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Autore: HeavenIsInYourEyes    07/03/2015    6 recensioni
Ci sono scene in cui si ributterebbe per riviverle in ogni minimo dettaglio, senza spostare neppure una virgola; altre vorrebbe cancellarle, modificarle, rispondere "Ma" anziché "Beh", dire "Sì" invece di "No".
Mitsui continua a chiedersi cosa sarebbe successo se non avesse abbandonato il basket, se, se… Ne è talmente schiacciato da sentire l’aria mancare e più ci pensa, meno riesce a trovare una via d’uscita.
Ed è così che si sente anche quando apre la porta della palestra; poco, è solo uno spiraglio ma gli basta per sentire la testa girare, il cuore pulsare e tutto il resto farsi effimero.
Il suo "se" più grande se ne sta lì, trasportata dalla musica e leggera come l’aria.
Shibahime è… Da dove può cominciare per descriverla?
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akira Sendoh, Hisashi Mitsui, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Prologo

Pubblicare su un fandom nuovo mi mette sempre una paura boia, credo sarà una cosa che non mi toglierò mai (no, nemmeno se Pablo Neruda comparisse in sogno solo per dirmi: e pubblicala!).
Vaneggiamenti a parte... Wow. Slam Dunk è il primissimo fandom che ho silenziosamente frequentato da quando ho scoperto EFP e riuscire a postare una fan fiction mi sembra quasi la realizzazione di un sogno.
Questa ha più di due anni. No, non sto scherzando. È abbastanza banale, forse piena di cliché ma è la boccata d’aria che mi serve. Spero che con il procedere della storia non saltino fuori scene/situazioni già riprese in altre fan fiction. Sarebbe alquanto imbarazzante…
Detto questo, lascio alcuni punticini che ai fini della storia non servono a nulla ma mi premeva scriverli (volendo potete saltarli o premere sulla X rossa, se non lo avete già fatto xD):

  • Per quanto sia una fan dello Yaoi (e Slam Dunk è un terreno fertile), ho deciso di cimentarmi in una het perché mi sento più a mio agio a scriverne. Lo Yaoi per me resterà sempre quel momento in cui ti passano un joystick, magari mentre si fa una maratona di Zelda e ti trovi a rispondere: no grazie, preferisco guardare.
  • Sono prolissa. Quando distribuivano la capacità di sintesi, ero a letto a dormire abbracciata alla pigrizia. Ho cercato di stringare il più possibile ma se dovesse darvi noia la lunghezza dei capitoli fatemelo pure notare :) 
  •  Mi sono concentrata più sulla psicologia dei protagonisti che sulle scene effettive, questo perché la story-line segue fedelmente il manga; per fare un esempio, tutti sanno sicuramente come si è svolta la scena del pestaggio in palestra (insomma, quei momenti belli in cui Inoue ti schiaffa un Mitsui col taglio alla Renato Zero e poi sbam!, addio ovaie), non avrebbe quindi avuto senso che descrivessi la scena nel dettaglio.
  • I dialoghi sono… Ngh. Avete presente le cose in stile “Robe… Robe a caso”? Ecco, diciamo che a volte sembrano botte e risposte messe lì tanto per, anche se in realtà è stato fatto solo per un mio gusto personale. A mia discolpa posso dire che quando la scrissi ero nel mio periodo Tarantiniano (Oh, Quentin ) e diciamo che Le Iene mi ha abbastanza influenzata.
  •  Il Prologo è quanto di più inutile e noioso esista sulla faccia di tutto Efp. Purtroppo non sono granché brava con gli incipit e avevo voglia di qualcosa che non partisse nel presente, con l’introduzione di ogni singolo personaggio. Vedetelo come un capitolo di transizione. Mi sto scavando la fossa da sola, praticamente :/
  • Mo chùisle è un termine gaelico irlandese preso dalla frase “A chùisle mo chroí” che tradotta verrebbe dire “Il battito del mio cuore”. Ringrazio Clint Eastwood e il suo Million Dollar Baby per avermi fatto scoprire una tale bellezza.


Direi che è tutto. Non mi resta che augurarvi una buona lettura


 

