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Autore: Loveless    10/12/2008    4 recensioni
Gli anni le sono passati addosso senza lasciare traccia. Ha visto i secoli sfaldarsi attraverso un gelido e disincantato sguardo di bambina, ha osservato il mondo bruciare e rigenerarsi dalle sue ceneri.
Questa è la storia di un'osservatrice silenziosa nel tempo.
Questa è la storia di Helena.
Genere: Dark, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è stata scritta per la IV Disfida dei Criticoni, "Dualiteam". I partecipanti sono stati divisi in squadre che dovevano scrivere la loro storia basandosi su un'unica frase comune, tratta da una fanfiction, e da un binomio da scegliere fra i vari proposti al singolo team. La frase-prompt, tratta da un mio precedente racconto, era: "Ma ci sono tracce e ricordi che durano a lungo. E ci consentono di ricominciare a vivere per qualcun altro" Il binomio-prompt per la sottoscritta, invece, era "vita/morte"
Beh... E' una strana storia, lo ammetto. A partire dal personaggio principale che NO, non è Seras Victoria. Vi ricordate Helena, la bambina vampira dell'anime di Hellsing? Ecco, la mia protagonista è lei. Per chi non la conosce, consiglio vivamente di andarsi a guardare la prima serie animata; anche se ha molti difetti, l'anime di Hellsing è rimasto nel mio cuore. Dicevo, non appena mi sono resa conto dell'indifferenza generale in cui è caduto un personaggio che, se debitamente approfondito, avrebbe potuto essere uno dei più complessi della serie, ho deciso di renderle giustizia. A modo mio, ovviamente, visto che sono convinta che noi del fandom dobbiamo adorare Alucard in ogni modo possibile ed inimmaginabile...
La storia era stata concepita come una oneshot, peccato che siano venute fuori ventisette pagine di testo. La suddivisione in più parti è stata quindi una logica conseguenza per la pubblicazione su EFP.
Questo mini-capitolo iniziale si svolge dopo l'ipotetico funerale di Harry Anders, l'agente che ha portato Seras Victoria a conoscere Helena, spero ricorderete l'episodio. Ovviamente i riferimenti di Helena ad una presunta "cotta", chiamiamola così, di Seras per il suo maestro trovano fondamento solo nell'anime, visto che lì la giovane vampira è palesemente innamorata del vampiro che l'ha creata (okay, forse non proprio così palesemente, ma se si legge tra le righe...)
EDIT DEL "26/12: Alla fine ho deciso di unire l'intera storia e di mantenere la sua struttura originaria. Ho anche messo a posto gli errori di battitura che mi erano sfuggiti (grazie, Artemisia!) e tutto ciò che andava sistemato.
Grazie mille per i commenti, siete fantastici *_*



Se solo non ci fosse stata una corona di fiori colorati appoggiata sulla bara, Helena avrebbe creduto di fare parte di un cortometraggio in bianco e nero.
Vicino a lei una donna singhiozzava pietosamente, sorretta per il braccio da un uomo robusto che sembrava fare appello a tutta la sua forza perché lei non crollasse per terra. Altre due donne sussurravano per non sovrastare il pastore che finiva di pronunciare i versetti rituali. Sui cipressi del cimitero e su coloro che assistevano al funerale cadeva una pioggia sottile che Helena sentiva appena battere sui polsi, ma la cosa non la infastidiva.
Seras Victoria si girò verso di lei, forse in cerca di conforto, quando il prete prese il rituale pugno di terra e lo gettò sulla bara, prima che questa cominciasse ad essere calata lentamente nella fossa dagli uomini in abiti scuri che l’avevano portata fino al camposanto. Helena rimase con gli occhi fissi sulla piccola croce d’argento che brillava sul coperchio di mogano senza voltarsi verso la ragazza.
Non appena le palate di terriccio umido cominciarono a coprire la bara, lei si girò e prese a ripercorrere lentamente la strada verso l’uscita del cimitero. Gli stivaletti di pelle nera avanzavano incerti nel fango, a causa della debolezza dovuta al lungo digiuno a cui si era volontariamente sottoposta, mentre Helena si lasciava dietro, un passo dopo l’altro, lapidi viscide di pioggia e statue dalle rigide labbra di pietra e dagli occhi vacui, ali raggrinzite e braccia tese spasmodicamente verso un appiglio che non c’era.
Se fosse stata dell’umore adatto, forse avrebbe potuto trovare divertenti quelle bizzarre rappresentazioni di vita ultraterrena che promettevano, in ognuno di quei gesti vuoti con cui si protendevano oltre il suolo, la strada verso un cielo pieno di luce e bellezza. Eppure quello non era un giorno su cui si poteva scherzare con la morte, e nelle pupille dilatate degli angeli di marmo Helena trovava solo un disperato quanto agghiacciante appello d’aiuto a cui lei non poteva rispondere.
Seras Victoria la raggiunse appena qualche secondo dopo che lei ebbe attraversato il cancello di ferro battuto. La ragazza aveva corso in fretta per raggiungerla, inzaccherandosi gli orli della veste da lutto, ed ansimava leggermente.
- Asciugati le guance, Seras Victoria, - le consigliò Helena, sistemandosi meglio la veletta nera sul viso, - Gli umani si spaventerebbero se vedessero le tue lacrime di sangue.
L’altra annuì con un cenno stanco del capo ma non alzò il braccio per pulirsi il viso dalle lacrime.
Piangeva ancora e non se ne vergognava. Era troppo giovane per farlo.
- Signorina Helena, vi ringrazio per essere venuta, - mormorò Seras, a voce bassa, - Sono sicura che il signor Anders l’avrebbe apprezzato…
Si fermò, balbettando leggermente, le labbra che si muovevano a vuoto mentre cercava altre parole per esprimerle la sua gratitudine. Helena scosse la testa, chiedendole in silenzio di non continuare.
- Tu l’avevi incontrato solo da poche ore quando è morto in quell’incidente, Seras Victoria. Perché piangi così?
Non voleva distrarla dal suo dolore, non solo. Era sinceramente curiosa di sapere perché quella giovane vampira si dispiacesse così tanto per un umano che conosceva a malapena.
- Io ammiravo il signor Anders malgrado lo conoscessi da poco… Ma anche perché ho rammentato cosa significa essere umani e come sia facile per loro morire. Sono così fragili, tutti loro, a noi vampiri basta niente per spezzare le loro ossa ed ucciderli… A volte non mi sembra nemmeno di aver guardato con loro la luce del sole, ma di essere sempre stata la mezza vampira che sono ora.
Helena poteva capirla, nonostante fosse passato troppo tempo da quando era stata umana anche lei. Seras era stata resa vampiro da soli pochi mesi, sulla soglia dei vent’anni, ed era naturale che la sua natura di predatrice capitolasse di fronte alla tenerezza umana che ancora albergava in lei.
Era poco importante, comunque, quella latente fragilità di donna. Alucard l’aveva resa un’accolita potente, e di sicuro la giovane sapeva badare a se stessa fin troppo bene… Ma Helena continuava a chiedersi perché non sentisse nelle vene della giovane vampira l’odore del sangue del suo signore. Con il suo sangue antico, Alucard avrebbe potuto renderla una vera immortale, libera da ogni costrizione e, soprattutto, libera dal rapporto di sottomissione che legava indissolubilmente allieva e maestro, serva e padrone. Eppure…
Lo sguardo di Helena si spostò in direzione della strada. Qualche rara macchina sfrecciava ad alta velocità sull’asfalto bagnato, ma un taxi si accostò ubbidiente al marciapiede ad un cenno svogliato della sua mano. L’autista scese dalla propria vettura per aprirle la portiera con un piccolo inchino.
Ah, la cortesia inglese.
- Prego, signorina.
Helena si sedette sul sedile posteriore, trattenendo una smorfia per l’odore troppo forte di cuoio e fumo vecchio che permeava l’abitacolo del taxi. Si lisciò distrattamente la gonna di satin, riassestandola con un morbido fruscio sulle ginocchia.
- Vorrei darti un piccolo consiglio, Seras Victoria, - cominciò, facendo indugiare la propria mano sui bordi gommosi della portiera, per non chiuderla ancora. L’autista accennò ad un sorriso e si avviò verso il sedile del guidatore.
Seras si era finalmente asciugata le lacrime e ricambiava il suo sguardo, sbattendo gli occhi leggermente spaesata. Sembrava così fragile, con l’abito nero ormai fradicio di quella pioggia sottile e fastidiosa che la faceva rabbrividire e la costringeva a strofinarsi gli avambracci più e più volte, per riscaldarsi.
- Sì, signorina Helena.
- Vieni qui da me.
Seras si avvicinò, girando la testa in modo che l’altra potesse parlarle più agevolmente in privato. Quando parlò, Helena aveva le labbra praticamente premute contro l’orecchio della giovane vampira.
- Bevi il sangue del tuo maestro e creatore. Prendine più che puoi, e fallo il prima possibile. Farlo ti renderebbe infinitamente più forte e matura, e tu sei una persona troppo interessante perché la tua morte mi faccia piacere. Perciò, fai come ti dico. I sentimentalismi umani non sono fatti per noi vampiri, e solo i più forti sopravvivono a questo mondo. I compassionevoli come te sono i primi a cadere.
Seras indietreggiò bruscamente, come se l’altra le avesse appena ordinato di compiere un gesto estremamente sciocco e crudele, e scosse violentemente la testa, gli occhi sbarrati e le labbra semiaperte.
Quello che le uscì dalla bocca non fu niente di più che un rantolo soffocato, ma Helena lo sentì comunque, distinto come se lei l’avesse urlato a squarciagola.
- Non posso farlo.
Helena richiuse con movimento brusco la portiera, tenendo le labbra così strette che scolorirono in due strisce candide almeno quanto la pelle. “Sciocca” pensò, ma non lo disse.
- Dove ti porto, signorina? – le chiese l’autista, guardandola con un sorriso accondiscendente sulle labbra.
- Dovunque, basta che sia lontano da qui.
Il taxi si mise lentamente in moto. Stava per lasciare il marciapiede quando Seras Victoria si gettò contro il finestrino, battendo i pugni sul vetro per farsi ascoltare.
- Signorina Helena, ascoltatemi! Io ho ancora bisogno di lui! Non posso lasciare il mio maestro!
La vampira urlava a voce così alta che persino il vetro non riusciva a contenere tutta la passione che metteva in quelle grida. Helena girò la testa verso il finestrino, guardandola con espressione accigliata per qualche secondo. Abbassò il finestrino dopo aver chiesto cortesemente all’autista di pazientare.
- Sciocca. Lui non è legato a nessuno, tantomeno a te. Non hai alcun obbligo nei suoi confronti.
- Lo so!
- Allora perché lo ami così tanto?
Seras le rivolse con uno sguardo vacuo almeno quanto quello infossato nelle orbite di pietra degli angeli del cimitero.
- Non so perché, - mormorò, dopo qualche secondo di silenzio, - Ma so che non voglio lasciare il mio maestro. E non avrò mai il coraggio di farlo, signorina Helena.
- “Mai” è una parola troppo grossa anche per noi, - puntualizzò Helena, - Tutto dura molto meno.
Seras staccò lentamente le mani dal finestrino, senza smetterla di fissarla con occhi instupiditi, indietreggiò fino al bordo rialzato del marciapiede e rimase immobile.
Anche la stessa Helena rimase a guardarla dagli specchietti retrovisori dell’auto. Vide Seras Victoria diventare un’ombra sempre più piccola per poi sparire del tutto.

