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Autore: TheNewFrontiersman    04/03/2015    1 recensioni
"«Ripulisco le strade».
«Come una specie di spazzino?». In effetti si addiceva al suo stile di vita e al suo aspetto malandato.
«Qualcosa del genere»."
(Prego leggere con voce di Jackie Earle Haley. Ottima interpretazione tra l'altro)
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Ciao ragazzi! Mentre lavoro a Ginger Ale vi posto una one shot sul primo "amore" (?) di Rorschach. Ormai il difficile compito di immaginarlo coinvolto in una relazione facendolo comunque risultare credibile pare essere diventata la mia missione! Purtroppo fallisco miseramente, ogni volta, quindi ho bisogno di critiche! Questa storiella è una "what if" basata sul prequel, Before Watchmen (il volumetto di Rorschach) e pertanto dovreste prima leggerlo, dato che è una fine alternativa a quella del fumetto!
Premetto che il prequel non mi è piaciuto, però ho trovato interessante il fatto che abbiano cercato di costruire l'inizio di un "rapporto con l'altro sesso" nel passato di Walter. La fine tuttavia mi ha soddisfatto ancora meno, perciò...eccovi la mia versione!
Buona lettura
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Rorschach/Walter Kovacs
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Red Roses
(ovvero "Painting roses with blood")

 

Una rosa. 

Fu la prima cosa che vidi quando aprii gli occhi appannati dal lungo sonno. 

E poi lui. Se ne stava seduto lì, di fronte a me, ad aspettare. 

Il lieve movimento che feci per segnalargli il mio risveglio bastò a ricordarmi cosa mi era successo e perché mi trovassi in ospedale. 

Le cicatrici mi dolevano con intensità e il sangue mi bruciava nelle vene.

«Walter…». 

Lo sussurrai, accorgendomi del fatto che non usavo più le corde vocali da un bel po'. Si era già accorto di me e mi guardava, ma rispose solo dopo che ebbi pronunciato il suo nome.

«Ciao». 

Conciso. Come al solito. "Come al solito" suonava bene dopo la mia brutta avventura, e nonostante il suo tipico aspetto malconcio e l'impenetrabilità del suo sguardo fui sollevata nel trovarlo lì a vegliarmi.

«Dov'eri finito, durante quel caos infernale…sei stato preso anche tu?». Un semplice blackout, ma pensandoci ora mi sembrava fosse arrivata l'apocalisse quel giorno.

«Preso, sì. Mi dispiace. Quando sono tornato non c'eri. Un passante che ha visto mi ha detto tutto»

«Stai bene ora?». Ero preoccupata. Non era il tipo che chiedeva aiuto, che consenziente si faceva portare in ospedale. Qualcosa mi suggeriva che avesse passato momenti peggiori dei miei, anche se ormai avevo capito che se gliel'avessi chiesto, avrebbe negato tutto con aria di sufficienza, come se non importasse. Come se non fosse poi chissà cosa. Qualcosa che a me sembrava un incubo…per lui doveva rappresentare la quotidianità. Mi vergognai un poco della mia debolezza.

Il solito verso simile ad un grugnito, che in questo caso significava "sì, sto bene", credo. 

«Non sono io ad essere bloccato in un letto d'ospedale». 

La sua solita voce troppo profonda e monotona…ma stavo iniziando a capire quando cercava di fare una battuta. Sorrisi per rassicurarlo. «Ora sto bene, davvero. Non c'era bisogno che mi portassi una rosa, anche se mi fa piacere. Costano».

 

Mi ricordai della volta che era entrato barcollante nella tavola calda in cui lavoravo dicendo che a casa era finito il cibo. Poi era svenuto sul tavolo, col sangue che gli inondava le labbra, e l'avevamo portato di corsa in ospedale, il mio capo ed io. 

Quel giorno aveva dato per scontato che gli avrei offerto da mangiare anche se non aveva nulla con cui pagarsi la cena. E aveva ragione. Mi conosceva. Mi aveva sempre incuriosito, quell'uomo misterioso. Quel visitatore assiduo. Il suo volto pareva nascondere una storia incredibile; brutta, forse. Mi domandai come avesse fatto a comprare la rosa, ma in effetti mi tornò alla mente il suo invito fatto quel giorno terribile: «Voglio offrirti la cena. Per ringraziarti. Ho i soldi» aveva detto sventolandomi davanti qualche dollaro. Credo fosse il suo modo per chiedermi di uscire. Goffo…e insolito, da parte sua. Molto insolito. Per questo avevo accettato. Mi venne voglia di conoscere la fonte del suo guadagno, perciò gli chiesi che lavoro facesse.

