiderato non sembrava sfiorarlo: lui continuava a crescere e a formarsi, in attesa del momento di uscire dal suo bozzolo buio e caldo e confortante.

La notte continuò il suo ciclo: la luna salì alta nel cielo e poi iniziò la sua lenta discesa ed Akito era sempre sveglio. Il cielo assunse un’impercettibile sfumatura più chiara che andava via via avanzando e lui era sempre vigile. Le stelle scomparvero una ad una e la luna si fece più chiara, cedendo la scena ad un’alba rossastra ed i suoi occhi erano sempre spalancati. Entrarono nella stanza le lunghe ombre dei pali della luce e dei fili e dei tetti delle case, disegnando deformate figure nere sulla parete bagnata dal bianco accecante del sole. Akito si sentì fortunato nell’avere finalmente qualcosa su cui rivolgere la propria attenzione e finalmente fece ciò che voleva fare dalla sera precedente.

“Pensieri opere parole omissioni” mormorò sottovoce. Si scoprì leggermente contrariato quando non giunse risposta. Stava forse diventando matto?

 
In un mese Akito fu protagonista delle rappresaglie di troppe persone e fautore di scelte difficili. L’università ed il dojo furono soggetti a drastici tagli di tempo e di orario ed il suo tempo libero si ridusse; Sana conduceva la gravidanza con cura ed attenzioni, ma non per questo lasciò perdere i suoi doveri: Il set e l’occasione di tornare sulla scena fornita da Naozumi fu l’unica cosa che non volle tagliare.

Il regista rimase spiazzato dall’espressione sterile con cui si presentò alle riprese, ma l’autore dell’opera ne rimase entusiasta, affermando che era proprio quella l’espressione che avrebbe dovuto avere Tila. La giovane fu così calata perfettamente nei panni della Strega dalla doppia personalità e quando il copione predisse la pazzia del personaggio ed il suo conseguente suicidio, Akito sentì un brivido freddo lungo la schiena ed i peli delle braccia rizzarsi. La fine della scena fu segnata da qualche applauso da dietro la cinepresa. Naozumi fu l’unico a cercare Akito con gli occhi ed a lanciargli un avviso che lui già sapeva. Aveva notato subito la malattia della bambola, ma ricordava bene che l’unico che poteva guarirla da quella..cosa…era quel ragazzo dallo sguardo di pietra.

Fortunatamente le riprese non le occuparono più di una settimana, ma quella sera, una volta a casa, annunciò il suo desiderio di riprendere a recitare.

“Lascerò l’università” disse, con la voce monofonica pregna di determinazione. “Tanto ho sempre fatto fatica a studiare”. La sua decisione preoccupò Akito, ma era la sua vita quindi si limitò ad interrogarla sulla sicurezza dietro quella decisione una sola volta.

Non parlarono più della gravidanza: la accettarono nella loro vita con un silenzio quasi indifferente: loro vivevano la loro vita e lui pregustava la sua, ma ognuno per i fatti propri.

Si era poi trattato di dirlo ai loro parenti. Rei Sagami era rimasto senza parole per una decina di minuti buoni, poi si era sbloccato e la prima cosa che aveva detto li aveva fatti mentalmente ringraziare che il bambino ancora non sentiva, mentre Misako era rimasta impietrita, ignorando l’onnipresente Takezo che aveva avuto il buon gusto di interrompere momentaneamente le sue suppliche riguardo al nuovo capitolo del suo ultimo libro. Infine scoppiò.

“E come lo chiamerete?” chiese, radiosa. Akito guardò l’estasi della donna e lo sbigottimento dell’assistente-ex fidanzato-manager-mantenuto, ma già sapeva che da lì a poco la madre l’avrebbe invitata ad andare a prendere una boccata d’aria solo per parlare con lui in privato. Aveva avuto a che fare con quella donna abbastanza da sapere che non esisteva una valida difesa perché non si poteva conoscere l’attacco.

I due, rimasti soli, si guardarono per un tempo che parve infinito. La donna apprezzò come sempre la profondità degli occhi nocciola, poi si accomodò con un sospiro contro lo schienale di quella stupidissima macchinina giocattolo con cui vagava per la casa.

“Hayama” disse. “Ti ho sempre considerato un ragazzo intelligente e so che farai ciò che è giusto per mia figlia”. Lui non rispose: con quella donna non serviva. “Accetto la situazione solo perché mi fido di te. Sia per la gravidanza che per il resto”.