***

Malgrado il freddo e la pioggia non la infastidissero come potevano fare con un umano o una vampira appena nata come Seras Victoria, Helena si sentì stranamente confortata nel trovarsi a casa sua.
Si tolse il cappello scuro e lo appoggiò sul comodino di fianco alla porta, ripiegando la veletta sulla tesa per evitare che si stropicciasse. Un boccone di specchio illuminato dalle numerose candele della stanza le restituì un’immagine di se stessa che non le piacque. Seras Victoria le era sembrata giovane e fragile, sul marciapiede di fronte al cimitero: lei lo sembrava ancora di più, una bambina dalla pelle bianca, i grandi occhi affaticati ed i capelli così biondi da sembrare bianchi raccolti da un nastro nero sulla nuca. Una bambolina di porcellana avvolta in pesanti abiti da lutto umidi di pioggia ed odorosi di terra smossa, ecco cos’era.
Helena sospirò mentre si slacciava gli stivaletti infangati. Uscire di casa per assistere al funerale di Harry Anders era stato un errore, forse… Ma non aveva potuto negare che quell’uomo, il primo essere umano che l’avesse disturbata in decenni di isolamento, le aveva ispirato un’istantanea simpatia, come l’aveva suscitata in lei Seras Victoria.
Helena sapeva bene che avrebbe dovuto uscire e nutrirsi per recuperare le forze; era stato fin troppo difficile, per lei, resistere alla tentazione – semplice quanto primordiale – di bagnarsi la gola con il gentile tassista che l’aveva accompagnata fino a casa, facendole mille domande sulla sua vita e sul fatto che i suoi genitori la lasciassero uscire da sola a quell’ora di sera. Probabilmente anche lui aveva una figlia piccola, che forse lo aspettava davanti alla porta per buttargli le braccia al collo ed augurargli la buonasera: era stato su quel pensiero che Helena si era concentrata con tutte le sue forze per non cedere a quel desiderio violento. Lei aveva digiunato per settimane, prendendo energie unicamente dalle parole che permeavano le pagine dei suoi amati libri, e quell’uscita imprevista l’aveva resa affamata come non mai: però non si sarebbe mai perdonata una simile mancanza di autocontrollo sul proprio istinto di vampira.
Uscirò dopo, decise, prendendo in mano gli stivaletti e dirigendosi verso la stanza adiacente per cambiarsi d’abito, Prima devo finire il nono libro del Paradiso perduto.
Helena lasciò cadere le calzature vicino alla propria bara senza degnarla di uno sguardo. Il funerale si era svolto appena dopo il tramonto, perciò era ancora troppo presto per pensare di andare a dormire. Aprì le ante dell’armadio che occupava tutta la parete nord, sorridendo mentre ricordava di come i vampiri, per luogo comune, venissero descritti come esseri estremamente vanitosi e materialisti: beh, per una volta le convinzioni dell’immaginario collettivo avevano colpito nel segno. Bastava vedere quanti vestiti aveva posseduto nel corso degli anni e quelli che in quel momento albergavano nel suo guardaroba.
Per la serata Helena scelse un abitino grigio perla con sbuffi di pizzo sugli orli della gonna e delle maniche ed un paio di stivaletti bianchi. Si sfilò dai capelli il nastro nero che li legava e li lasciò cadere liberi sulle spalle, richiuse con cura le ante dell’armadio e tornò in soggiorno.
Durante la sua assenza un paio di candele si erano spente e la cera si era raffreddata sui supporti di bronzo. Lei le riaccese con un fiammifero preso dal tavolino di fianco alla poltrona e guardò con affetto il vecchio giradischi lì appoggiato prima di spostare la puntina sul disco e farlo partire.
Quando le prime note del brano che prediligeva di Grieg, la Solveig's Song, cominciarono a diffondersi discretamente per la stanza, Helena non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire un sospiro sollevato. Adesso poteva finalmente dirsi a casa.
Sulla poltrona c’era Il Paradiso perduto, esattamente dove lo aveva lasciato prima di uscire, ma ricordava di non averlo lasciato chiuso. C’era qualcosa, fra le pagine, che teneva leggermente sollevata la copertina. Helena prese in mano il libro, leggermente perplessa, e lo aprì.
C’era una rosa, nel Paradiso perduto, eppure la sua bellezza era troppo ben costruita, troppo poco spontanea, troppo immobile fra i petali. Non era una rosa, era una sua perfetta imitazione scolpita nel ghiaccio. Quando la prese tra due dita per osservarla meglio, i petali non si mossero minimamente, rigidi ed intatti. Perfino lo stelo sembrava pietrificato, come se un qualche incantesimo fosse fluito nel fiore assieme alla linfa ed avesse congelato ogni spina e fibra. Era agghiacciante. Lei e quell’orribile fiore erano la stessa cosa.
Helena lasciò cadere disgustata la rosa sul pavimento. Non appena toccò le piastrelle, il fiore si schiantò con un orribile rumore di vetro infranto, sparpagliando ovunque i propri frammenti. La vampira si coprì gli occhi con una mano, lasciandosi sfuggire un singhiozzo soffocato.
- Crudele come sempre, mio signore!
Ci vollero parecchi secondi prima che Helena riuscisse a riacquistare il proprio autocontrollo. Fece un paio di passi verso la poltrona, - i frammenti della rosa scricchiolarono sotto le suole degli stivaletti, - e vi ci lasciò cadere sopra. Teneva ancora il libro stretto fra le braccia. Quando lo richiuse, le mani le tremavano violentemente, e stavolta nemmeno la Solveig’s Song riusciva a calmarla.
Helena fece un respiro profondo, stendendo le dita contro le ginocchia, attendendo. Quella rosa era una causa, e perciò ne aspettava la diretta conseguenza. Praticamente nello stesso istante, la musica si interruppe bruscamente. Lei continuò a guardare la parete di fronte a sé, le candele che splendevano, il silenzio lasciato dalla musica. Udì una risata fioca.
- Guardatela, la mia bambina di ghiaccio. Niente riesce a smuoverla, nemmeno la presenza del suo antico maestro nella sua casa.
Helena sbatté le palpebre. Si era preparata da tempo a risentire quella voce, eppure riuscì a reprimere a stento la sorpresa nel sentirla immutata.
- E’ passato un secolo dall’ultima volta, - rispose lentamente, soppesando con cura ogni singola parola, - Letteralmente, Vlad. O meglio, come ti fai chiamare adesso? Ah… giusto, Alucard.
Lui avanzò nella luce. Teneva il cappello con una mano guantata di bianco, l’altra al muro.
Trascurando gli stravaganti abiti rossi di epoca vittoriana che indossava, il viso era cambiato di poco: anche se i capelli scuri non erano più ricciuti come li ricordava ed il volto era stato rasato di fresco, - nessuna traccia della barba di moda secoli prima, - gli occhi erano sempre gli stessi ed il sorriso aveva sempre quel bizzarro miscuglio di strafottenza e genuina crudeltà che così tante dame aveva affascinato nel corso dei secoli che lui aveva attraversato a passo baldanzoso.
Eppure nei suoi occhi sembrava esserci anche un vago accenno di… cos’era quella? Pietà?
- Immagino che questa accoglienza che trasuda calore sia un chiaro invito a togliermi dai piedi il prima possibile, Jelena.
- Come rispose il Dio per cui hai combattuto una crociata, “Tu lo dici”.
Alucard scosse la testa, chiaramente divertito da tutta quella freddezza. Appoggiò il cappello accanto al giradischi e si sedette sulla sedia di fronte a lei. Come sempre, si comportava come se ogni cosa al mondo gli appartenesse. Le sorrise con accondiscendenza.
- E’ ironica come sempre, la mia bambina… Eppure sono convinto che se avvicinassi al tuo viso una di queste candele, la tua maschera di cera si scioglierebbe come burro di fronte a me, mia povera Jelena…
- Non chiamarmi più così. Il mio nome è Helena, ora, - sibilò lei a denti stretti.
- Ne parli come se il modo in cui ti chiamo ti importi davvero, – Alucard si lasciò andare ad una breve risata aspra, prima di tornare serio. La osservò per qualche secondo.
- Mi hai davvero creduto morto per tutto questo tempo?
Helena incrociò le mani in grembo. Non lo guardò in faccia, perché sapeva che non sarebbe riuscita a reggerne lo sguardo.
- Credo che sarebbe stato meglio, Vlad. Guardati, un killer al servizio degli umani che tanto odiavi… Un tempo avresti sputato in faccia a tutto il casato degli Hellsing, ora invece strisci ai loro piedi e fai le fusa come un gattino. Ti hanno fatto loro il lavaggio del cervello oppure hai scelto di tua spontanea volontà questa vita?
- A proposito di vita, vogliamo parlare della tua, Jelena? Puoi definire vita l’esistenza immortale che consumi all’interno di queste quattro mura? Vai a nutrirti quando ormai sei troppo debole per reggerti in piedi, passi tutto il giorno a leggere libri su libri, ad ascoltare come un’ossessa questo brano, - sempre questo tra l’altro, - ed a convincerti che là fuori il mondo è un posto troppo misero perché tu ti possa scomodare a viverci.
- Come sei cambiato, nastàvnik moj - rise lei, cercando di non far trasparire tutta la sua amarezza, - Sputi veleno ad ogni parola.
- Beh, da qualcuno devi pur aver imparato. In compenso, se io sono cambiato col tempo, tu sei rimasta identica a quattro secoli fa. Io sono sopravvissuto per tutti questi anni, ma tu sei morta prima di me.
- A quanto vedo, non sei bravo solo ad estrarre le pistole e a scaricare tutto il caricatore sui vampiri che ti incontrano. Mi ferisci anche senza pallottole, Vlad.
Alucard sorrise. Un piccolo cenno di dolcezza fece timidamente capolino in un angolo della sua bocca. Helena rimase impassibile di fronte ad esso, anche se qualcosa dentro di lei si mosse.
- Mi stai rendendo difficile essere gentile, Jelena.
- Può darsi. Ma voi, Conte, avete dimenticato le buone maniere dopo tutto questo tempo?
- No, ovviamente. Si può parlare con Sir Integra solo se si è provvisti di una buona dose di conoscenza del protocollo ed educazione, altrimenti si viene fermati dal maggiordomo di famiglia a pochi metri dalla scrivania.
Helena si mordicchiò il labbro inferiore, riflettendo sulle ultime parole di lui. Quello era un dettaglio che non si era preoccupata di carpire dalla mente di Seras Victoria.
- Integra? Il tuo padrone è una donna?
- Esattamente. L’ultima discendente degli Hellsing è una donna di ventitré anni .Assolutamente perfetta per comandare.
- Sembri provare del rispetto per lei, Vlad, malgrado sia un’umana.
- Umana con più fegato di certi vampiri che circolano di questi tempi. Però sì, provo un profondo rispetto per Sir Integra. E’ una buona padrona.
Lui si era alzato dalla sedia ed aveva preso ad osservare con attenzione i libri che riempivano gli scaffali della biblioteca alle spalle di lei, una mano che si accarezzava pensierosa il mento e l’altra che scorreva sui titoli in oro dei volumi. Ad un certo punto Helena lo sentì ridere.
- Avrei potuto giocarci la testa… Il Dracula di Bram Stoker in lingua inglese, russa, ungherese e, mon dieu, persino francese! Dovrei sentirmi onorato per tutta questa notorietà.
Lei tamburellò le dita sulle ginocchia. – Immagino sia stato tu a raccontare quella storia assurda a Stoker.
- Non proprio. Gli ho raccontato qualche dettaglio della mia vita e la sua fervida fantasia ha fatto il resto. D’altronde, non avrei mai scelto di raccontare la mia storia ad un umano se non avessi avuto la certezza che costui fosse un uomo completamente privo di senno… - ma lui era convinto di avere la testa a posto, diceva di essere l’esempio perfetto di mens sana in corpore sano, bah! - E se non fossi stato sicuro che la gente non avrebbe creduto a noi vampiri più di quanto creda al mostro di Lockness o allo Yeti.
Alucard aveva preso in mano l’edizione russa del libro e lo rigirava fra le mani come se non sapesse cosa farci. Lo aprì e fece scorrere l’indice su alcune pagine a caso, soffermandosi a leggere qualche pezzo. Helena lo aveva conosciuto abbastanza bene per sapere che lui avrebbe potuto rimanere in silenzio, completamente assorto nei suoi pensieri, per delle ore, così si decise a parlare per prima.
- E’ vero ciò che ha scritto Stoker? Su come hanno fatto ad annientarti, Vlad? Io ho ricordi molto confusi della sera prima del tuo scontro con quei fanatici… - gli chiese, cercando di sembrare più dolce e delicata possibile.
Lui chiuse il libro di scatto e lo ripose sullo scaffale. Sembrò trovare estremamente interessante un punto indistinto davanti ai suoi occhi, tanto che Helena si convinse che non avrebbe mai risposto a quella domanda.
- Abraham Van Helsing, Arthur Holmwood, Quincey Morris e Jack Seward… Nessun Jonathan Harker, però. Mi ricorderò di quel gruppo per l’eternità. Sì, sono stati quei quattro a ridurmi all’impotenza trafiggendomi il cuore con un paletto di legno, ma il professor van Helsing non volle uccidermi definitivamente e mi portò lontano, in Inghilterra, dove mi ha legato per tutta la durata della mia vita immortale ai discendenti del suo casato. Lontano, dove la mia piccola Jelena che tanto amavo non poteva seguirmi e dove io non potevo sapere più nulla di lei.
Helena si alzò dalla sua poltrona e ruotò leggermente su se stessa, trovandosi faccia a faccia con lui. Malgrado il ricordo della propria disfatta dovesse pesargli terribilmente, sul viso di Alucard non c’erano segni di sofferenza o rabbia. Era sempre stato abile a mascherare le proprie emozioni.
Incurante della scala di legno appoggiata di lato alla libreria, lei alzò una mano ed indicò uno degli scaffali più alti.
- Aiutami, nastàvnik moj. Sono troppo debole per salire da sola senza cadere.
Alucard scoppiò a ridere. La prese per i fianchi come se si fosse trattata di un pupazzo di stoffa e la fece volteggiare un paio di volte prima di sollevarla fino dove lei voleva. Helena si trattenne dal dire una frase velenosa nei suoi confronti: gli anni erano passati inesorabili su entrambi ma lui avrebbe continuato a trattarla come la sua bambina fino alla fine dei giorni. Allungò le mani ed afferrò il libro che cercava, attendendo pazientemente che Alucard la riappoggiasse a terra.
Helena barcollò, incerta sulle proprie gambe, e tornò alla sua poltrona, mentre lui tornava a sedersi sulla sua sedia.
- So che questo libro ti piacerà, nastàvnik, - mormorò la vampira, prima di aprire il volume sulle sue ginocchia.
- Di conseguenza sappiate prima di cominciare,
Cosa è simile alla sua specie,
Una cosa è certa,
Che tutto, si risolve in uno: la Natura,
Dovete dividerla in tre,
Poi innalzarla in una Trinità,
E non farne più di uno,
Vedrete la Pietra Filosofale...

A quel punto Helena si interruppe, guardando Alucard con la coda dell’occhio. Lui l’ascoltava attentamente col sorriso nello sguardo, la stessa espressione che le regalava, secoli prima, ogni volta che lei decideva di leggergli qualcosa ad alta voce.
- Vlad, - mormorò lei, cercando di dare alla propria voce un suono gentile, - I prossimi versi sono tuoi.
- Lo so, - rispose lui, - Uccello di Ermes è il mio nome, Ho divorato le mie ali per diventare docile.
Rimasero entrambi in silenzio. Helena aveva ancora le mani appoggiate al libro e ne accarezzava con deferenza le pagine. Alzò gli occhi quando sentì Alucard alzarsi ma lei non si mosse. Lui si inginocchiò per arrivare alla sua altezza, le prese le mani e le strinse con delicatezza, continuando a sorridere.
- Jelena, - disse lui a bassa voce, - Non hai dimenticato.
Lei deglutì a vuoto.
- Un vampiro non dimentica mai.
Lui rise ancora, stavolta senza cattiveria. Le appoggiò la tempia alla base del collo e sospirò impercettibilmente.
- Dopo tutto questo tempo ancora non hai smesso di odiarmi.
Helena non replicò, chiuse gli occhi. Sciolse con delicatezza le mani dalla presa di lui e lo scostò lentamente da sé.
- Nastàvnik, vattene. Potrei davvero ricordare quanto vorrei ucciderti se rimani ancora qui.
Mentiva, ma Alucard non poteva saperlo. Non poteva più sapere nulla da lei se non ciò che lei diceva.
Lui si alzò, scostandole appena i boccoli dalle spalle con le dita, come faceva sempre in passato. L’eterno ghigno aveva ripreso il suo legittimo posto e l’arroganza si era insediata nuovamente fra i suoi lineamenti. Non ci sarebbero state ricadute, stavolta. Nessuno dei due avrebbe ceduto ancora.
Alucard riprese il cappello e se lo rimise, subito seguito dagli occhiali da sole di uno squillante color arancione che Helena si sentì subito autorizzata a detestare.
Il vampiro si riavvicinò al giradischi e gli diede un piccolo colpetto scherzoso. Le note della Solveig’s Song tornarono a diffondersi nella stanza, beffarde come non mai.
Eppure lui non aveva ancora finito. Helena lo vide osservare il calice di cristallo lì accanto, ormai impolverato, e prenderlo in mano. Dopo un breve soffio che fece sollevare piccoli pulviscoli di polvere, la vampira lo vide avvicinarsi il polso alla bocca, tenendo vicino il bicchiere.
Avrebbe voluto chiudere gli occhi o semplicemente distogliere lo sguardo, ma non poté farlo. Ogni molecola di lei era tesa fino allo spasmo verso quella scena che non avrebbe voluto vedere più, e che ancora una volta fu costretta a guardare.
Sentì il rumore dei denti che penetravano a fondo nella carne, il delicato rumore del rivolo di sangue che scorreva lungo la pelle. Alucard accostò il bordo del calice al polso inciso in modo che nemmeno una goccia del prezioso sangue andasse sprecata.
Helena si sentiva la gola arida. Anche a quella distanza poteva sentire l’odore che emanava il rivolo scarlatto che scivolava nel bicchiere e ne era attratta pericolosamente. Il desiderio di strappargli di mano il bicchiere era uguale a quello che voleva spingerla ad alzarsi ed ad appoggiare la bocca direttamente sul taglio.
Ma no… Lui non l’avrebbe mai vista cedere. Non la sua bambina di ghiaccio.
- Fossi in te lo berrei il prima possibile. Il sangue freddo fa davvero schifo, credimi, - le consigliò Alucard, appoggiando il calice ricolmo vicino al giradischi. Si sistemò meglio il capello, premendolo leggermente sulla nuca, e le rivolse un ironico cenno di commiato.
- I miei omaggi, contessina Helena.
Gli occhi di Helena rimasero fissi sul sangue che gorgogliava silenziosamente nel bicchiere. Non vide il suo vecchio mentore andare via, e forse questo fu un bene per lei. Appena non lo sentì più, però, allungò una mano tremante verso il calice e ne bevve il contenuto a piccoli sorsi, cercando di darsi un contegno anche se nessuno poteva più vederla.
Non si preoccupò di asciugarsi la lacrima che aveva preso a brillarle all’angolo dell’occhio.
Non era più importante nascondersi, non più.