«Ripulisco le strade».

«Come una specie di spazzino?». In effetti si addiceva al suo stile di vita e al suo aspetto malandato.

«Qualcosa del genere».

«Capisco…». Mentre annuivo, tirò fuori dalla tasca della camicia una foto spiegazzata, tentò di aggiustarne la forma senza tuttavia avere successo e me la mostrò. Ritraeva il mio aggressore, colui che mi aveva lasciato tutte quelle cicatrici sparse per il corpo. Sussultai nel rivedere il suo volto e un fremito di paura mi scosse fin nel profondo.

«Non c'è da preoccuparsi. E' morto. Sono qui per dirtelo».

Mi sentii sollevata. Forse non avrei dovuto, dopotutto era morta una persona. Ma se ripensavo a tutto quello che aveva fatto…io ero sopravvissuta, si, ma molte altre ragazze erano morte per mano sua. Ripensandoci meglio, non c'era niente di umano in lui. E pensare che sembrava così…normale, educato, a modo. Invece, percepivo molta più umanità in quello strano essere che se ne stava lì, seduto a fianco del mio letto. Un uomo che forse aveva l'aspetto di un cane randagio e il comportamento di un sociopatico, ma che mi sembrava infinitamente più gentile. Sì, ero sicura che se anche quell'uomo avesse dovuto indossare una maschera, non sarebbe cambiato nulla, sarebbe stato come vedere il suo vero volto. Era trasandato, ma nel suo sguardo profondo potevo cogliere un coraggio oltre misura e una ferma risoluzione, fedeltà nei propri principi. Fedeltà nei confronti degli amici, se li avesse avuti…e forse li aveva, anche se mi dava l'idea di essere molto solo. Non sapevo spiegarmi il perché, ma nonostante la maggior parte delle volte l'avessi visto conciato piuttosto male, mi ispirava forza, fiducia e protezione.

Mi sorpresi a trovarlo affascinante. C'era qualcosa di bello in lui. Nel suo aspetto, perfino. Su quel volto malandato spiccavano due occhi di un blu abissale, rassicuranti pur se impenetrabili. Le lentiggini spruzzate come vernice sugli zigomi troppo evidenti sembravano trovarsi lì per sbaglio. 

Mi ero sempre chiesta come fosse possibile avere dei capelli così "rossi", ma i riflessi ambrati donavano loro un aspetto piuttosto naturale e attraente, anche se spesso avevo avuto modo di osservarli solo incrostati di sangue. 

Prima che iniziasse  ad incappare nelle risse dalle quali credevo arrivassero le sue ferite doveva aver avuto delle belle labbra, anche se adesso erano perennemente tagliate e talvolta gonfie per i pugni ricevuti.

Mi accorsi che lo stavo fissando da troppo tempo, in silenzio, e più tardi di quanto avrei dovuto mi resi conto che anche lui mi osservava. Come sempre d'altronde, con fermezza e senza un briciolo di malizia, semplicemente aspettando, lasciando spazio ai miei pensieri. Distolsi lo sguardo con imbarazzo ricordando ciò che avevo appena pensato e mi chiesi cosa pensasse lui, invece. Mi chiesi cosa pensasse di me. Mi dissi che era inutile, che forse non l’avrei mai saputo. Mi domandai se l’avrei più rivisto dopo quella visita e mi trovai rattristata dal pensiero che no, non avrebbe più avuto motivo di venire a trovarmi ora che sapeva che stavo bene, ora che mi aveva detto che il mio assalitore era morto. Forse per lui era stata solo una specie di missione. Solo un modo per dirmi grazie, in mancanza della cena. Un conto saldato. Un favore per un favore. Sperai che non fosse così e desiderai tornare presto a lavorare, avrei avuto più possibilità di rivederlo.

«Vado». Pronunciò la frase che temevo tanto. Mi sfuggì un lamento di cui mi vergognai subito e notai con un certo ritardo che la mia mano si era mossa da sola e ora stava cingendo il suo polso. La tolsi subito, in preda ad un fastidioso senso di disagio, anche perché lui la stava osservando con imprevedibile curiosità, o almeno così mi pareva di leggere nel suo solito sguardo che gli altri avrebbero definito “apatico”.

«Devo andare».

«Oh! Certo, scusa!» balbettai.

Mi voltò le spalle e si diresse verso la porta senza dire niente. Non diceva mai niente, quando se ne andava. I nostri clienti dicevano che era un individuo davvero maleducato, a comportarsi a quel modo; che lo viziavamo, che era il nostro gatto randagio. Probabilmente in effetti noi eravamo solo la sua fonte di cibo. Non credo tenesse particolarmente a noi, o amasse la nostra tavola calda. È che eravamo gli unici a dargli retta in tutta New York. 