Il resto. La malattia era il resto. Togliere il nome alla causa della sofferenza era la prima cosa da fare per negarne l’esistenza e poteva capitare, ogni tanto, che era anche ciò che apriva la strada verso la guarigione. Ottenuta la benedizione della madre di Sana, andarono dalla famiglia di lui. Il padre e la sorella presero la notizia relativamente bene, anche se non mancarono episodi di imbarazzante apprensione.

I due tornarono a casa con volti inespressivi, ma sollevati e in buona misura felici. Continuarono tuttavia a non parlare di gravidanza o di matrimonio: continuarono con il loro vivere alla giornata, solo che questa volta l’avrebbero fatto insieme.

 
E poi arrivò quel giorno.

Fu un giorno come tanti, che cominciò con la dolce voce di Amy Lee uscire dalla sveglia, mentre con i suoi Evanescence le svegliava dolcemente sul pianoforte di Your Star. Era stato Akito a farle cambiare la sveglia, minacciandola di lasciarla in preda alle voglie senza battere ciglio: aveva funzionato e l’intro galoppante di This Dying Soul per mano del velocissimo Mike Portnoy era stato sostituito fino a data da definirsi. Quella mattina Sana si svegliò con la nausea e si sentì restia ad alzarsi; tutto normale, pensò Akito, la gravidanza. Si alzò e si diresse in bagno, ancora intontito dal sonno e si sedette sulla tazza.

L’istante in cui arrivò il richiamo spaventato della ragazzo fu lo stesso in cui si rese conto di avere le gambe sporche di sangue.

L’urina smise di uscire e lui scattò in piedi. Senza nemmeno prendersi la briga di alzarsi le mutande, arrancò in camera e, una volta accanto al letto della ragazza, scostò le coperte con spaventata urgenza. Le lenzuola avevano una grossa chiazza di sangue che macchiava le coperte e che sembrava partire da sotto Sana. Lei arrancò all’indietro, in un istintivo tentativo di uscire dalla chiazza rossa. Akito chiamò l’ambulanza, mentre la sveglia ancora diffondeva quella canzone, dalle parole così azzeccate da lasciar pensare che fosse lì apposta.

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Il verdetto fu chiaro e non lasciò spazio a fraintendimenti o speranze di errore. Aborto spontaneo. Alquanto inusuale al quarto mese, ma ugualmente possibile. Aveva avuto bisogno di una trasfusione, le ovaie non avevano subito danni e lei era fuori pericolo, anche se si poteva sentire ovviamente un po’ spossata.

Per il bambino, però, non c’era stato nulla da fare.

Sana aveva spaziato finché non aveva sentito calde braccia avvolgerle il collo. Era sua madre; l’unica volta che l’aveva vista in lacrime era stato quando aveva scelto di restare con lei anziché andare con la sua vera madre, ma erano state lacrime di gioia. Quelle non lo erano. C’era anche il padre di Akito. La sua voce bassa e pacata era a tratti rotta, ma era palese che non sapeva cosa dire. Dopo qualche tentativo, preferì il silenzio.

La verità era che avvertivano la mancanza che sentiva anche Sana. Era morto un bambino mai nato, ma tutti in quella stanza l’avevano in qualche modo già visto: anche solo per un istante, tutti i presenti si erano sentiti mamme o nonni o anche zii, acquisiti o meno. Distinse un’ombra uscire dalla camera, ma non si prese la briga di voltarsi da quella parte: rimase a piangere sulle spalla della madre, chiedendole cosa fosse successo.

Akito era davanti al distributore automatico delle bevande, studiando la scelta in vetrina con occhi assenti. Era stato padre per quattro mesi di un bambino che non aveva mai visto; non esistevano foto né video, ma nemmeno radiografie, trasformazioni del corpo di Sana, nemmeno il test di gravidanza positivo. Era stato padre e non avrebbe mai potuto provarlo. Sentì una presenza accanto a lui e fu con malcelata meraviglia che riconobbe lo scrittore di quel benedetto Chains.

“Akito Hayama, giusto?” chiese, in un inglese con un che di italiano. Lui annuì. “Scusami, ma non ho mai avuto la costanza di studiare il giapponese”. Il ragazzo si limitò a guardarlo e, quando il ragazzo lo trattò con la stessa moneta, inarcò un sopracciglio.