***

Helena, - che a quel tempo non si chiamava Helena ma Jelena Fëdorovna Strel’cova – era nata a Smolensk nel 1527, quarta figlia del boiardo Fëdor Borìsovič Strel’cov, grande cacciatore e fedele vassallo del Granduca Vasilij III, e di Irìna Stepànovna Danilèvskaja, dama di alto lignaggio, ma di mediocre intelletto, come dimostrava il suo scarso interesse per ciò che non riguardasse strettamente le faccende domestiche.
Fin da bambina Jelena, se ricambiava con tutto il cuore l’indifferenza che la madre riservava ai suoi figli, teneva il proprio padre in grande considerazione, visto che Fëdor era un uomo di grande cultura ed un interlocutore così acuto che lo stesso Vasilij ne richiedeva spesso la presenza a corte.
Fëdor, da parte sua, aveva trovato in Jelena la figlia prediletta, visto che ai suoi occhi sembrava l’unica fra i suoi eredi a non aver ereditato l’inettitudine della madre; per questo decise di aprire alla piccola le porte della sua ragguardevole biblioteca e dello studio dei classici, anche se molti giudicarono bizzarra quanto dannosa questa scelta.
Questo fu l’unico gesto d’affetto che Fëdor si concesse nella sua lunga vita, poiché era un uomo severo e disincantato, che aveva appreso fin dall’infanzia a non aspettarsi nulla dagli altri e non a concedere loro nulla; tranne qualche rara carezza sui capelli della figlia mentre la vedeva assorta nei testi, non fece più nient’altro che potesse manifestare i suoi sentimenti.
La piccola Jelena, figlia troppo trascurata e sorella minore vista con indifferenza, arrivò a confondere il rumore delle pagine che le scorrevano sotto le dita e le parole che divorava giorno dopo giorno come affetto profondo, tanto da isolarsi sempre di più nella biblioteca in compagnia dei suoi amati libri. Era una bambina silenziosa, perché aveva scoperto che nel mondo degli adulti il segreto stava nel fingersi sprovveduti per poter ascoltare con più libertà: un uomo abbassa le proprie difese e parla più del necessario quando crede che il proprio interlocutore sia uno sciocco. Se però era costretta a parlare, replicava con battute estremamente pungenti, forse troppo ironiche per una della sua età.
Quando Jelena fu cresciuta abbastanza per poter essere introdotta alla vita di società, i suoi genitori, chi per un motivo chi per l’altro, furono orgogliosi di esibirla come il più prezioso dei loro tesori; durante i ricevimenti Jelena sorrideva e si aggirava per il salone vestita dei suoi abiti migliori, cercando di celare a tutti il malumore che le provocava la lontananza dai suoi libri; mentre fingeva di essere una deliziosa bambolina, ascoltava le chiacchiere degli invitati e imparava più cose che poteva sul mondo. Un viso, un nome, un odore e perfino i dettagli più trascurabili parevano incidersi quasi da soli nella sua mente, come fosse fatta di cera infinitamente docile. Tuttavia lo stordimento che le provocava essere immersa in quel vortice confuso di suoni e colori a volte era così forte che la costringeva a lasciare la stanza quasi di corsa, per poi attendere con rassegnazione che qualcuno la trovasse e la riportasse nel salone.
A questo proposito le si era particolarmente affezionata Zinaida, un’ucraina ventenne che Irìna aveva destinato al servizio personale della figlia. Per uno strano scherzo del destino Zinaida fu l’unica a capire quanto profonda fosse la solitudine della ragazzina, ed ogni giorno intratteneva la sua pannocka con racconti del suo paese e piccole attenzioni; dopo lo stupore iniziale anche Jelena iniziò a partecipare ai monologhi della serva ed a parlare di più.
Un anno dopo, Jelena, ormai alla vigilia del suo tredicesimo compleanno, fu chiamata nella camera della madre. Lì fu informata, piuttosto sbrigativamente, che era giunto per lei il tempo di sposarsi e che Irìna le aveva già scelto un marito, fra quelli che l’avevano chiesta in moglie. Jelena aveva i suoi buoni motivi per dubitare delle parole della madre, visto che in molti la giudicavano semplicemente una ragazzina gracile, con alle spalle niente di più che una discreta fortuna, non certo una perfetta donna di casa. Ma il fatto che il suo augusto padre aveva approvato la scelta rendeva irrevocabile la decisione: Jelena era stata convocata solo per prenderne atto e per scegliere la data delle nozze.
Jelena era sempre stata abbastanza smaliziata per sapere che le sarebbe accaduta una disgrazia del genere abbastanza presto, - il matrimonio era inevitabile come la morte, - e che lei avrebbe solo sofferto per questa decisione, ma negli ultimi tempi Zinaida aveva cominciato a parlarle del giovane che la aspettava nel suo paese natio, in attesa che lei guadagnasse abbastanza per farsi una sua dote e poterla sposare. Jelena aveva pensato che era davvero bello poter avere un legame così forte con un’altra persona, - non l’insipida recita cui si obbligavano ogni giorno sua madre e suo padre, - ed aveva sperato, in cuor suo, che avrebbe anche potuto provare anche lei un sentimento simile, se nel mondo c’era giustizia e se Dio la ascoltava ogni volta che si recava nella chiesa per assistere alla funzione domenicale.
Ma l’annuncio frettoloso ed indifferente delle sue nozze la mise definitivamente con le spalle al muro, annientando gli esili sogni che la parte ancora infantile della sua mente si sforzava di nutrire.
Cercando di non tradire la prostrazione assoluta in cui era stata gettata, Jelena disse a voce bassa che una qualsiasi data decisa dai suoi onorati genitori per lei sarebbe andata bene. Irìna ne fu così soddisfatta che la baciò prima di congedarla. Lo fece con la stessa soddisfazione ottusa di quando donava qualcosa ai suoi contadini.
Quelle che seguirono furono settimane di tortura: ogni giorno la ragazzina doveva alzarsi prestissimo per essere istruita dalla madre sulle cose che una brava moglie doveva conoscere. Doveva lasciare che le sarte prendessero le misure per il suo vestito da sposa e cominciassero a cucirle i nuovi abiti del suo guardaroba, mentre Zinaida sovrintendeva al tutto con le lacrime agli occhi. Ma, cosa più terribile di tutte, le fu impedito di recarsi in biblioteca. Nonostante tutte le proteste, Irìna fu irremovibile, ed una volta tanto anche Fëdor accettò le sue disposizioni; d’altronde era stata lei a preparare con successo la loro figlia maggiore, Ariadna, per il matrimonio. Jelena non parlava più nemmeno alla povera Zinaida, che soffriva in silenzio assieme a lei; si limitava a rispondere a monosillabi e con brevi cenni del capo, quando era costretta a farlo, prima di richiudersi nel suo mutismo. Non vide mai il suo promesso sposo di persona, anche se gliene portarono un ritratto che lei si rifiutò di guardare, infilandolo invece nel guardaroba, tra i vestiti che non metteva più. Passava intere giornate seduta accanto alla finestra, a guardare il paesaggio con sguardo vacuo. Irìna, cieca come sempre, continuava a dire alla servitù che il matrimonio le avrebbe fatto bene, e che poi sarebbe tornata loquace come prima, - ma quando mai era stata loquace?
Probabilmente sarebbe stata condannata ad una vita infelice e vuota se il Signore che ancora si ricordava di pregare ogni sera non le avesse mostrato la sua clemenza, anche se in modo tutto suo.
Ad un mese dalla data fissata per le nozze, Jelena si sentì male nel bel mezzo di una delle ultime lezioni di vita di sua madre, cadendo svenuta sul pavimento prima che qualcuno si accorgesse del colorito giallognolo del suo viso. Fu portata nella sua camera con tutta la delicatezza possibile e le furono applicati impacchi d’acqua fredda sulla fronte per lenire le lame di dolore che le martoriavano la testa. Irìna inizialmente liquidò la faccenda come semplice stanchezza, ma quando fu evidente a tutti che non erano state le scarse ore di sonno a provocare la febbre altissima che consumava la ragazzina e la teneva sveglia giorno e notte fu chiamato il pope Arkadij. Era passata una settimana dal giorno del malore.
Jelena faticava a mettere a fuoco gli oggetti e le persone che la attorniavano. Il mondo le appariva come attraverso un velo liquido che non si sollevava mai dagli occhi; pregava di morire velocemente perché un fuoco feroce le assediava il cervello mentre, qualcosa, incatenata proprio lì dentro, una bestia possente e oscura, o un cuore mostruoso, cercava di liberarsi e slabbrava le pareti incandescenti della prigione.
- Padre, - riuscì a mormorare, quando l’uomo le prese la mano e cominciò a parlare della difficile strada che il Signore aveva deciso di farle attraversare - Perché sto morendo?
Pope Arkadij rimase in silenzio. Jelena era certa che non le rispondesse perché nemmeno lui aveva il coraggio di mentire ad una bambina con discorsi sulla vita eterna e cose del genere. La morte era solo la fine di ogni cosa. E con questo, tutto si spiegava. E con questo, niente si spiegava.
Tentò di alzarsi per potersi guardare attorno, ma i gomiti puntati sul materasso cedettero come fragili ramoscelli, facendola ricadere con la schiena sul materasso. Non aveva la forza di tentare di nuovo, però ebbe quella di chiedere a bassa voce di indossare l’abito nuziale. Se doveva andare al Signore, doveva farlo come la più bella delle spose, per essere accolta tra i suoi angeli.
La accontentarono. Fu Zinaida ad occuparsi di tutto, ebbe persino il coraggio di prenderla in braccio, sollevarla e vestirla personalmente, - cercando di stringere i vari lacci il più delicatamente possibile per non farle male, - anche se, per quello che ne sapevano, la malattia che la stava divorando poteva essere contagiosa. Le pettinò i capelli e glieli legò sulla nuca perché non le dessero fastidio quando girava la testa.
Jelena chiese che la lasciassero morire da sola. Malgrado le proteste dei presenti, si appellò all’ultimo desiderio di una moribonda. A quelle persone non era mai importato nulla di lei: ora fingevano di essere addolorati, anche se in realtà ritenevano la sua morte come l’ennesima incombenza cerimoniale, l’ennesima perdita di denaro, l’ennesimo sperpero di parole: non capivano che la morte è una padrona terribilmente esigente, impossibile da raggirare.
Per fortuna quelli le diedero ascolto e se ne andarono dalla sua camera. Sarebbero rientrati solo a mattina inoltrata, per occuparsi del suo cadavere già freddo.
Zinaida si buttò ai piedi del letto piangendo sommessamente. Malgrado tutto non voleva imitare i suoi padroni. Allungò una mano e le toccò i piedi, implorando.
- Pannocka, vi prego, permettetemi di rimanere con voi, lasciate che vi serva fino alla fine!
Jelena chiuse gli occhi. Non disse nulla. Si limitò ad ascoltare il pianto infantile della ragazza, che altri servi trascinavano a forza fuori dalla stanza.
La porta si chiuse, lasciando Jelena finalmente sola. Anche se si sentiva immensamente stanca, si rese conto che riusciva ancora a pensare abbastanza chiaramente, malgrado le pulsazioni sempre più furibonde e infuocate che laceravano la sua fronte. Forse morire era questione di molte ore, forse avrebbe resistito fino alla mattina, se fosse stata fortunata; o magari la sua malattia l’avrebbe fulminata in pochi minuti? Non aveva capito quale male l’aveva presa. Né il motivo per cui si era ammalata.
Era una punizione? Aveva pensato a volte delle brutte cose sui suoi genitori e sui suoi fratelli, ma non aveva mai desiderato che succedesse qualcosa di doloroso a qualcuno. Non aveva neanche fatto del male a nessuno. Aveva sempre cercato di essere obbediente, di rispettare i suoi genitori, di non essere scortese e di non trattare male i servi. Allora perché?
Sentì il bordo del materasso piegarsi sotto il peso di una persona. Il suo primo pensiero andò a Zinaida, ma non aveva sentito la porta aprirsi.
Socchiuse gli occhi. Una sagoma scura dai contorni indistinti si era seduta sul bordo del suo letto, guardandola senza parlare. Jelena sapeva, con la stessa sicurezza con cui si distingue l’acqua dal fuoco, che la cosa che le stava accanto non era umana. Era qualcosa di profondamente diverso: l’istinto, come reso più puro e acuto dall’agonia, non le lasciava dubbi.
Eppure non aveva paura. Stava comunque per morire, e se fosse stata uccisa dalla cosa o dalla febbre che la stava corrodendo, la sostanza non cambiava. Cercò di sorridere, ma non sentì le labbra tendersi. Aveva solo la vaga percezione di avere un corpo, un vago calore diffuso lungo gli arti. Persino le lame arroventate nel cranio stavano scemando, lentamente ma inesorabilmente.
- Sei la Morte? La falce dov’è?
- Nessuna falce, bambina. Non sono chi credi.
Era la prima volta che sentiva la voce di una persona non umana. Era stranamente ed innaturalmente calma, profonda, come qualcosa che saliva lentamente dagli Inferi e riaffiorava in superficie, lenta e vischiosa e glaciale. A Jelena parve di sentire freddo.
- Cosa sei, allora?
- Un morto.
Oh. Un morto. Detto con quel tono di voce la cosa sembrava quasi normale.
- Devi portarmi via?
Avrebbe voluto aprire gli occhi e guardarlo meglio, ma il velo liquido si era inspessito e non le permetteva di distinguere i semplici contorni dei suoi lineamenti, non le permetteva di vedere se lui stesse sorridendo o meno. Quando lui le si avvicinò e le toccò la fronte, vide solo la carne troppo bianca per essere normale ed i capelli troppo neri. Percepì appena la pressione gelida della mano sulla pelle.
- Questa febbre ti sta uccidendo più velocemente di quanto pensi. Fra meno di mezz’ora il tuo corpo sarà già pronto per la tomba. Ti rimane molto poco da vivere.