«Non aprite agli estranei, non mandate a fuoco la casa e non--»
«Non bevete la candeggina, lo sappiamo.» Akira sorride assonnato.
«E non mangiate sul divano, sappiamo anche questo.» seguita Shibahime, giocherellando con la punta della lunga coda laterale. Alla luce del sole, i suoi capelli corvini freschi di tinta sono colorati da venature bluastre che risaltano il suo incarnato pallido. Akira nasconde un sorriso dietro il palmo della mano; sembra quasi una di loro.
Madoka è tutta trafelata, tartassa Kyosuke Sendoh di continui «Hai preso tutto? Ho preso tutto? Abbiamo preso tutto?» che si perdono con la risata svagata dell’uomo.
«Oh, andiamo tesoro, se hai dimenticato qualcosa lo compreremo là!» si avvia verso la macchina con le valigie, lasciandola a tamburellare la scarpa col tacco cinque.
«Ehi, puoi sempre abbandonarla al primo scalo.»
«O puoi buttarla giù dall’aereo.»
«Vedo che il senso dell’umorismo lo avete anche appena svegli» li interrompe la madre, guardandoli poi con un sorriso enorme «Mi mancherete molto, lo sapete?»
«Andiamo, staremo via solo qualche mese.» si intromette il marito, abbracciando Shibahime.
«Papà, hai la barba che punge.» si lagna la ragazza sotto le risate dell’uomo.
Akira si volta verso sua madre, ora con le braccia aperte «Tesoro mio, se non ti abbassi mi spieghi come faccio ad abbracciarti?» Akira ride scanzonato sotto gli sbuffi di sua madre.
«Akira, ricordati di svegliarti.»
«Shiba, ricordati di mangiare.»
«Sì, sì.» belano in coro, sventolando le mani.
Se ne vanno qualche minuto dopo, lasciando loro un sacco di raccomandazioni, numeri di telefono da chiamare in caso di bisogno e una moltitudine di Vi voglio bene che non saranno più sprecati d’ora in poi.
Shiba sbadiglia sonoramente, si dondola su e giù sul bordo della veranda.
«Mh, quindi siamo rimasti noi due.»
Akira si massaggia il mento «Già…» scappa di corsa «Il telecomando è mio!»
«Mh?! Ma—No, ehi!»

Mo chùisle


Prologo
(In quattro non si sta così male)

“Beh, siamo tutti pieni di ferite. Ce le portiamo dietro per tutta la vita e alla fine, ci uccidono.
Succede che lasciano un segno nello spazio. Nel tempo. In noi.” 

                                                -The Will [1.02], Six feet under-

 

Sendoh conosce Shibahime un mattino d’inverno, quando la neve non fiocca più e suo padre ha smesso di imprecare perché fa troppo freddo. Sua madre ride spensierata aggrappandoglisi al braccio, la mano libera stringe invece la sua, piccola e guantata; c’è una saldezza che non le riconosce, come se avesse il timore di vederselo scappare da un momento all’altro.
Ed è ciò che Akira vorrebbe fare.
Madoka lo ha svegliato con un’ora di anticipo e canticchiando lo ha vestito di tutto punto. Lei non canticchia mai, lo fa solo quando nonna Izumi se ne torna a casa o quando papà la porta fuori a cena in quel ristorantino in centro che le piace tanto.
Eppure è sempre felice, ultimamente.
Irradia ogni angolo di casa con i suoi sorrisi, le sue canzoni stonate e le lacrime fra le risate. Ricorda ancora di averla vista piangere mentre puliva la stanza degli ospiti, quella sempre chiusa con la carta da parati a fiori blu e gialli e al suo preoccupato «Mamma, che cos’hai?» lei gli ha detto che era solo felice.
Akira non ha ben compreso, continua a dirsi che se una persona è felice non può piangere. A lui capita quando perde una partita contro Koshino o quando si sbuccia le ginocchia perché scivola sul campetto da basket dietro casa. Ma quando segna un punto, quando suo padre lo porta in spalletta come se fosse un campione dell’NBA, ride di cuore.
E poi gli è tutto più chiaro.
È durante un soleggiato pomeriggio di primavera che sua madre lo accoglie sulla veranda di casa, con i suoi grandi occhi scuri tutti rossi e un foglio stretto fra le mani rovinate dai lavori in giardino. Akira è rimasto interdetto nel vederla fremere -assomiglia alla minuta Shizuka, quella che si agita sulla sedia quando le maestre riconsegnano i compiti corretti- e prima che possa chiederle perché sia così strana, Madoka ha aperto le braccia e dopo averlo stretto in una morsa delicata gli ha sussurrato un tremante «Presto avrai una fratellino, non sei contento?» che lo indispettisce.
Pensa che in tre si sta bene. E che sua madre, grossa come un’enorme mongolfiera, non sarà più bella come continuano a ripetergli i suoi amichetti.
I giorni passano fra chiamate ad amici e parenti, canzoni canticchiate per i corridoi e sempre più sporadici «Alza di più le braccia quando tiri, altrimenti non centrerai mai il canestro.» che suo padre era solito rivolgergli quando tornava da lavoro. Ora corre in casa, lo saluta di sfuggita, è sempre chino su carte da firmare mentre sua madre galleggia su di un’invisibile nuvola rosa.
Si curano poco di lui e dei suoi capricci, tanto che ha smesso di lagnarsi per ogni piccola cosa. Si prepara lo zaino da solo, non chiede più aiuto a Kyosuke per i compiti di inglese e smette di chiedere a sua madre di fare il tifo per lui mentre sconfigge Michael Jordan immaginari, nel campetto sul retro.
A volte vengono degli strani Man in Black, fanno domande su domande e scribacchiano qualcosa su enormi quaderni neri e Akira, che assiste a tutto quello stringendo la gonna della mamma, continua a chiedersi dove lo abbia nascosto il fratellino perché è ancora magra come due mesi prima.
Ichigo della terza sezione G ha raccontato a tutti che presto avrà una sorellina e la pancia di sua madre lievita giorno dopo giorno, come le torte di mele che la nonna sforna quando la vanno a trovare. 
Una sera ha chiesto a Madoka, mentre lo accompagnava a letto e gli rimboccava le coperte, dove lo tenesse nascosto perché aveva cercato dappertutto ma non era riuscito a trovarlo. Le ha addirittura sollevato il maglione, tastandole il ventre piatto e lei ha riso di cuore. Ha scosso la nuca e gli ha scompigliato i capelli scuri «Non nascerà come sei nato tu. Saremo noi a doverlo andare a prendere.»
«A prendere?»
Fa ciondolare la nuca «Hai presente quando vai con papà a comprare le caramelle? Ecco, noi faremo così. Andremo in questo posto e prenderemo un bambino.»
Akira non capisce, non fa domande.
Cade in un sonno agitato e sogna bambini vestiti come enormi caramelle che urlano, chiusi in gabbie di plastica.
Spera che non prendano i bambini vestiti da Coca cola frizzantine.
Akira le odia. 

