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Autore: Merryweather616    10/12/2008    4 recensioni
Una risata da porcospino con l’influenza. Una risata per cui sarei morta e risorta, anni e anni dopo. Ma per quel periodo, mi limitai a scodinzolargli dietro, aveva deciso che potevamo essere amici. Thankyouverymuch.
Genere: Romantico, Commedia, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ville Valo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Do you have the time?”

Do you have the time
To listen to me whine
About nothing and everything
All at once
I am one of those
Melodramatic fools
Neurotic to the bone
No doubt about it

          “Do you have the time, to listen to me whine?”

Dovevo dargliene conto, il suo letto, per saltare, era decisamente comodo.

Anche io, eccelsa violinista e goth convinta, a volte avevo le mie ricadute.

Impianto stereo Bose, casse ovunque, dolby surround da sollevare un cavallo. Come non salire sul morbido piumino e iniziare a saltellare cantando a squarciagola?

Scendevo e risalivo, mi spingevo sempre più in alto. E gli porgevo le mani.

“Allora, hai tempo per me?”

Il mio adorabile migliore amico, detestabile con il resto del mondo, con me, un fratello. Con i suoi glaciali occhi verdi, e un fisico che rasentava l’anoressia, era perfetto. Un uomo, un mito.

“Sempre”

Ville Hermanni Valo, signori. Niente di meno.

E io chi ero?

Me lo chiedevo spesso.

Per certi ero Kylli Vuori.

Per altri, la sorella di Jussi.

Per il mondo, ero Vuori, violinista di un talento mai visto.

Per il mondo del rock, ero la protetta degli Apocalyptica, la compagna di spese di Jonne Aaron, la ragazza da odiare, la migliore amica di Ville Valo.

Troppe cose, non trovate? Ero così tanto, da sentirmi un buco nero. Un piatto di diamante dove tutti si riflettevano e vedevano ciò che a loro sembrasse più consono.

La grandissima musicista, la ragazza timida e boriosa, la simpatica amica.

Ma io, cazzo, io davvero non sapevo chi fossi. Same old story, babe. Come mi diceva lui, quelle rare sere che non era in tour e gli cucinavo la cena. Le rare sere in cui, dopo anni, tornavamo a essere la matricola appena entrata al conservatorio di musica classica, e il metallaro-wannabe, dai capelli troppo boccolosi e dai denti separati, che parlava come se fosse l’ultima volta che avrebbe usato le corde vocali, che cantava come se ti stesse facendo venire. E io lo guardavo con astio, io ero timida, lui era timido, eravamo fatti l’uno per altro, eppure non era intenzionato a far venire me, ma piuttosto stava da solo.

Avevo 14 anni e lui 18.

Lo presi, un giorno come tanti, un 22 novembre di 14 anni prima. Lo portai vicino agli armadietti, dopo la fine delle lezioni e feci del mio meglio per sembrare provocante.

Mi rise in faccia.

MI RISE IN FACCIA!

Una risata da porcospino con l’influenza. Una risata per cui sarei morta e risorta, anni e anni dopo. Ma per quel periodo, mi limitai a scodinzolargli dietro, aveva deciso che potevamo essere amici. Thankyouverymuch.

Questa grande concessione, mi portò nel circolo di quelle che ora come ora sono le divinità del rock finlandese.

A 18 anni conoscevo tutti.

Sapevo di Holopainen, e del suo non poi tanto nascosto amore per i peluche. Ogni volta che mi chiedeva di sviolinare qualcosa per uno dei suoi album, me ne regalava uno. Pinguini neri, erano quelli che preferivo.

Andavo con Jonne, più piccolo di me di qualche anno, a fare shopping in centro. Percorrevamo Aleksanderinkatu insieme, lui, bardato, un procione freddoloso. Io compravo roba nera e non troppo vellutosa, e lui affondava la bionda chioma tra tutto ciò che c’era di rosa e caramelloso. Era come vedere un bastoncino affondare nello zucchero filato, quello buonissimo, bellissimo e soprattutto rosa che hanno alle fiere, davanti alla tua giostra preferita. Quello che quando lo mangi, ti senti felice. Jonne era così, era la mia caramella, il mio zucchero, mi teneva saldamente su una nuvoletta in paradiso.