- Sei venuto a sentire i miei peccati prima che io muoia?
- No. Ma a cambiare ciò che sembra ineluttabile, se lo desideri.
Anche se la sua razionalità si stava sfilacciando e lei sentiva avvicinarsi il momento in cui non sarebbe stata più in grado di ragionare, Jelena capì che era assurdo. Non si poteva cambiare la vita, non si poteva cambiare la morte. Era nell’ordine delle cose far finire ciò che era cominciato.
Lui parlò di nuovo, spezzando bruscamente il filo di pensieri che lei stava cominciando a perdere.
- Riesci a vedermi, bambina?
- No…
Lui le passò un braccio attorno alle spalle. Jelena sentì la propria testa ciondolare all’indietro, quando la sollevò, ma non fu capace di raddrizzarla. Ci dovette pensare lui, prendendole con delicatezza il mento ed alzandole il viso.
- Adesso?
Lei sbatté più volte gli occhi, o almeno credette di farlo. Le parve di vedere un baluginio splendente, nel sorriso di lui. L’uomo dischiuse le labbra, alzando appena la testa. In un lampo di lucida visione, Jelena ne distinse i denti affilati da belva feroce. Sussultò atterrita, mentre le tornavano in mente vecchie leggende di cadaveri rianimati e di creature che vivevano solo di notte per nutrirsi dei vivi.
- No, no! – gemette, allontanandosi bruscamente, come se la consapevolezza di poter diventare un simile orrore le avesse dato forza sufficiente per sottrarsi a quella stretta letale, - No, questo no! Vattene, mostro! Lontano da me!
Lui la riappoggiò sul materasso senza scomporsi, sciogliendo le braccia ed allontanandosi di qualche centimetro.
- Molto bene, la scelta è tua, - dichiarò, tranquillo come prima, - Non ti costringerò ad accettare. Spero però che mi permetterai di rimanere a tenerti compagnia. Morire da soli è davvero una cosa orribile.
- Tu sei morto da solo?
- Sì.
Jelena si ricordò del velo da sposa che Zinaida le aveva ripiegato dietro la testa, così se lo tirò sul viso in modo che la coprisse completamente. Cercò di ricordare una delle preghiere che aveva imparato per recitarla mentalmente, ma non gliene venne in mente nessuna. Com’era possibile che poco prima di morire non riuscisse nemmeno a pregare? Com’era possibile che si fosse ammalata proprio lei? Aveva appena compiuto tredici anni. Aveva ancora un’intera vita da vivere. Non era giusto.
Aveva ancora molti libri da leggere, nella biblioteca. Ancora molte cose da imparare, molti luoghi da visitare. Voleva ancora vedere i mosaici delle chiese di Mosca, la fortezza del Cremlino, il Volga ghiacciato in inverno. Voleva ancora ascoltare le canzoni popolane che i servi di casa intonavano quando erano affaccendati, il paesaggio che scintillava di rugiada fuori dalla sua finestra la mattina.
No, non poteva morire. Il Signore non poteva aver deciso per lei un destino tanto orribile. Doveva averle mandato quell’angelo nero per mostrarle che aveva deciso di salvarla. Che, nella sua benevolenza, aveva ascoltato le sue preghiere.
Come se lui avesse percepito i suoi pensieri, lo vide protendersi leggermente verso di lei. Eppure quel gesto le parve quasi tranquillizzante, non spaventoso.
- Hai cambiato idea? – le chiese. Lei annuì debolmente.
Le tolse il velo dal viso. Le sembrava di vedergli solo gli occhi, che lui la guardasse quasi con tenerezza, come se provasse pietà per lei.
- Povera piccola sposa, - mormorò, prendendo una ciocca di capelli umida di sudore dalla fronte per poi farla ricadere sulla tempia, - Sei davvero così giovane. Ma almeno tutto questo ti farà soffrire meno della tua prima notte di nozze.
Le fece girare la testa di lato, premendogliela leggermente contro il cuscino. Jelena si sentiva troppo esausta anche solo per sentirsi terrorizzata da quelle parole e da quel gesto. Pensava davvero che non avrebbe potuto sentirsi peggio di così.
Quando il primo schizzo di sangue le arrivò fino alla guancia, cominciò ad essere cosciente anche del dolore terribile che si propagava come il veleno di una serpe nelle vene, dieci volte peggiore. Si rese conto che stava urlando solo quando la mano di lui le tappò la bocca. Svenne subito dopo.
Jelena si svegliò di soprassalto, con l’impressione di aver fatto un sogno orribile. Si sfregò con forza le palpebre, meravigliandosi del fatto che fuori fosse ancora così presto da essere completamente buio. Ricordava di essere stata molto male, forse sul punto di morire, ma a quanto pareva era guarita completamente. Il dolore alla testa era scomparso.
Fece per togliersi le coperte di dosso quando le sue mani spinsero lontano solo il vuoto. Tentò di mettersi a sedere ma la sua fronte sbatté dolorosamente contro qualcosa di duro.
Ma che cos’è, si chiese, massaggiandosi la fronte. Allungò le mani in avanti e tastò una superficie fredda e rugosa, come di pietra sbozzata alla bell’e meglio. Diede un piccolo colpo col piede, trovando altre pareti lungo i fianchi a bloccarle la strada. C’era uno strano odore di chiuso, quasi di muffa.
Solo dopo qualche secondo la bambina realizzò che si trovava in una tomba, e che probabilmente vi era rimasta chiusa tutta la notte. Cominciò a battere i pugni contro il coperchio in preda al panico.
- Non sono morta! C’è stato un errore! Fatemi uscire di qui!
Avrebbe voluto calmarsi, riflettere con tranquillità, ma avere l’orrenda consapevolezza di essere rinchiusa in una tomba non l’aiutava a tranquillizzarsi. Non riusciva a fare altro che a dimenarsi ed ad urlare con tutta la forza che aveva.
Un rumore, come uno scatto, la fece zittire di colpo. Rimase col fiato sospeso mentre il coperchio scivolava lentamente viale asciando fiorire una gemma di luce. Quando ci fu abbastanza spazio per poter uscire liberamente, si aggrappò al bordo della bara con entrambe le mani, si lasciò scivolare fino a terra e si accoccolò sui talloni, ritagliandosi uno spicchio di pavimento coperto dai riccioli di polvere.
Non aveva neanche avuto la forza di alzare lo sguardo e ringraziare chi l’aveva tirata fuori di lì, solo quella di abbracciarsi le ginocchia e di tremare di paura. Ma una strana sensazione cominciò ad invaderla, come se stesse immergendosi in uno stagno e, ad ogni passo, sprofondasse in una massa meno densa, fino a trovare un punto di calma assoluta.
Quando sentì che poteva finalmente parlare senza rischiare di scoppiare a piangere istericamente, Jelena fece un respiro profondo ed alzò la testa.
Lui stava in piedi davanti ai suoi occhi, un’ombra che si proiettava su mura e pietre squadrate, eppure lei riusciva a distinguerlo nel buio come se fosse stato illuminato da una fiamma particolarmente vivida. Ora che poteva vederlo bene, senza essere sconvolta dalla febbre, le sembrava più umano di quanto non le fosse sembrato all’inizio; aveva delle piccole rughe d’espressione sulla fronte ed ai lati della bocca, tanto che le ricordò suo padre quando era preoccupato per qualcosa, ma suo padre non avrebbe mai avuto quell’aria di severità e benevolenza al tempo stesso, quell’aura regale. Quell’uomo aveva attorno a sé un alone di invulnerabilità e soggezione agghiacciante.
Osservandone stupefatta il volto, rammentò tutto. Fu come ricevere un ceffone in piena faccia. I ricordi della notte precedente, rimasti acquattati in un angolo della sua mente fino a quell’istante, riaffiorarono di colpo. Istintivamente si portò una mano al collo, per poi ritrarla subito con uno scatto d’orrore. Si era sfiorata appena, ma aveva comunque sentito il rilievo della pelle lacerata dai denti.
- Ma tu chi sei? – gemette, incassando la testa fra le braccia in un vago tentativo di difesa. Lo sentì ridere, prima di udire i suoi passi avvicinarsi. Un secondo dopo lui le abbassò le braccia con un gesto gentile ma fermo.
- Ho molti nomi. Mi chiamano upiór in Polonia, vampyr in Bulgaria… Ma in questo paese mi chiamano upyr', vampiro. Ma tu sapevi già chi ero, quando hai accettato la mia offerta. Non è così?
Aveva disteso l’espressione accigliata, ma lei si sentiva comunque restia a parlare. C’era qualcosa, in quel vampiro, che la intimidiva.
- Sì, - mormorò, - Sì, è così. Ma volevo sapere il tuo nome…
L’essere rise, scoprendo i canini, ma quando si accorse dello sguardo terrorizzato della bambina ebbe la delicatezza di smettere.
- Puoi chiamarmi Vlad. Io ovviamente so il tuo, visto che ti ho osservata per molto tempo. Tu sei Jelena.
Lei annuì, sentendosi più tranquilla. In fondo dire il proprio nome era universalmente considerato un gesto di fiducia. E poi quel vampiro l’aveva salvata da morte certa, aveva di che essergli grata.
Poi vide il suo abito da sposa appoggiato sopra la bara di pietra da cui era uscita. C’erano macchie di sangue raggrumato sul velo e sul corpetto.
- Perché non lo indosso ancora? – chiese lei, prendendo in mano gli indumenti per studiarli con attenzione. Vlad scrollò le spalle, come a scusarsi.
- Ti sei cambiata da sola, io non ho fatto nulla. Se non lo ricordi è normale. Si ricorda molto poco delle ore seguenti all’iniziazione.
- Mi hai messo tu nella bara?
- Quando ti ho portato qui, ti sei coricata di tua spontanea volontà. Dovrai farci l’abitudine, a dormire lì dentro.
- E perché?
- Devi farlo a meno che tu non voglia morire carbonizzata dai raggi del sole. Adesso la tua pelle non può più sopportarla.
Ricordava che una volta la sua pelle era più scura del suo vestito e che le sue mani erano calde; adesso le sembrava che qualcuno avesse sostituito al suo corpo un modellino di cera bianca, raffreddata ed indurita. Cosa era diventata da non poter sopportare la luce del sole, per amor del cielo?
Quando gli rivolse la domanda più direttamente che poteva, “Cosa posso fare?”, il vampiro cominciò a camminare su e giù per la stanza, sollevando una piccola nebbia di polvere attorno ai piedi. Anni dopo Jelena avrebbe imparato che Vlad si comportava così nei momenti di nervosismo o di indecisione, ma allora non poteva saperlo. Si limitò ad ascoltare quello che lui le diceva.
- Non è facile riassumere ciò che puoi o non puoi fare. Sei più veloce e più resistente degli esseri umani, a meno che non ti lasci morire di fame; i tuoi sensi sono più acuti e possiedi la facoltà di rigenerare i tuoi arti se vengono mozzati. Ci sono anche dei famigli per ogni vampiro, ma questo te lo spiegherò più tardi, visto che ti troverai a combattere il meno possibile. Puoi camminare sulle pareti, controllare le menti degli umani più deboli ed usare la telepatia, forse anche la telecinesi, se sei fortunata. Le abilità variano da vampiro a vampiro, ovviamente, e dovremo scoprire quali hai appreso tu, per cercare di perfezionarle col tempo. Ovviamente nemmeno noi siamo veramente immortali, e sono parecchie le cose che possono nuocerci. Il sole, ad esempio. Basta un raggio per causarti un discreto dolore, e, se la luce ti raggiunge completamente, di te non rimarrà che cenere. Poi ci sono gli oggetti consacrati. Sì, possiamo entrare nelle chiese e possiamo sopportare la visione di un crocifisso, però l’acqua benedetta è letale per noi, come l’argento. Ed anche i paletti di legno, se conficcati nel cuore, bastano ad uccidere certi vampiri. Ah, senza contare l’acqua del mare o di fiume. Riesce a sciogliere la tua pelle come se fosse di cera e ti consuma completamente. Bene, c’è qualcosa che non ti è chiaro in questo discorso?
- No, è tutto chiaro, - asserì lei, - Solo una cosa: cosa mangiamo?
Lui la guardò come se avesse detto una grande sciocchezza, poi scosse la testa. Sembrava più incredulo che arrabbiato.
- Sangue. Pensavo l’avessi capito.
- Anche di cadaveri? – azzardò la bambina. Vlad fece una smorfia disgustata.
- Non ho mai provato a berlo, ma dall’odore deve essere terribile. Puoi provarci, ma sono sicuro che ti sentiresti male subito dopo.
Ma lei si sentiva già male pensando al fatto di dover succhiare il sangue ad un essere vivente. Ricordava fin troppo bene il dolore terribile che aveva provato quando lui l’aveva morsa, e di certo non odiava così tanto il genere umano da volerlo infliggere a qualcun altro. Strinse più forte a sé l’abito da sposa, ultimo residuo di quello che restava di lei.
- Non voglio farlo. Non voglio uccidere nessuno. Non sono un’assassina.
- Morirai.
- Sono già morta! Pensavo di poter prolungare la mia vita ancora per un po’, ma non voglio sottrarla a qualcun altro che merita di viverla più di me!
- La pensavi così quando mi hai chiesto di diventare un vampiro? Conoscevi già le leggende. Sapevi già tutto, eppure hai accettato di diventare come me. Ed ora sei subordinata alla mia volontà, visto che, da quando sei rinata come vampira, io sono diventato il tuo maestro. Perciò obbedirai a ciò che ti ordino. Tu ti nutrirai di sangue, e questo è quanto.
Già con suo padre Jelena aveva scoperto quanto agghiacciante poteva essere un rimprovero fatto con voce pacata e tranquilla, ma con Vlad la cosa era doppiamente più terrificante. Avrebbe preferito che lui si fosse messo ad urlare ed ad inveire contro di lei, invece di parlarle con quel tono innaturalmente calmo. Comunque, pur di non sentire altro, annuì e ricacciò indietro le lacrime che minacciavano di straripare.
- Bene, - commentò lui, sorridendole come se non fosse successo nulla di irreparabile, - Puoi scegliere tu stessa chi uccidere per mantenerti in vita. Se qualcuno ti sembra malvagio puoi sempre bere da lui e mantenerti coerente con la tua coscienza. Io ho le mie preferenze, ma non ti obbligo a seguirle. Vieni, usciamo da qui. Voglio vedere se riesci a cacciare come una vera vampira.