“Posso fare qualcosa per te?” chiese, nella stessa lingua. Lui scosse la testa.

“No, nulla” rispose. “Ci sono le figure sulle bottigliette: dovrei riuscire a capirci qualcosa”. Si stava riferendo alle lattine del distributore. Akito si sentì improvvisamente inquieto.

“Secondo te è colpa mia?” chiese. L’italiano, che sembrava attendere solo quello, scosse la testa.

“Gli aborti spontanei sono una cosa che può capitare” rispose. “E non è necessariamente colpa di qualcuno se succede. Ma non per questo sono meno dolorosi, no? Sentirti innocente ti farebbe stare meglio?”.

“Ovviamente no!” rispose lui. Il discorso trasudava di glaciale logica e l’unica cosa illogica era la rabbia che sentiva montare.

“E allora che ti serve saperlo?” chiese lo scrittore. “È successo e non è colpa di nessuno. Sono cose che succedono semplicemente perché possono succedere e cercare il pelo nell’uovo certe volte vuol dire solo far male a sé stessi ed a coloro che ci circondano”.

“E cosa dovrei fare?” chiese Akito. “Se questa fosse un capitolo dei tuoi romanzi, cosa faresti?”.

“Non hai bisogno di me che ti dico cosa fare” fu la risposta. Sembrò decidersi ed inserì una moneta nella macchinetta. Con un sordo tonfo una confezione di latte al cacao cadde nel vassoio sottostante. Il ragazzo la prese in fretta, come se temesse un furto. “Dai voce ai tuoi pensieri: sai perfettamente cosa fare”.

E lo sapeva, eccome se lo sapeva. Tornato nella stanza di Sana la prese tra le sue braccia e la strinse, lasciandola singhiozzare contro di lui ed allontanando con occhi minacciosi chiunque cercasse di intervenire. Era morto un bambino, il loro bambino: il cordoglio di amici e parenti poteva aspettare un po’.

Sana fu dimessa dall’ospedale due giorni dopo e tornò alla vita di tutti i giorni. Era tornata quella di sempre: risate e battute erano molto tirate e finte, ma erano tornate. La malattia della bambola era stata nuovamente sconfitta, ma a che prezzo. Akito sapeva quello che doveva fare per guarirla e lo fece dopo appena un mese.

Il matrimonio fu semplice, con pochi intimi, caratterizzato dalla partita a Pensieri opere parole omissioni più lunga e numerosa che Tsuyoshi ricordava. Fu grazie a quel gioco che riuscirono ad estorcere allo scrittore di Chains il titolo dell’opera su cui stava lavorando ed Aya rese pubblico il suo entusiasmo con un gridolino.

Quella notte fu scandito da un sesso dolce e cauto, fatto di baci, carezze e parole sussurrate. Quella passione soffusa che trasmetteva una sensazione di casa e non solo di piacere, un miscuglio di sapori ed odori che li fece sentire veramente LORO per quella che sembrò la prima volta in tutta la loro vita.

Quando il sole sorse la mattina dopo Akito sventolò la fede nuziale di Sana in aria, presa chissà quando. Alle sue proteste reagì con un lieve sorriso ed afferrò la mano della ragazza, incastrando nuovamente il prezioso all’anulare.

“Pensieri opere parole omissioni, Kurata” disse. Lei sorrise.

“Era un gioco veramente stupido” osservò. “Hai fatto caso che abbreviato fa popo?”. Il ragazzo sospirò esasperato: anche lei non aveva uno spiccato senso dell’umorismo. Ma questa volta, finalmente risero entrambi.

 
NOTA DELL’AUTORE: Ciao a tutti quanti. Siamo così giunti alla fine di questa storia; mi ha occupato più tempo di quello che pensavo ed è venuta fuori anche più lunga di quello che pensavo. Ho ricevuto tanti commenti e tante recensioni per questa storia e sinceramente non credo che basti ringraziarvi per l’attenzione e la pazienza con cui mi avete seguito.

Anche se non più su Rossana (almeno per ora), continuerò a regalarvi storie e posso promettervi il massimo delle mie capacità. Spero che continuerete a seguire le mie storie anche fuori da questo fandom e ringrazio ancora tutte le persone che hanno avuto anche solo la curiosità di aprire questa Fanfic. Ci leggiamo alla prossima storia.

Leonhard
   
 
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