Forse era qui solo perché sentiva di avere una specie di dovere nei miei confronti. Forse lo era anche quella volta. Lo era davvero, come aveva detto. Nulla che riguardasse il rapportarsi con una donna in un modo diverso dal solito gli era passato per la mente. Si, credevo proprio fosse stato tutto frutto della mia immaginazione. Nel pensarlo, mi colse una fitta allo stomaco, come di delusione.

«Ciao…». Pronunciai il mio saluto fin troppo tristemente mentre lo guardavo uscire dalla stanza nella quale ero costretta. Lo vidi dire qualcosa all’infermiera, che subito dopo entrò per il cambio quotidiano dei medicamenti e pensai che forse se n’era andato solo perché l’orario delle visite era finito. Lo sperai, più che altro, e maledissi la mia abitudine di crearmi troppe aspettative.

 

«Strano tipo, quello. Non dirmi che ci stai insieme! Mi sembra poco affidabile, sempre in giro con la faccia pesta e i vestiti stropicciati». L’infermiera era una pasciuta donna di colore che si faceva costantemente gli affari altrui e parlava sempre un po’ troppo per i miei gusti, ma non ce l’avevo con lei. Sapevo che diceva solo quello che la maggior parte della gente pensava di Walter.

«Sai, è venuto qua ogni giorno dopo il tuo ricovero» disse. «Ogni volta portava una rosa nuova e la sostituiva a quella sgualcita, alla quale prontamente recideva il gambo e che poi si ficcava nel taschino. Stava seduto qui per tutto l’orario delle visite e poi usciva così, con la vecchia rosa che rifletteva il suo aspetto malandato. Un triste pendant del suo abbigliamento. Forse si crede un gentiluomo. Che miseria. Una semplice rosa. Oggi però quella del giorno prima l’ha buttata via. Sempre più strambo, non mi piace quel tipo, ragazza. Stai attenta. Dio, dopo quello che ti è successo…non sarà stato lui!?». 

Non stavo più ascoltando ormai. Guardai nel cestino dei rifiuti e vidi una rosa appassita, il gambo spezzato. 

Sorrisi pensando che forse non voleva farsi vedere da me con una rosa infilata nella camicia. Sorrisi, felice di essere venuta a conoscenza di quello strano rituale. 

Sorrisi, fantasticando sul fatto che forse, in fondo, a lui di me importava qualcosa.

Il giorno dopo fui dimessa dall’ospedale e tornai subito al lavoro nonostante le proteste del mio capo, deciso a darmi qualche giorno di riposo pagato per riprendermi dagli “orribili fatti nei quali ero stata coinvolta”. 

Verso le dieci, un paio di vecchie scarpe logore varcava la porta della tavola calda. Passi conosciuti, passi familiari. Sentivo una stupida felicità adolescenziale crescere nel mio petto.

«Ehi, chi si rivede!» salutò il mio capo. Per tutta risposta il rosso si limitò ad annuire col capo, andandosi a sedere ad un tavolo in un angolo del locale. Piacevolmente silenzioso, come sempre. L’uomo misterioso era tornato, e con lui la mia tranquillità.

Allora non sapevo chi fosse. Forse se l’avessi saputo avrei evitato di innamorarmi di lui.

Iniziammo a vederci, a volte, nei fine settimana. Ovviamente l’iniziativa era sempre mia, Walter aveva qualche problema a gestire le relazioni con altri esseri umani. E poi era schietto. Per questo la gente lo odiava a morte. Schietto e sorprendentemente sarcastico…ma nelle situazioni sbagliate. 

«Scucito».

«Come scusa?».

«Il vestito. Scucito. L’orlo. Posso ripararlo. So come fare»

Scoprii che da giovane aveva lavorato in un’azienda tessile. Sorprendente, non l’avrei mai detto. Fece un ottimo lavoro con l’orlo e mai una volta si soffermò a guardare le mie gambe. Eravamo vicini, un uomo e una donna soli nello stesso striminzito appartamento, eppure lui era concentrato a svolgere il suo compito.

«Hai mai avuto una ragazza?»

«Ragazza? No».

«Oh. Non é che sei…?».

Un'espressione stranissima si dipinse sul suo volto: sembrava profondamente offeso da quello che stavo insinuando, ma non avrei mai pensato di vedergli quel tipo di smorfia sulla faccia. 