Credeva sarebbe stato impossibile uccidere una persona, eppure fu stranamente e spaventosamente facile.
Seguì il consiglio di Vlad e cercò fra le vie del paese in cui lui l’aveva condotta un uomo abbastanza cattivo per mettere a tacere il senso di colpa. A dire la verità fu l’uomo a vedere lei, una bambina vestita con abiti signorili che camminava da sola a quell’ora di notte senza traccia di adulti al seguito, - Vlad era rimasto a distanza per osservare, - e si mise a pedinarla senza sforzarsi di nascondersi.
Jelena affrettò istintivamente il passo, mentre la familiare sensazione di paura che provava quando era ancora umana tornava ad accelerarle violentemente i battiti cardiaci; quando scoprì che nella paura c’era anche eccitazione per la caccia in corso, si odiò profondamente. Al primo vicolo buio che imboccò, si acquattò contro il muro, trattenendo il respiro; l’uomo la raggiunse poco dopo, cercandola a tentoni nel buio e chiamandola con una voce stolida e irridente.
Fino a quel momento aveva cercato di controllare la sua repulsione per quell’essere umano, ma nel sentirsi chiamare ,”su, micina, vieni dal tuo padrone, piccolina dove sei, c’è tuo padre che ti cerca, avanti troietta non farti pregare manco fossi la Panaghia, micia, micia…” non si trattenne più. Aspettò di averlo abbastanza vicino e balzò verso di lui, allungando le mani in avanti per afferrargli la gola.
Sentì con orrore uno schianto di ossa rotte quando serrò le dita attorno al collo della sua vittima, ma non ebbe tempo di compiangerlo perché il suo corpo agì spontaneamente, affondandogli i denti nella giugulare più a fondo che poteva.
Un fiotto di sangue gorgogliò nella sua gola e lei lo inghiottì rumorosamente. Non c’era nulla di disgustoso, nulla di orribile che l’avrebbe perseguitata negli incubi. Il sangue era meraviglioso, invece, corroborante come una bevanda calda in una giornata d’inverno; era piccole scintille di fuoco che bruciavano sotto la pelle; era il mantello di San Giorgio nei mosaici di Novodevičij; era le cupole d’oro di Mosca quando si schiudevano all’alba come boccioli; era l’anima segreta della grande città che cominciava a rivivere al tramonto. Era fragola e miele sulle labbra che hai solo potuto disegnare nei tuoi sogni bambini…
Qualcuno la tirò via bruscamente. Lei era ancora così saldamente attaccata al collo della sua vittima che sentì la pelle lacerarsi assieme ad un pezzo di carne sanguinolenta che si affrettò a sputare.
- Se non impari a controllarti fin da subito qualcuno potrebbe scoprirti mentre ti nutri e prenderti di sorpresa, - le ricordò Vlad, guardando con interesse il cadavere dell’uomo. Lei abbassò lo sguardo, sentendosi la bocca ancora calda e lorda.
- Mi dispiace. Non lo farò più- si scusò, guardandosi la punta delle scarpette. Il vampiro ridacchiò, accennandole una carezza sulla testa.
- Hai ancora fame?
- Sì, - ammise, più vergognosamente di prima. Con sua grande sorpresa, Vlad le sembrò stranamente orgoglioso.
- Impari piuttosto in fretta, figlia mia. Vieni, andiamo a cercare un altro mostro da divorare, poi penserò a me.
- Perché mi hai chiamato “figlia”? – gli chiese Jelena, mentre trotterellava assieme a lui fuori dal vicolo. Lui ponderò la questione per qualche attimo.
- Non lo so. Visto che ti ho creato io suppongo di doverti considerare mia figlia. La cosa ti disturba?
- No, per niente! Però… Posso chiamarti, maestro, invece di padre?
- Come preferisci. Non do molta importanza ai nomi, - tagliò corto lui.
Per i secoli a venire, però, Vlad fu sempre nastàvnik moj,maestro, maestro mio.

Rientrarono nella cripta della chiesa abbandonata che mancava mezzora all’alba. Jelena si sentiva sazia come mai si era sentita dopo un banchetto, ed infinitamente più felice. Se era riuscita a dare la morte a due malvagi in una notte, perché non farlo ancora per quelle a seguire? Nessuno li avrebbe rimpianti e lei avrebbe anche potuto creare un mondo migliore, se ne avesse tolti di mezzo il più possibile. Era così entusiasta che si lasciò sfuggire con Vlad una frase che lui non sembrò apprezzare molto.
- Nastàvnik, stavo pensando ad una cosa, - cinguettò allegramente, appollaiata sulla tomba su cui avrebbero dovuto coricarsi insieme, in mancanza di altri sepolcri. Lui le fece cenno di continuare.
- La mia vita da mortale era noiosa e molto infelice, ed io non riuscivo a capirne il motivo. A parte qualche raro momento passato con qualcuno ed i miei adorati libri, credevo non ci fosse altro, per me. Poi, dopo stasera, ho capito perché la mia esistenza era così vuota. Io ero destinata a diventare un vampiro, capisci? Tutta l’infelicità che ho provato prima c’è stata per vedere se ero degna di diventare come te! E’ stata una preparazione in previsione di questa vita immortale!
Probabilmente avrebbe continuato nella sua fanciullesca esaltazione, se lui non le avesse lanciato uno sguardo di ghiaccio che la trapassò da parte a parte. Si sentì improvvisamente a disagio.
- Cosa c’è, nastàvnik? Ho detto qualcosa che non va?
- No. Semplicemente stavo constatando che, se davvero è andata come dici tu, tu sei davvero la persona più infelice della terra. Nessuna vita prepara alla morte e nessun decesso è più felice dell’esistenza. Cerca di ricordartelo, per il futuro.
Aveva la sensazione di averlo ferito profondamente, eppure voleva soltanto fargli capire quanto si sentisse realizzata per la prima volta in vita sua… Che pena. Aveva letto e studiato così tanto, eppure non riusciva a trovare altre parole per chiedergli scusa e dirgli ciò che voleva spiegargli davvero.
Vlad si sedette sul pavimento, avvolgendosi il mantello rosso attorno al corpo e chiudendo gli occhi. Lei saltò giù dalla tomba e gli andò incontro esitante. Lui non reagì nemmeno quando lei si sporse a toccargli una mano.
Improvvisamente le sembrò di essere immersa in una luce così accecante da costringerla a ripararsi gli occhi. Il sole, pensò terrorizzata, e si preparò a sentire la sua pelle sfaldarsi sotto i suoi raggi incandescenti.
Tentò di ripararsi con le braccia, ma si accorse di avere mani e collo immobilizzati da ceppi di legno. Cominciò a rendersi conto di altre cose, dei due uomini che la stavano trascinando lungo un terreno imbrattato di sangue, della croce dorata che le sbatteva contro il petto ad ogni passo e dei cadaveri che dondolavano precariamente appesi ai rami degli alberi come frutti marci, tutti morti perché il tuo Dio ascoltasse le tue preghiere, Principe. Ad un certo punto si sentì gettare per terra, vicino ad un mucchio di guerrieri, - i miei guerrieri - ammucchiati uno sopra l’altro, e sentì parlare in una lingua sconosciuta. Davanti a lei un uomo dal viso coperto stava provando la propria scure su un ciocco di legno. Quando l’arma calò, i frammenti volarono fino alle guance. La presero per i capelli e le premettero il volto contro il terreno sudicio di sangue. Il boia le si avvicinò e sollevò la scure.
Dio, Dio, perché mi hai abbandonato?
Il rivolo di sangue scorreva lì, sotto la sua bocca. Riuscì ad avvicinarsi abbastanza da poterlo lambire con la punta della lingua.
Poi la scure le mozzò il capo di netto, mentre la croce dorata finiva in pezzi.
…Vlad la dovette schiaffeggiare un paio di volte affinché riprendesse i sensi. Le disse di averla vista svenire di colpo e che poteva ben considerarsi fiera di essere il primo vampiro che sveniva non appena toccava qualcun altro. Lei scosse la testa.
- Ho… Ho visto qualcosa.
Lui lasciò perdere subito l’ironia e si fece raccontare ogni dettaglio della sua visione, dalle immagini dei cadaveri appesi agli alberi al rumore delle mosche che volteggiavano attorno alle cataste dei morti.
Quando lei ebbe finito, il vampiro rimase in silenzio per parecchi minuti. Alla fine scrollò le spalle e si decise a parlarle.
- E tutte queste immagini sono comparse quando mi hai toccato.
- Sì, sono fiorite all’improvviso nella mia testa ed io ero improvvisamente qualcun altro… Ma non capisco come possa essere successo. E’ uno di quei poteri di cui mi parlavi prima?
- Evidentemente sì. Credo che tu possa assimilare le memorie degli altri vampiri semplicemente toccandoli, forse anche quelle degli umani. Una facoltà molto utile.
- Ma, nastàvnik… Eri tu quell’uomo che è stato decapitato?
- La risposta mi pare più che ovvia, - sospirò lui, - Buffo, vero? Hai visto la mia morte ed ora sono qui, davanti a te. Sono stato ucciso, eppure sono vivo. Sono diventato un vampiro bevendo il sangue dei miei guerrieri…
La bambina gli si sedette accanto e gli afferrò un lembo di mantello, non avendo il coraggio di toccargli nuovamente la mano.
- Chi eri, Vlad?
- Un principe, un vojvoda. Ho regnato per qualche tempo sul principato della Valacchia… Troppo poco tempo per la mia ambizione, ma abbastanza lungo per guadagnarmi il soprannome di Impalatore.
- Vlad Ţepeş, - mormorò lei. Lui annuì.
- Sì, nato nel 1431 a Sighişoara, in quella che oggi chiamano Romania. Sono morto in una terra sperduta sul Danubio quarantacinque anni dopo, combattendo contro i Turchi. Credo che la mia vita possa essere riassunta così, senza che venga aggiunto altro.
- Non è vero, - protestò Jelena, - Gli uomini si ricordano ancora di te e di quello che hai fatto un… secolo fa. Hanno scritto dei libri di storia su di te ed io li ho letti tutti. Perché vivi di nascosto mentre potresti uscire e mostrarti al mondo? Sei Vlad Ţepeş, e dopo più di cento anni sei ancora vivo!
- Non parlare come una sciocca. Se hai letto così tanto su di me dovresti capire che non c’è nulla, di quello che ho fatto, di cui posso andare fiero. E’ vero, se vivessi la mia vita altre mille volte farei sempre le stesse cose, ma è perché sono fatto così. Il mio animo è quello e con il passare dei secoli non cambierà. Posso forse insegnare qualcosa agli uomini? Che la morte si può sconfiggere e che non esiste nessun aldilà? No. Che commettano i loro errori e scelgano di vivere come più gli aggrada, come tutti.
Io ho combattuto per il mio Dio, l’ho pregato fin da bambino affinché mi mostrasse un segno della sua esistenza, non chiedendo mai nulla per me. Ma Lui non ascolta le preghiere che gli rivolgiamo, ci guarda ed attende che qualcosa di grandioso lo costringa a scendere dal suo trono. Sono morto spingendo i miei guerrieri a combattere per la salvezza di un paradiso in cui credevo solo io, per impressionare un Padre che ha distolto lo sguardo da me. Sono rinato per il sangue degli agnelli mattati per mio conto. Era questo che Lui voleva da me? Un’ecatombe di uomini, perché Lui si nutre di sangue come tutti gli dei.
A quel punto sono diventato il mostro che vedi ora.
Dici che posso mostrare qualcosa agli uomini? Io non posso insegnare loro nulla che già non sappiano.
Rimasero in silenzio per qualche tempo, lei ancora aggrappata al mantello e lui che ancora fissava il vuoto. Jelena pensava. Pensava che forse era stato anche per quello che Vlad l’aveva scelta, perché era disperata ed aveva pregato senza che nessuno la ascoltasse. Se Dio aveva guardato altrove, bene. Loro avrebbero seguito la strada dei rinnegati dal Paradiso.
- Nastàvnik, facciamo quello che Lui ci ha ordinato. Esaudiamo il suo desiderio. Il nostro destino è quello dei morti: allora viviamo come tali fra gli uomini. Facciamo i lupi e cacciamo le nostre pecorelle. Se Dio non avesse preparato per noi questa strada, perché saremmo qui insieme?
Vlad sbatté le palpebre e si girò a guardarla. Sembrava che la stesse fissando per la prima volta, tanto il suo sguardo era sorpreso.
- Odi così tanto la tua vecchia razza, Jelena, da desiderare una cosa del genere?
- No, nastàvnik, non li odio. Provo indifferenza per loro, perché è questo ciò che mi hanno sempre riservato. Li sto solo ripagando con la stessa moneta. E tu?
Lui prese a sfregarsi il mento fra due dita, senza smettere di guardarla con fare meravigliato. Alla fine lasciò cadere la mano e si alzò dal pavimento.
- Molto bene. Ormai è prossima l’alba, e quindi per stanotte è inutile continuare. Da domani cominceremo a preparare il nostro travestimento da pecorelle. Vieni, piccolo lupo, andiamo a dormire.
Stavolta lei non ebbe nessuna paura ad infilarsi nella bara ed a rannicchiarsi da una parte per lasciare spazio all’altro vampiro. Lui si sedette sul fondo e tirò il coperchio della tomba sopra di loro, spegnendo ogni possibile luce.
- Nastàvnik?
- Sì.
- Il nostro travestimento prevede anche una biblioteca? Una biblioteca molto grande?
- Oh sì. Una biblioteca enorme.
- Bene, – mormorò lei, prima di rannicchiarsi sul mantello del suo creatore ed addormentarsi.