E poi c’era mio fratello.

Jussi.

Vampirone con la matita nera. Avevamo 8 anni di differenza. Io ero territorio da proteggere, tranne che dal suo amico, Ville. Li avevo presentati io, anni e anni prima. Da quel giorno aveva sempre cercato di sistemarmi con lui. Con scarsi risultati oserei dire. Anzi, fallimento su tutta la linea.

Sì dai Ville, fai contento il tuo amico, fammi tua. E lui, nisba. Io ero la sua sorellina, la sua prima fan girl, la prima che gli era saltata addosso, prima ancora che il mondo si accorgesse che un finlandese magro e incazzoso potesse essere qualcosa di simile a un semidio.

Erano passati esattamente 14 anni. Erano passate Susanna e Jonna. Erano passati Pertti e Mathias dal mio fronte. Io mi ero rosa ogni singola unghia dalla gelosia. Lui era diventato amico dei miei uomini. Li aveva accolti nella sua cerchia, li aveva fatti divertire. Li aveva convinti che fossi perfetta.

Per loro. Non per lui.

E avevo ventotto anni. Stavo ammuffendo. Suonavo il violino da dio, e allora?

Io volevo il mio dio. Volevo entrare nella sua orbita. Non volevo essere la cocca di tutti, non volevo avere tutto senza avere nulla.

Era il suo compleanno. Sotto c’era una piccola folla di amici e parenti riuniti.

Io ero corsa sopra a rubarmi una delle stecche di sigarette che teneva nascoste nell’armadio. Avevo aperto lo stereo, collegato il mio ipod e deciso che era il momento di farlo. Ogni anno, il giorno del suo compleanno, ci provavo.

I Green Day riempivano la stanza. E io saltavo.

E lui entrò.

“Salta con me” gli dissi porgendogli la mano.

Ogni santissimo anno si ripeteva questa scena, ogni 22 novembre da 13 anni.  Ero solo un pizzico cocciuta. Solo un po’. Quel che bastava perché prima o poi avrebbe capito.

Volevo averlo dentro di me, non intorno a me.

Ero grande per avere qualcuno che si prendesse cura di me. Grande per un amico che volevo disperatamente nel mio letto ma non potevo averlo. Grande per essere disperatamente innamorata di una rock star.

Mi fermai.  Mi sedetti.

Lui, fermo, mi fissava. Prese il telecomando dello stereo e spense la musica.

“Ti ricordi di quel giorno, eravamo ancora a scuola” iniziò.

“Non c’è bisogno, Ville. Sono quattordici anni che ripetiamo quel giorno e quattordici anni che io per te sono una sorella. Non rivanghiamo vecchie memorie.”

Finto astio. Finta rabbia.

Dentro sbrillucicavo come Trilli. Plin di qua, plin di là.

Lui seduto ora.

Io in piedi, fuori dal letto.

Eravamo alti uguali in quel momento. “Quest’anno lo faccio solo per pro-forma, sappilo” gli dissi. Avvicinandomi. Con. Molta. Calma.

Una mano a toccare la spalla sinistra. L’altra mano a sfiorare la guancia pallida.

“Mangi troppo poco, sai?”

Same old story, babe” rispose, sfiorando la mia mano con una carezza.

Fece per spostarsi. Per spostare me. Ancora. Per la dannatissima quattordicesima volta.

Smisi di brillare. Smisi di canticchiare un jingle allegro tra me e me. Il black metal faceva al mio caso in quel momento.

“Sei troppo. Kylli, sei troppo per me”

Troppo? TROPPO?!

“Non mi guardare così, non ci provare. Cazzo.” Urlai. Ero timida, certo.