Era un broncio, come quello che si sfoggia da bambini quando non si ottiene qualcosa di ardentemente desiderato, e stonava coi suoi lineamenti duri, tagliati con l'accetta.

«Scusami. Non volevo sembrare scortese»

Il suo solito grugnito. «Non importa. Domanda legittima. So di non essere il tipo di persona che manifesta quel genere di interessi»

Era vero. Non ho mai capito cosa gli passasse per la testa. In ogni caso il discorso finì lì quel giorno, gli offrii un tè che non toccò affatto, poi se ne andò, intascandosi tutte le zollette di zucchero che gli avevo offerto per la bevanda.

Successivamente però dev'essersi sentito in colpa perché la volta dopo si presentò con un mazzetto di margherite, che poggiò sul tavolo della cucina. 

«Raccolte qui dietro. Spero non ti spiaccia».

Sorrisi. «Sono bellissime, grazie».

I nostri pomeriggi insieme, che comunque non capitavano spesso a causa dei suoi “impegni segreti”, passavano con lui seduto al tavolo a scrivere e io sul divano a leggere. Mantenevo sempre una certa distanza, sapendo che l’avrei disturbato se mi fossi lasciata sfuggire la curiosità che mi tartassava la mente. Una sola volta gli chiesi cosa scrivesse sempre in quel diario che gli era tanto caro. Mi rispose «Appunti, memorie». Nient’altro. Così lasciai perdere. Scriveva spesso. Interessante. Inaspettato. Di nuovo sorprendente. 

Mi piacevano quei momenti. Ci facevamo compagnia a modo nostro.

Sono stata con lui solo una volta “in quel modo”. 

Stavo pulendo un bicchiere quando mi cadde rompendosi in mille pezzi che mi tagliarono le dita. Mi prese le mani per fermare il sangue, con aria da rimprovero. 

Non m'importava che mi pensasse stupida, era la prima volta che le nostre mani si sfioravano. Un’espressione stupita si dipinse sul mio volto, non riuscivo a smettere di guardarlo. Se ne accorse, mi guardò. 

I nostri sguardi si incrociarono. Lo baciai d’istinto. Forse l’avevo colto troppo di sorpresa perché si tirasse indietro. Affondai dolcemente le dita dell’altra mano nei suoi capelli. Passo falso, si ritrasse subito confuso da quel gesto. Fu goffo all’inizio. Scoprii dopo il motivo della sua titubanza. Brutta infanzia, la madre era una prostituta, cattivo rapporto col sesso.

Per un periodo fu così occupato dalle sue “indagini”, come le chiamava lui, che non ci vedemmo più. 

 

Fu proprio in quel periodo che accadde.

Undici di sera, tornavo a casa dopo il lavoro. Un tipo mi si avvicinò facendomi delle avance che naturalmente rifiutai. 

Mi piantò un coltello nello stomaco. 

Questa volta non c’erano le sue mani a fermare il sangue. Mi accasciai sull’asfalto, urlando. La testa mi girava. Scorsi la sagoma dell’uomo che alzava nuovamente il coltello, pronto a colpire. Poi, con un tonfo, lo vidi rovinare a terra, gli occhi riversi all’indietro, privo di vita. Un’altra sagoma indistinta mi si avvicinò. Ero troppo debole per gridare ancora, era finita. Riuscii a mettere a fuoco solo delle macchie indistinte prima di chiudere gli occhi rassegnata. Macchie nere, che si muovevano lente su un viso bianco; ero davvero arrivata alla frutta, pensai. 

Mi sentii sollevare da terra. 

L’uomo delle macchie mi stava aiutando? 

Riaprii gli occhi un’ultima volta, a fatica. Era una maschera, quel volto. 

Mi pareva si chiamasse Rorschach, uno di quei giustizieri mascherati che andavano tanto di moda in quel periodo. La gente lo considerava un violento, però.

D'un tratto, una voce familiare. 

«Devi respirare piano».

Sembrava la sua.

La pelle dello sconosciuto profumava di nostalgia. Un ricordo chiaro, anche se un altro odore acre e pungente, derivante probabilmente dagli abiti, lo rendeva confuso.

 

Si toglieva la maschera, ma io non riuscivo più a tenere aperti gli occhi.

 

Vidi il suo volto troppo sfocato per essere riconosciuto. Ma ormai avevo capito. 

Non avevo bisogno di vedere.

Sentii le sue mani premermi il tessuto della maschera sulla ferita. Mi lasciai sfuggire un debole gemito di dolore. 

 

Ero davvero stanca. 

«NO. No, no, no!»

 

Una goccia tiepida cadde sul mio viso.

 

Chiusi gli occhi per sempre.

   
 
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