***

Vlad fu di parola.
Fin dal giorno dopo cominciarono ad organizzare il loro progetto e, nel farlo, furono minuziosi.
Lasciarono la Russia, si trasferirono in Svezia e si misero di impegno per costruire la loro fortuna. Trovare soldi era molto facile, specie se le loro vittime durante la notte era numerose, e Vlad aveva un sesto senso per gli affari infallibile, oltre che una certa abilità per far lievitare ciò che metteva da parte.
Perciò in capo a pochissimo tempo riuscirono a mettere da parte abbastanza denaro per permettersi di attuare il loro piano, ma per essere completamente sicuri di non correre rischi rimasero nascosti per quasi cinquant’anni. Durante quegli anni a Jelena non mancò certo il tempo di studiare anche il suo compagno di viaggio e creatore, o almeno di tentare di farlo.
Vlad era una creatura estremamente complicata, molto più degli umani che aveva conosciuto in vita: definirlo contradditorio però sarebbe stato troppo semplice, troppo ingiusto. A modo suo era gentile con lei, quasi un padre affettuoso sempre disposto a chiudere un occhio per i capricci della propria figlia, - che riguardavano esclusivamente nuovi vestiti e libri freschi di stampa, - ma che rifiutava di aprirle la propria anima e sfogarsi quando ne aveva bisogno, limitandosi a starsene ore intere a guardare orizzonti che non vedeva ed ad uccidere le sue parole prima che venissero pronunciate. Dopo le rivelazioni della loro prima notte, Jelena aveva sperato di aver aperto uno spiraglio dentro di lui, ma presto si rese conto che aveva visto appena socchiusa una porta che Vlad voleva sigillata.. Sarebbero passati secoli prima di poter vedere di nuovo la luce filtrare fra gli stipiti.
Comunque, anche se non le permetteva di guardare dentro la sua armatura, Vlad la faceva sentire, in qualche maniera, amata. Ogni sera, dopo essere rientrati nella loro dimora occasionale, lei apriva un libro e leggeva ad alta voce dei passi che le sembravano particolarmente belli oppure cantava qualcuna delle canzoni popolari che Zinaida, a suo tempo, le aveva insegnato, mentre lui la ascoltava in silenzio. Dopo potevano discutere del libro che lei teneva in bilico sulle ginocchia o delle tradizioni dei contadini dei Balcani, di cosa stesse facendo Ferdinando I d’Asburgo nel suo impero o quali sarebbero state le prossime mosse in politica estera del Papa di Roma, - su questo argomento Vlad amava esagerare le sue supposizioni in mille modi diversi che la facevano sempre piangere dal gran ridere. Parlavano di tutto e, cosa più importante, lui era sempre interessato a ciò che lei aveva da dire. La ascoltava davvero e, santo cielo, era ciò che di più bello potesse darle.
Vlad era un predatore molto più feroce di lei quando si trattava di cibarsi, ed a volte sembrava che si divertisse a giocare con la sua vittima designata prima di ucciderla, come se prima volesse romperla in mille pezzi per poi calpestarli definitivamente; un comportamento sadico che Jelena gli aveva fatto sapere più volte di non approvare, ma lui non sembrava interessato né alla sua approvazione né al suo disprezzo. I loro litigi peggiori nascevano dal comportamento arrogante e cinico che il vampiro teneva con il resto del mondo, poiché finiva per mettere entrambi più in risalto di quanto avrebbe voluto una ragionevole prudenza. Lei era sempre stata abituata a fingersi invisibile, lui era cresciuto per essere in cima ad un piedistallo: il loro modo di vivere la propria esistenza, mortale ed immortale, finiva inevitabilmente per scontrarsi ma, cosa altrettanto scontata, era Jelena quella che infine cedeva. Sempre.
Così, quando Vlad le disse che era il momento di fare ciò che avevano pianificato per cinquant’anni, lei non si oppose, anche se sapeva che lui avrebbe tutto di testa sua.
Il vampiro acquistò un castello a Königsberg e vi si trasferì assieme a lei sotto le sembianze di un aristocratico vedovo e ricchissimo che, con la propria figlia, stava cercando un posto tranquillo dove potersi dedicare a dulcia otia letterari o meno. L’invito implicito fu raccolto al volo dall’aristocrazia locale e dopo meno di un anno il salone della loro nuova casa era pieno ogni notte di ogni genere di persone, perlopiù nobili e studiosi dei paesi vicini.
Fu un ritorno in grande stile alla vita che Jelena teneva più di cinquant’anni prima, ma con notevoli differenze. Poteva andare e venire dal salone come e quanto voleva, visto che bastava la sola presenza di Vlad ad attirare tutti gli ospiti. Ma poteva anche scegliere di intrattenersi a parlare con qualche scrittore di passaggio o giovani, nobili e non, che aspiravano a una qualche notorietà, meglio se intellettuale, pur non avendo alcun talento. Questi erano in fondo gli interlocutori più divertenti. Anche se non possedeva lo stesso fascino magnetico che il compagno esercitava sui presenti, Jelena si rese conto, dopo le prime serate, di attirare l’attenzione più del necessario e che la cosa non le dispiaceva. Che la guardassero per i vestiti, per il suo aspetto fisico, per i libri che citava a memoria: non importava. Bastava che la guardassero. Una sera Vlad commentò, scherzando, che si era convertita al lato oscuro; lei non rispose subito ma, non appena se lo trovò vicino, gli pestò il piede più forte che poteva.
Lasciarono passare alcuni anni e poi si trasferirono nuovamente, stavolta a Grodno, in Polonia, dove ricominciarono con la loro recita personale; dopo poco tempo abbandonarono di nuovo il territorio e si trasferirono ad ovest. I secoli, fra una cosa e l’altra, passarono velocemente assieme alle città in cui si stabilivano, e mai per più di pochi anni, per ovvie ragioni. Quando gli abitanti si sarebbero resi conto che Vlad non invecchiava e Jelena rimaneva sempre una bambina di tredici anni, si sarebbero insospettiti. Però, se una città era piaciuta loro particolarmente, finivano per tornarci, - fu questo il caso di Königsberg, dove si precipitarono quando sentirono che un nuovo intellettuale, chiamato Immanuel Kant, stava rivoluzionando l’intera filosofia conosciuta: ebbero l’onore di averlo come ospite in casa loro, ma solo Vlad ebbe anche quello di parlarci, cosa che Jelena non gli perdonò mai del tutto.
Passarono per parecchi stati e città, ma quelle che preferirono in assoluto furono Napoli, - dame e cavalieri sembravano deliziati dall’apparente sforzo con cui lei ed il suo creatore tentavano di imitare la parlata locale, - e Parigi: la permanenza in quest’ultima fu particolarmente importante per Jelena perché, per la prima volta, si innamorò di un essere umano.
Per Vlad non era certo una novità incapricciarsi di qualcuno che poi dimenticava velocemente. All’inizio lei aveva avuto paura che il suo creatore potesse rimpiazzarla con un’umana, invece non era mai successo e lei non ne aveva capito il motivo. Aveva l’aspetto di una bambina graziosa, certo, e poteva parlare di qualunque argomento lui desiderasse, ma di sicuro il suo corpo non era maturato. Il succo era tutto lì. Per questo aveva il terrore che una donna splendida, intelligente e intatta, sarebbe arrivata da un giorno all’altro e se lo sarebbe portato via. E lei sarebbe stata dimenticata come tante altre.
Fu quasi per ripicca verso questi capricci infantili che andò a cercar qualcuno di cui innamorarsi, e questo qualcuno fu un giovane poeta parigino con molti sogni in tasca e pochi soldi a far loro compagnia, a causa di una condotta di vita piuttosto dispendiosa, a dire la verità. Lei l’aveva sentito per puro caso recitare dei suoi versi nell’attico di un amico e si era fermata, in strada, ad ascoltare. Forse i versi erano troppo innovativi e libertini per piacerle, ma lui li recitava con un trasporto che affascinava. Quando lo vide uscire scoprì che aveva anche un bel viso, oltre che una bella voce, e decise di seguirlo di nascosto fino a casa sua. Da quella sera Jelena tornò praticamente ogni notte a guardarlo scrivere le sue opere alla luce di una candela e a sentirlo parlare; ma, malgrado il suo intento iniziale fosse quello di ferirlo con la stessa noncuranza con cui il suo maestro feriva lei, non ne fece mai parola con Vlad.
Non si mostrò mai al giovane, per non spaventarlo, né tentò di parlargli lei stessa, anche se qualche volta gli lasciava una borsa di denaro sul tavolo; il poeta tentò di scoprire in mille modi chi fosse la sua misteriosa benefattrice, arrivando addirittura a pregare alla finestra che lei si mostrasse, anche solo per poterla ringraziare, ma lei si turava le orecchie e si nascondeva da qualche parte. Come avrebbe potuto reagire quel ragazzo se avesse saputo che l’angelo misterioso che lo manteneva era una bambina, per di più vampira? No, meglio stargli lontano e lasciarlo nella sua benedetta ignoranza.
Dopo i primi mesi, tuttavia, Vlad cominciò a chiederle il motivo di quelle uscite notturne sempre più lunghe, visto che nei secoli precedenti tornava il prima possibile dalla caccia per immergersi subito nella lettura. Anche se si sentiva in colpa a mentirgli, Jelena gli rispose che Parigi le piaceva molto e che intendeva conoscerne ogni viuzza, ogni androne, ogni quai: ottimi territori di caccia, dopotutto. Lui non sembrò molto convinto ma non insistette.
Gli anni passavano e lei continuava a tornare alla casa del suo innamorato; nel frattempo lui era finito nei guai con la giustizia assieme al suo editore, subì la censura di alcune poesie ed il ritiro dal commercio del suo libro. Ebbe anche una crisi cerebrale, molto simile a quella che l’aveva quasi uccisa, e pochi anni dopo si trasferì a Bruxelles, sperando di trovarvi più fortuna. Jelena non ebbe cuore di seguirlo anche lì, limitandosi a pregare che le loro strade tornassero a intersecarsi ed a leggere le copie del libro che aveva conservato.
Seppe che lui continuava a scrivere, anche se aveva cominciato ad assumere sostanze stupefacenti per alleviare i dolori fisici che lo tormentavano; dopo qualche tempo fu colpito da un nuovo attacco che gli paralizzò il lato destro del corpo, e sua madre lo ricondusse a Parigi, dove il loro vagabondaggio circolare aveva finito per riportare anche i due vampiri.
Quando Jelena andò a trovarlo nella casa di salute dove l’avevano ricoverato, il poeta stava morendo. Aspettò che fosse solo e poi entrò nella sua stanza, mettendosi a cavalcioni della finestra. Lui aprì gli occhi e la guardò, senza dire una parola. Dopo l’ennesimo attacco faticava a parlare, e lei non voleva che si sforzasse.
- Ti rammenti di me? Ero quella che ti lasciava i soldi sulla scrivania. Mi chiamo Jelena… Sai quella poesia che hai scritto, “il vampiro”? Io sono una di loro. Forse te ne eri già accorto, vero? Forse non sono stata abbastanza attenta quando ti sono venuta a trovare in questi anni… Dimmi, lo sapevi chi ero io?
Il poeta annuì. Aveva quarantacinque anni, come Vlad quando era morto, eppure sembrava di cent’anni più vecchio. Vederlo così rattrappito sul letto in quella casa squallida le strinse il cuore.
- Charles, ho sentito che stavi scrivendo nuovi lavori… Ti prego, non lasciarli incompiuti. Io amo quelle poesie, amo quella cupezza e quella tristezza immensa che metti su carta… Voglio leggerne ancora. Per favore, lascia che ti aiuti. Lascia che ti faccia diventare come me. Potrai scrivere tutto quello che vuoi, per tutta l’eternità.
Le sembrò che lui le stesse sorridendo mentre scuoteva la testa nella sua direzione. Lo capì. Lui aveva vissuto la sua vita e non chiedeva altro tempo per sé. Era abbastanza coraggioso per affrontare ciò che doveva, anche se lo addolorava lasciare i suoi lavori incompiuti. Era un uomo che rifletteva ancora con lucidità, malgrado la malattia, e con la stessa lucidità stava rifiutando l’eterno. Era un individuo fuori dal suo tempo e fuori dal suo mondo anche nell’ora della fine, come era sempre stato.
Lui morì una settimana dopo, nel 1867, fra le braccia della madre con cui si era riappacificato, trovando finalmente pace dopo la sua lunga agonia. Lei andò a vedere la sua tomba a Montparnasse un paio di volte, poi chiese a Vlad di trasferirsi altrove. Lui la accontentò.
La sera prima di partire andarono a guardare la Senna da uno dei numerosi ponti che univano le due rive; lei si sedette su un parapetto a guardare l’acqua sotto di loro.
- Nastàvnik, non ricordo. Dove sfocia la Senna?
- Nel Canale della Manica, nel Mare del Nord.
- Dovremmo andare a vedere il mare, qualche volta. Secondo te noi vampiri possiamo salire su una barca?
- A patto di non farci il bagno, - le sorrise lui, - Se vuoi, un giorno andremo a vedere il mare. Magari ci faremo anche un piccolo viaggio.
Lei gli strinse riconoscente la mano.
- Vlad, grazie.
Lui scrollò le spalle, come ad indicare che non era nulla, e poi rimasero a fissare la Senna che scorreva tranquilla sotto il ponte.
Si trasferirono, nel 1879, in Transilvania. Per loro quella sarebbe stata la terra del destino, e se non si fossero trovati lì ciò che sarebbe successo in seguito forse non sarebbe mai accaduto… Ma questo non potevano saperlo, nessuno di loro due.
Ricominciarono con la solita, vecchia recita anche se, non si sa come, trapelò in giro la notizia che in realtà Vlad avesse ben tre mogli; lui la prese bene, contribuendo per divertimento personale a gonfiare la notizia ed a diffonderla. Sembrava che questo falso pettegolezzo attirasse più ospiti del solito.
Se gli aristocratici ed i borghesi accettarono con entusiasmo i due nuovi arrivi, - cinque se si contavano le tre mogli, - gli abitanti del posto guardavano con sospetto il Conte, - così lo chiamavano, - e sua figlia, la contessina Jelena, facendosi il segno della croce ogni volta che la carrozza si trovava a passare per le strade dei villaggi vicini. Vlad ci rideva su, specie quando vedeva le croci d’aglio appese alle porte, ma lei trovava la cosa inquietante. Lui la consolava dicendole che erano solo contadini ignoranti, perlopiù innocui. In realtà, nella loro ignoranza, i popolani erano a conoscenza di molte più cose di quanto volessero far intendere.
Ricominciarono le feste, gli inviti ai viaggiatori: fra questi, una sera, arrivò un gruppo di ospiti che venivano dall’Inghilterra. C’erano due donne e tre uomini, tutti quanti vestiti in modo impeccabile e leggermente a disagio fra i vari esponenti della borghesia transilvana. Toccò a Jelena andarli a ricevere, mentre Vlad finiva di scrollarsi di dosso un paio di mosche umane particolarmente fastidiose.
I nuovi arrivati si presentarono. Il dottor Seward, Quincey Morris, Lord Arthur Holmwood, Lucy Westerna e Mina Harker. Quest’ultima, quando Vlad finalmente li raggiunse, sembrò catturare all’istante l’attenzione del vampiro. Jelena gemette dentro di sé, anche se in fondo anche lei si sentiva stranamente attratta dalla persona di Mina: era una ragazza con un viso dolcissimo ed il sorriso timido, che insegnava etichetta e decoro in una scuola inglese, e tutto, di lei, faceva pensare a qualcosa di dolce e soffice. Il suo sangue doveva essere qualcosa di impagabile, senza alcun dubbio.
Jelena si fermò a parlare con l’amica di Mina, Lucy: quest’ultima, una giovane vivace e giocosa, anche lei molto avvenente, raccontò che era stato Lord Arthur, il suo fidanzato, a convincere entrambe a venire in Transilvania, visto che l’aveva già visitata in precedenza e vi si era trovato molto bene.
- E voi che ne pensate? – la interruppe Jelena. Lucy ridacchiò a bassa voce e prese a tormentarsi un ricciolo scuro che le cadeva dalla fronte.
- Siamo appena arrivati, purtroppo, e l’unica cosa che ho visto della Transilvania è questo meraviglioso castello… Davvero meraviglioso, - sospirò. Lei sentì una piccola fitta allo stomaco sentendo che quell’aggettivo era sicuramente riferito al padrone del castello.
- Una cosa, mia cara contessina, - le chiese la donna, appoggiandole una mano sulla spalla in modo confidenziale, - Tu di quale delle mogli del Conte Vlad sei figlia? Sai, se non sono troppo indiscreta…
- Non ve ne preoccupate, - ribatté la ragazzina, - Sono figlia dell’ultima moglie, non di quella che si è suicidata tagliandosi la gola e neanche di quella che si è gettata in mare per annegarsi. Quando hanno ritrovato i suoi resti maciullati sugli scogli le si riconosceva appena la faccia.
Detto questo girò le spalle all’agghiacciata Lucy e si ritirò nelle sue stanze. Poco prima dell’alba Vlad la raggiunse, visibilmente infuriato.
- Cosa ti è saltato in mente di fare? Sei ammattita completamente?
Lei resse il suo sguardo senza battere ciglio.
- Voleva sapere di chi ero figlia. Che cosa avrei dovuto rispondere, che mia madre è morta tre secoli fa?
- C’è modo e modo di rispondere ad una domanda, - ringhiò lui, - Se vuoi farci scoprire direi che sei sulla buona strada. La prossima volta ti consiglio anche di far vedere a quella donna i segni che hai sul collo, tanto per concludere l’opera in bellezza.
- Quanto rimangono qui?
- Una settimana. Vedi di attenerti alle regole che ci siamo dati almeno per i prossimi giorni, Jelena. Non mi hai mai visto arrabbiato e, credimi sulla parola, ti conviene non spingermi a tanto. Lei si alzò dalla sedia e sbatté con violenza la porta alle sue spalle, correndo a rifugiarsi dentro alla
loro tomba. Il solo pensare a Mina Harker e a quello che lei avrebbe potuto fare le dava un senso di nausea fortissimo. Quella ragazza era pericolosa ed andava eliminata, ma come fare? Ma aveva sette giorni per rifletterci. Avrebbe pensato a qualcosa.
Quella sera Vlad si rifugiò nei sotterranei, rifiutandosi di dormire nel loro giaciglio condiviso. La cosa la fece stare ancora più male, tanto che si chiese se non fosse il caso di fingersi pentita e chiedergli scusa, ma il suo orgoglio le impedì una tale falsità.
I sette giorni successivi furono un inferno. Gli inglesi continuarono a tornare ogni sera, ed ogni sera lei doveva sforzarsi di rimanere in loro compagnia. Si affrettò a chiedere perdono a Lucy non appena la vide, e la donna fu ben lieta di concederle una carezza sulla guancia ed un paio di commenti sulla sua fervida fantasia. Vlad, intanto, concentrava tutte le proprie attenzioni su Mina Harker, che dal canto suo sembrava più che lusingata da un corteggiamento così serrato, - d’altronde il vampiro aveva un fascino magnetico a cui era impossibile sottrarsi. Però, non appena era costretto a lasciar andare via la ragazza, la completa attenzione del suo creatore si spostava su di lei, non lasciandola neanche per un secondo. Sembrava avesse intuito le sue intenzioni verso Mina e la teneva d’occhio. Semplicemente.
Jelena sperava che la sua agonia sarebbe finita alla fine di quella settimana, ma quando Vlad le annunciò che i loro ospiti si sarebbero trattenuti qualche giorno in più si sentì crollare. Lasciò cadere il libro che stava leggendo e si rannicchiò sulla poltrona pregando che fosse tutto un incubo da cui si sarebbe svegliata molto presto.
- Vuoi dirmi che cosa c’è che non va?
- Quella donna, - gemette lei, - Te ne prego, Vlad, non la vedere più! Non riesco a sopportare il suo nome o la sua faccia, basta!
Lui parve sinceramente stupito di quella reazione, ma si sforzò di essere comprensivo. Le prese le mani e le girò il viso verso di sé.
- Hai paura che Mina ti rimpiazzi, non è così?
Lei aspettò qualche secondo, poi annuì.
- Lei è così bella, così ingenua e così… Tutte le cose che io non sono.
- Jelena, - rise lui, - figlia mia, pensi davvero che possa buttarti in un angolo dopo tutti questi secoli in cui mi sei stata vicino? E’ un’infatuazione, come sempre, concedimela. Dopotutto io ti ho lasciato il tuo Charles Baudelaire, no?
Malgrado avesse il sospetto già da un po’, Jelena trasalì.
- Nastàvnik, tu sapevi?
- Sei una ragazza intelligente, ma a volte ti sopravvaluti. Devi aver pensato che fossi cieco per non accorgermi di una cosa del genere. Dopo che stavi per trasformarlo in un vampiro, pensi di potermi giudicare per essermi incapricciato di una ragazza?
La bambina si morse il labbro, vergognandosi immensamente; lui aveva ragione su ogni fronte, e qualunque obiezione avesse sollevato sarebbe stata bruciata in partenza. Non avrebbe mai potuto vincere contro Vlad, mai.
- No, non posso farlo, - mormorò.
- Bene. Vieni, in questi giorni mi è arrivato qualcosa in regalo e vorrei mostrartelo.
Scesero insieme nei sotterranei, mano nella mano; lui non ebbe bisogno di usare torce per mostrarle la bara nera che troneggiava appoggiata ad una parete. Lei trattenne il fiato.
- E’ bellissima! Chi te l’ha mandata?
- Un piccolo regalo che mi sono fatto da solo, - ammise lui, - Prova a guardarla meglio.
Effettivamente, scolpite sul coperchio di mogano, c’erano delle strane lettere contorte che a prima vista non si notavano; Jelena dovette socchiudere gli occhi per leggere meglio.
- “L’uccello di Hermes è il mio nome, ho divorato le mie ali per diventare docile”. Che cosa significa, nastàvnik?
- Ti lascio il compito di scoprirlo, - rise lui, scoccandole un bacio sulla fronte, - Vuol dire che adesso hai una bara tutta per te. Ora non puoi più lamentarti se ti sferro delle gomitate mentre dormo.
Lei si sforzò di sorridergli, anche se si sentiva immensamente triste. Aveva l’impressione che la loro separazione fosse appena cominciata.