Un enigma, non un uomo normale. Avevo passato quattordici anni appresso ad uno che mi considerava troppo. Troppo!

Come se già non avessi troppi, decisamente troppi problemi di mio.

Gli presi una ciocca di capelli e me la strinsi tra le mani. Si fece trascinare morbidamente in avanti, fino a che occhi contro occhi ci preparavamo allo scontro finale.

“Io sono quel che sono, scricciolo. Sono lunatico e stronzo. Ma lo sai, e tutto sei ogni cosa. Sei tutto ciò che c’è intorno a me. Ovunque io vada, tu ci sei. Chiunque io incontri, vedo te. Sei il passato, il presente e a buona ragione, tutto il mio futuro.”

Ero scioccata.

Di cosa cazzo stava parlando?

“Fammi finire”. Certo, ora leggimi anche nel pensiero. Un applauso.

“Magari vorrai sapere perché per quattordici anni ti ho detto no”.

Il mio piede batteva insistente sul caldo parquet. Le labbra si distendevano in un involontario sorriso. Una calda lucina ricominciava a brillare.

“Tu sei troppo, e io non ero quasi nulla. Lo so, è una misera, stupida, banale scusa. Lo so. Potrei inventare qualcosa di decisamente più poetico e decandente, potevo dedicarti una canzone, fare una conferenza stampa, farmi l’ennesimo tatuaggio in tuo onore.”

Tsk. Che uomo teatrale.

“Uomini” borbottai.

Perlomeno aveva abbassato le difese. A ricostruire il castello ci avremmo pensato dopo, per adesso mi sarei limitata a tirare via le mura e far alzare il ponte levatoio.

Un signor ponte levatoio oserei dire.

“Ora sei abbastanza?” gli chiesi piazzando una mano sul cavallo dei pantaloni e issandomi sul letto.

“Questo me lo devi dire tu!”

“Magari parliamo dopo, è solo quattordici anni che aspetto”.

Avrei avuto tempo per sciogliermi al sole. Per piangere lacrime di gioia. Per saltellare felice sui monti con Annette. Per andare in giro sorridendo come un ebete. Per coccolarlo davanti ad un camino acceso. Per vantarmi a spasso.

Avrei avuto tempo per tutto.

Dopo.

Ora era mio.

Io ero una donna. Per una volta non ero la talentuosa violinista, la migliore amica, la groupie.

Ero la sua donna. E non aspettavo altro che di essere reclamata.

 

Perché esistono tutti i taboo sul piacere femminile, perché veniamo sempre descritte come sospiranti, in preda al piacere, svenevoli o affini? Perché non diciamo le cose come stanno?

Il piacere è una roba complessa. Non basta un tocco leggero su una spalla per iniziare a ululare e venire. Né con un casto bacio si può essere totalmente soddisfatti.

Ville Valo era Ville Valo, e per quanto una sua carezza era decisamente piacevole, non nego che quando le sue lunghe dita iniziarono a giocare con i miei capezzoli, prontamente denudati, le carezze, come dire, furono presto dimenticate.

Per non parlare delle mie mani, erano abituate alle dure corde di violino, ma se la cavavano egregiamente con tutto il resto delle cose dure. Tieni la nota, rilascia la corda, accarezza il violino, fanne una parte di te.

Dio, quanto stavo amando baciare quel violino.

Lucido, levigato, perfetto, unico.

E la mia viola, come non parlare del bacio della viola. Se le labbra avevano molto gradito il tocco delle labbra amiche, morbide e delicate, feroci e attese, la viola, andò oltre. La viola ringrazia sentitamente le labbra amiche. Non è più la stessa ora.

Due timbri. Due note insieme.

Le nostre voci.

Un climax congiunto.

Il suo violino e la sua viola in un unico strumento.

Eravamo un orchestra eccitante, non c’è che dire.

Pochi ma buoni.

 

 

 

  
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