***

Aveva ragione.
Quando gli inglesi finalmente partirono, tra i singhiozzi appassionati di Lucy e la struggente malinconia di Mina, Vlad fu di malumore per settimane. Passò giornate intere chiuso nei sotterranei in sola compagnia della sua nuova bara a rimuginare su solo Dio sapeva cosa, e a nulla valsero gli sforzi di Jelena per tirarlo fuori da lì. Dovette dire agli ospiti abituali dire che suo padre era molto malato e non poteva dare feste ogni sera come al suo solito e si occupò lei dell’amministrazione della casa, con qualche difficoltà.
Alla fine, dopo due settimane di digiuno, Vlad riemerse dal suo isolamento; anche se visibilmente dimagrito e scarmigliato, aveva una luce di trionfo negli occhi.
- Vado a riprendermi Mina, - annunciò.
Jelena si lasciò sfuggire un grido e si aggrappò alla giacca di lui con tutta la forza che aveva.
- Nastàvnik, per l’amor del cielo, ritorna in te! Non puoi ridurti così per un’umana! Pensa alle conseguenze, pensa a tutto ciò che scatenerai quando la porterai qui!
- Ho già pensato a tutto, - ribatté seccamente lui, - Non ripetere cose che ho pensato già da me. Piuttosto renditi utile e vai ad informarti sulle navi dirette in Inghilterra dal porto di Varna il prima possibile. Devo trovare una nave.
Jelena non aveva mai pensato, neanche nei suoi incubi peggiori, che un giorno lui le avrebbe ordinato di “rendersi utile”; dopo le parole di quale settimana prima aveva sperato che, anche dopo aver conosciuto Mina Harker, le cose sarebbero tornate ad essere normali. Ed adesso Vlad stava già tirando fuori i suoi vestiti dall’armadio, la sua mente stava facendo mille calcoli per arrivare in Inghilterra il prima possibile, dove Mina lo avrebbe aspettato docile come un agnello sacrificale…
- Sei ancora qui?
- Scusate, mio signore. Adesso vado.
La parola “maestro” era per lei un nome affettuoso, una specie di titolo onorifico; adesso chiamarlo “signore” era un insulto.
Per la prima volta in più di tre secoli passati insieme lo odiò.

Lui partì con la nave Dimitri tre giorni dopo. Lei lo vide far caricare la sua bara in una carrozza con una scorta di zingari al seguito. Prima di chiudere la portiera lui si girò a guardarla, forse aspettandosi un cenno di saluto. Jelena non si mosse, perciò lui diede l’ordine di partire e di fare in fretta, perché fino a Varna c’era parecchia strada da fare.

Fu un malinconico ritorno alla vigilia del suo matrimonio mai celebrato.
Per associazione di idee la vampira tirò fuori anche il suo vestito da sposa, rimasto intatto per tutti quei secoli, tenendoselo sulle ginocchia e stropicciandone distrattamente il velo. Non aveva neanche la forza di leggere, solo di guardare solo le notti schiarire fuori dalla finestra tenendosi in grembo l’abito che aveva indosso quando era morta.
Non uscì più a cacciare, ed anche se la fame le tormentava le viscere e le lasciava appena energie sufficienti per distendersi nella bara vuota non si nutrì più. Furono le settimane peggiori della sua vita di immortale, seconde soltanto a quelle che avevano seguito la morte dell’amato Baudelaire.
Poi, un giorno, le arrivò una missiva da Vlad.
Le scriveva dall’Inghilterra. Non sprecava parole dicendole come fosse stato il viaggio o cose del genere, ma le chiedeva di essere a Nesebâr entro tre settimane. Jelena accolse quelle parole come una specie di benedizione.
Va bene, Mina non le piaceva, ma forse col tempo avrebbe imparato a conoscerla quanto la conosceva il suo nastàvnik, e forse anche ad apprezzarla. L’importante era che lui fosse sempre presente per farle da padre e maestro. Era anche disposta a sopportare Mina per l’eternità, per riaverlo vicino. Quando sarebbe tornato in Romania gliel’avrebbe detto e lui avrebbe sicuramente capito: non si conoscevano forse da centinaia di anni?
Dopo tre settimane, Jelena si trovava in una spoglia locanda di Nesebâr quando sentì arrivare la carrozza. Il primo impulso fu quello di correre alla finestra per controllare, e quando vide la polvere sollevata dai cavalli non seppe trattenere un sospiro di gioia. Si precipitò fuori e spalancò la porta della carrozza non appena questa si fermò, salendovi sopra. Tolse il coperchio dalla bara ancora chiusa e vide il suo maestro steso all’interno con gli occhi sbarrati.
Da solo. Senza Mina.
- Vlad! – urlò la ragazzina, abbracciandolo prima ancora che lui avesse il tempo di risvegliarsi completamente, - Stai bene? Dov’è Mina? Sei pallidissimo, da quanto non mangi? Aspetta, non dire niente, penso a tutto io, però esci dalla bara, dai…
- Uscirei se tu non mi impedissi di farlo, Jelena, - si lamentò lui, con un sorriso flebile. Lei si scostò subito e scese dalla carrozza per dare gli ultimi ordini agli zingari della scorta.
Il vampiro si lasciò cadere sulla sedia che lei aveva occupato fino a qualche minuto prima e si passò una mano sugli occhi. Anche se avesse avuto addosso degli abiti puliti e non quelli impolverati da viaggio che indossava, le sarebbe sempre sembrato più stanco di un millennio.
- Prima che tu me lo chieda, Mina non è qui, - cominciò, togliendo la mano e guardandola con occhi sbarrati, - Anche se in Inghilterra ho bevuto il suo sangue e lei ha bevuto il mio. E’ una vampira, ora.
Jelena dovette sedersi per non fargli vedere che le tremavano le ginocchia.
- Vlad…
- Fammi finire. Ho ucciso Lucy Westerna ed un’altra serie di persone che non conosci, e questo mi ha attirato addosso le ire dei suoi amici e di un certo impiccione olandese chiamato Van Helsing. Mi hanno teso una trappola a Varna e sono riuscito ad evitarla per poco. Domani ripartirò e tornerò al castello per via fluviale, li affronterò e li ucciderò uno per uno.
- Ripartiremo, Vlad, - lo corresse lei. Con orrore lo vide scuotere la testa.
- No. Rimani nascosta qui. E’ me che devono trovare.
- Nastàvnik, non dire assurdità. Io voglio venire con te.
- Non ho bisogno di una preoccupazione ulteriore oltre a quelle che ho già ora. Tu resterai qui, e questa è la mia ultima parola.
- Ma non la mia, - ribatté Jelena, alzandosi dal pavimento e portandosi davanti a lui, - Io voglio esserti vicino ovunque tu vada, da questo momento in poi. Sono tua figlia e ti devo la vita, e non potrei sopravvivere se ti accadesse qualcosa di male. Perciò vengo con te, e se devi affrontare quegli umani li affronterò anche io, come abbiamo vissuto assieme durante questi secoli.
Lui la guardò con la stessa meraviglia con cui l’aveva fissata secoli prima, quando lei gli aveva proposto di seguire il piano di Dio e di mostrarsi alla gente comune mascherandosi da esseri umani.
Stavolta, però, non c’era nessuna scintilla di speranza, solo una malinconia senza fine.
Jelena capì che lui era stanco di vivere. Che sperava di morire quando quel gruppo di umani lo avrebbe affrontato. Che il suo compito nel mondo era finito.
Ma no, maledizione, non glielo avrebbe permesso.
Aveva ancora bisogno di lui.
- Jelena.
Lei voleva dire qualcosa, ma ammutolì quando lui le accarezzò una guancia ed i capelli. Non era mai successo, in tutti quegli anni passati insieme. A volte l’aveva abbracciata e baciata sulla fronte, ma non aveva mai fatto un gesto del genere.
- Jelena, - ripeté lui, - Devo chiederti di bere il mio sangue. Questo scioglierà definitivamente il legame di creatore e creatura che ci lega e sarai libera di andare dove vorrai. Non dovrai più seguire i miei ordini ma farai ciò che la tua coscienza di vampira ti dirà. Devo essere sicuro che tu possa sopravvivere, nel caso le cose per me volgessero al peggio.
La bambina scosse la testa. Una sensazione molto simile al terrore le strinse la gola. Buon cielo, non poteva dire sul serio. Non dopo tutti quei secoli, non dopo quello che lei gli aveva detto…!
- No.
- Invece lo farai.
- Non puoi costringermi.
Un breve ghigno comparve sul viso di Vlad mentre si alzava in piedi.
- Vogliamo vedere?
Lei arretrò in direzione della porta, ma lui fu più veloce e riuscì a fermarla prima che fuggisse di sotto. Le prese i capelli sulla nuca e le rovesciò brutalmente la testa all’indietro, mentre si portava il braccio libero alla bocca e si mordeva il polso.
- Devi vivere, Jelena. Anche se io cado, tu non puoi farlo. E’ l’ultimo ordine che ti do come tuo maestro e signore. Bevi questo sangue e cammina sulle tue gambe, figlia mia. Per tutti i secoli di questa terra, finché non tornerò da te.
Lei cercò di divincolarsi, ma lui la teneva saldamente e non accennava a mollarla. Le stava facendo male, molto male. Jelena serrò la bocca quando sentì le prime gocce di sangue caderle sulle labbra e rotolare giù per il mento, lottando con ogni fibra di se stessa contro il desiderio di bere.
Vlad le tirò la testa indietro più forte e lei si lasciò sfuggire un gemito di dolore. Il sangue le scivolò in bocca, amaro e dolcissimo allo stesso tempo.
E fu la fine.

Lui se ne andò quella notte stessa, dopo averla lasciata inerte sul pavimento.
Lei, con l’odio che le ribolliva in corpo, attese che lui tornasse a riprenderla.
Non tornò.

Jelena rimase nascosta nel cimitero della città finché, una sera, non si trovò passare vicino ad una taverna. Mentre finiva di bere le ultime gocce di sangue dalla sua vittima, un trambusto particolarmente concitato all’interno della locanda la distrasse dal banchetto. Di solito c’erano schiamazzi del genere solo quando arrivava qualche notizia che valeva la pena di ascoltare.
A fare da Cicerone, quella volta, era un ometto rubicondo e dal viso allegro che lei identificò come uno straniero di passaggio; quella macchietta parlava con una velocità tale che si facevano fatica a distinguere le parole, ma quando udì un nome familiare la vampira rizzò le orecchie.
- …E Van Helsing è da poco ripartito per l’Inghilterra. E’ stata una dura lotta, me l’ha raccontata il dottore in persona, nel corpo del Conte c’era il diavolo, ve lo dico io! Il povero Quincey Morris è morto proprio appena prima di godersi la vittoria contro il demonio, pace all’anima sua… Ma ciò che è importante è che ora il diavolo non passeggia più indisturbato per le nostre terre, grazie alla venuta di quei coraggiosi e della bella Mina! Dracula è morto, la Romania ed il mondo intero possono finalmente stare in pace! Un brindisi, signori!
Si alzò un coro di giubilo da parte degli astanti che cominciarono a ridere, a raccontarsi le imprese del gruppetto che aveva sconfitto il malvagio signore di quelle terre e le malefatte che il Conte aveva sicuramente commesso. Jelena chiuse le orecchie a tutte quelle menzogne e corse al cimitero per poter piangere in pace la morte del suo signore.
Passò delle intere nottate sdraiata nel suo rifugio di fortuna, meditando di uccidersi con qualsiasi mezzo a sua disposizione. C’era il sole, c’era quella di fiume, c’erano gli umani a cui darsi in pasto, c’era l’argento… Eppure, ogni volta che tentava di mettere in pratica i suoi propositi suicidi, le pareva di sentire la voce di lui che le ordinava di vivere finché non sarebbe tornato. Dopo il quinto tentativo, Jelena capì che non avrebbe mai avuto la forza di disobbedire al suo ultimo ordine e lasciò perdere.
Ritornò in Francia e si recò in pellegrinaggio a Cherbourg, dove una volta Vlad aveva espresso il desiderio di recarsi. Rimase una notte intera a passeggiare sulla spiaggia ed ad inspirare l’odore di salsedine finché non si avvicinò il mattino; a quel punto prese il velo da sposa che teneva in mano e lo lasciò in balia del vento e dell’acqua marina.
- Abbiamo visto il mare assieme, nastàvnik.

Prese una nave e si recò in Inghilterra, dove cambiò il suo nome in Helena.
A Londra viveva una comunità sparuta di vampiri che si dimostrarono sorpresi dall’arrivo di un nuovo membro della loro razza; le mandarono un invito sotto forma di lettera e lei, per curiosità, decise di recarsi nella loro sede vicino al London Bridge.
Erano dieci individui, sei uomini e quattro donne, tutti vampirizzati sui vent’anni, ma il più vecchio non superava i cinquanta di età immortale; lanciarono grida sorprese quando se la videro comparire davanti, una bambina vestita come una bambola dell’età vittoriana. Le chiesero con cortesia se potevano toccarla, rimanendo stupiti da quanto la sua pelle fosse pallida e di quante fossero le storie che lei aveva da raccontare.
Lei accontentò quei neonati e raccontò loro tutto ciò che sapeva, anche se loro non si stancavano mai di sentir raccontare della vita di Baudelaire, della filosofia di Immanuel Kant e, soprattutto, delle vicende di Vlad Ţepeş, il Conte Dracula, il primo di tutti loro, lo sfortunato condottiero che non era mai riuscito ad attirare l’attenzione del suo Dio.
Quei vampiri furono la sua strana ma affettuosa piccola famiglia per più di mezzo secolo, e Helena passò con loro gli anni della Prima e Seconda Guerra Mondiale. Loro la aiutarono a trovarsi un appartamento tutto per sé dove raccogliere i suoi libri, le portarono per primi l’edizione fresca di stampa del libro di Bram Stoker e poi la condussero al cinema per guardare il Dracula con Bela Lugosi come protagonista.
Avrebbe potuto essere felice con i suoi nuovi compagni, se solo Vlad non fosse morto; lo pensava ogni notte prima di alzarsi dalla bara e subito prima di coricarsi dopo la caccia, e si stupiva come il tempo non riuscisse minimamente a lenire le sue ferite.
La sua vita immortale, anche se malinconica, era però sopportabile; o almeno lo fu finché i suoi fratelli vampiri cominciarono a morire uno dopo l’altro. Si cominciò a dire che esisteva un vampiro che serviva gli umani della casata degli Hellsing e che uccideva senza pietà i suoi simili: un killer infallibile al quale nessuno era riuscito a sfuggire. Ben presto spuntò anche il nome di quel traditore: Alucard.
Helena si sentì offesa nel profondo del cuore e giurò a se stessa che avrebbe trovato il vampiro che storpiava il nome ed infangava la memoria del suo antico maestro e lo avrebbe ammazzato con le sue mani; quel faccia a faccia avvenne molto prima di quanto volesse.
Una sera si trovava nel centro di Londra con uno dei pochi compagni superstiti quando percepì una presenza vampirica molto potente a poca distanza da loro: disse al suo compagno di fermarsi e rimase in ascolto, finché lui non entrò nel loro campo visivo. Oltre gli eccentrici abiti rossi, il cappello a tesa larga e la sciarpa che lo copriva fin sotto gli occhi, il vampiro sconosciuto non era nient’altro che Vlad.
La ragazzina, scossa dalla sorpresa, rimase imbambolata a guardarlo, dicendosi che non era possibile e che il suo antico maestro era morto, ucciso da Van Helsing: eppure lo sguardo era inconfondibilmente suo, non di altri. Qualcosa scattò dentro di lei quando lo vide estrarre una pistola dalla cintura e puntarla verso di loro; sentì la sicura che scattava e credette che il colpo l’avrebbe raggiunta ed uccisa. Invece fu il suo compagno a cadere, colpito da un proiettile d’argento in mezzo agli occhi ed uno al cuore.
Poi lui scomparve, lasciandola con il cadavere di uno dei suoi amici.
Ancora una volta l’aveva lasciata sola.

***

Helena cominciò a camminare verso la riva, tenendo leggermente sollevata la gonna affinché gli orli non cadessero per terra. Quando le avevano cucito il suo vestito da sposa avevano sbagliato di qualche centimetro le sue misure, sperando che col tempo sarebbe cresciuta in altezza. Peccato che fossero secoli che non si alzava di un millimetro.
Il fatto che l’abito fosse rimasto intatto per tutto quel tempo aveva un che di miracoloso, come se il bacio di sangue che lei aveva ricevuto avesse bloccato anche il deterioramento nel tempo del vestito. Perfino le macchie scarlatte sembravano state versate da non più di qualche ora.
La vampira si sedette sul pietrisco della riva, osservando il vicino Tamigi con aria indifferente. Si chiese quanto tempo avrebbe impiegato la sua pelle a sciogliersi, al contatto con l’acqua; sarebbe stato doloroso come esporsi ai raggi del sole oppure le avrebbe dato una morte veloce?
Sinceramente non sapeva cosa augurarsi. Voleva morire e basta.
Si sfilò le scarpe e fece qualche timido passo verso il fiume. Presto sarebbe stata l’alba, il cielo stava già cominciando a schiarirsi. L’avrebbe uccisa per prima la luce del sole oppure l’acqua del Tamigi?
Avanzò fino alle caviglie. Non appena aveva immerso i piedi ,aveva avuto la sensazione che mille piccole formiche infuocate le stessero salendo su per i polpacci, ma la sensazione era più fastidiosa che dolorosa; forse il dolore sarebbe venuto più tardi. Quando l’acqua le raggiunse le ginocchia, cominciò a sentire le prime fiammate di patimento,che le fecero stringere i denti. Non sarebbe certo morta se restava lì. Avrebbe sofferto e basta.
L’abito da sposa si stava impregnando d’acqua e stava diventando sempre più pesante. Helena cominciò a sentire odore di bruciato e scottature dove il fiume l’aveva raggiunta. Se si fosse buttata si sarebbe sciolta? Probabilmente sì, avrebbe finito più in fretta.
Si lasciò cadere a peso morto in avanti, attendendo che l’acqua le sbattesse sulla faccia. Il contatto non ci fu. Prima che potesse rendersi effettivamente conto di quello che stava succedendo, si trovò a nuotare nell’aria. Quando capì ,cominciò a scalciare furiosamente.
- Mettimi giù! Mettimi giù, maledizione!
Vlad, - Alucard, - continuò imperterrito a riportarla verso riva, tenendola in spalla come se fosse un pupazzo. La cosa era ciò che di più umiliante poteva esserci al mondo.
- Vergognati, Jelena. Molto teatrale e poco efficace, - commentò lui, uscendo dall’acqua e riappoggiandola per terra. Lei tentò di ritornare verso il fiume. La riprese senza alcuno sforzo e la trascinò lontano dalla riva.
- Ti ho detto di lasciarmi, Vlad!
- Se non altro ti vedo più infervorata del solito. Potresti sfruttare questa energia per fare qualcosa d’altro, invece che per litigare con me e tentare di ammazzarti.
- Lasciami andare!
- Smettila di urlare, ci sento benissimo. E comunque la risposta è no, quindi finiscila. Sai che ho sempre odiato qualcuno quando insiste troppo.
Le lasciò andare il braccio quando furono abbastanza lontani dal Tamigi. Helena si lasciò cadere per terra e si coprì la faccia con le mani.
- Fammi morire, nastàvnik, - mormorò, - Per amor del cielo, lasciami almeno morire…
Lui le si sedette vicino a gambe incrociate, incurante delle ustioni che gli avevano bruciato parte della gamba. Gli sarebbero passate presto.
- Io ti ho detto che dovevi vivere. Te l’ho ordinato, come tuo creatore, e tu sei tenuta ad obbedire.
- Ma io non voglio più vivere, Vlad, - rispose lei sconsolata, abbassando le mani, - I libri, la musica, che importanza hanno ora? Quando mi hanno detto che eri morto, ho pensato di suicidarmi, ma mi sono ricordata delle tue parole. Non sono riuscita a mettere fine alla mia vita immortale. Mi sono detta che dovevo continuare, perché tu mi hai ordinato di farlo. Ho cercato ciò che ti eri lasciato dietro, perché il ricordo che conservavo io non era abbastanza. Ogni città che abbiamo visto, ogni paese che abbiamo visitato, lo stesso mare che volevamo vedere mi ricordava che tu eri esistito. Ho provato a ricominciare a camminare raccogliendo tutti i frammenti di te che mi erano rimasti in mano, ho provato a trovare in qualcun altro la mia ragione immortale di vita… Ma non ce l’ho mai fatta. Hai avuto ragione su tutto, quando sei venuto a trovarmi l’altra sera. Sono morta io, prima di te. Perciò fammi concludere la mia agonia. Te ne prego.
Alucard rimase in silenzio. Alla fine si tolse il cappello e si passò una mano fra i capelli scurissimi, sospirando.
- Non ho mai capito perché ti ho creata, sai. Forse potrei dirti che mi eri sembrata una persona interessante, che mi avevi incuriosito abbastanza da voler vedere come sarebbe stato avere vicino una bambina vampiro… Ma dubito che sia una risposta sincera. Perciò, vediamo di sottolineare l’unica cosa di cui sono davvero sicuro. Partiamo dalla fine. Non voglio che tu muoia, Jelena. Non lo desidero. Voglio che tu faccia come hai sempre fatto, che tu rimanga a guardare l’umanità che crolla sotto la tua finestra e tu sia la lontana testimone di ciò che accade ma che non ti tocca. Basta che tu rimanga viva per osservare.
Helena trattenne il respiro. Non sentiva più il peso dell’abito inzuppato, nemmeno le piaghe che scottavano sulla pelle. Cercò una mano di lui e la strinse forte con entrambe le sue manine di bambina.
- Nastàvnik, - sussurrò, attendendo che lui la guardasse, - Mi hai detto di vivere finché non saresti tornato. Tornerai mai da me?
Alucard rise. Era un secolo che non sentiva la sua risata beffarda. Anche se sapeva che la risposta l’avrebbe uccisa, Helena per un attimo si sentì bene, leggera e tranquilla come quando non aveva paura del suo futuro. Come quando aspettava che Vlad tornasse dalla caccia per ascoltare le sue canzoni e parlare con lei di mille cose che li avrebbero tenuti svegli fino al sopraggiungere del mattino.
- No.
  
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