«Porca miseria!»
Si ridesta quando sua madre rischia di scivolare e avverte freddo quando la sua presa gli sfugge.
Li segue in religioso silenzio su degli scalini ghiacciati e gli pare che il negozio che vende bambini sia più simile ad una chiesa che ad un negozio vero e proprio. Ha i muri scrostati e un’insegna fatta in legno che pende sulle loro teste.

Orfanotrofio Sacro Cuore, legge silenziosamente, storcendo il naso quando vede una suora aprire loro la porta. Sembra un pinguino, ad Akira non piacciono i pinguini; sono sempre impettiti e quando scivolano in acqua vengono mangiati dalle orche. Almeno, così c’è scritto nel libro sugli animali che gli hanno regalato a Natale.
Ci sono scambi di convenevoli che non segue, troppo impegnato a crogiolarsi nel chiacchiericcio che proviene da ogni stanza che si getta sul lungo corridoio. Ci sono un mucchio di scarpe e giacconi appesi sugli appendiabiti all’ingresso, che si estende per quasi un’intera parete.
Madoka gli ha ristretto la mano e Akira smette di interessarsi al mondo che lo circonda. 
Ci sono un sacco di bambini che corrono in giro sotto gli sguardi severi delle suore, scappano come topolini che non vogliono farsi prendere dal gatto e quando vengono acciuffati, sghignazzano o mettono il broncio.
Akira corruga la fronte. Non sono vestiti come caramelle.
La donna in tailleur che li sta accompagnando in questa specie di zoo, affiancata dal pinguino, si ferma davanti ad un’altra sala gremita di bambine che starnazzano, giocano con le bambole o ridono per sciocchezze. Lui non le capisce, le femmine. Sono così… Stupide, fastidiose, sempre a lasciargli lettere cosparse di brillantini che gli si appiccicano alla divisa. Ma la cosa che più odia è essere costretto a giocare con loro al “Principe azzurro che salva la bella dal drago”.
A parte che nessuno tra loro è bella, ma perché è sempre Koshino quello che finisce a fare il drago? Lui non vuole ucciderlo col righello e neppure vuole che Hiroaki sia il suo prode destriero!
E poi la bella ha sempre il brutto vizio di lasciargli viscidi baci sulla guancia… Che. Schifo.
Si rende conto di essere rimasto da solo quando la mano guantata torna ad essere fredda e della gonna a campana di sua madre non c’è più traccia, così come non ci sono più i mocassini di suo padre, né la lunga tonaca nera del pinguino.
Inizia a tremare, lì dentro fa un freddo cane e quando crede di essere diventato una caramella anche lui, ecco che la scorge… 

«Vai a giocare con le altre bambine.»
«Non mi va!»
 

E lì che disegna, con la testa china sul foglio e i pastelli sparsi sul tavolo. Una cascata di rossi boccoli la incornicia, ricadono oltre il bordo del tavolo come stelle filanti. Si morde il labbro inferiore e si pulisce i polpastrelli sporchi sulla camicetta bianca, facendo venire una sincope alla suora che sorveglia la sala giochi.
«Non te lo ripeto più: vai a giocare con le altre bambine.» le intima severa, scuotendola per una spalla. Quella seguita a disegnare, la ignora, sembra un giglio bianco in mezzo ad un mucchio di erbacce, come quelle che sua mamma estirpa quando va in giardino.
Al terzo richiamo inascoltato, le strappa il pastello verde e il quaderno di mano per poi dirigersi verso uno schiamazzante gruppo di galline intente a battibeccare su chi debba essere la Regina della cucina. La lascia con il broncio e una bambola di pezza senza un occhio; le tira i capelli di lana con rabbia prima di scagliarla con forza a terra, imbronciandosi.
Akira mangiucchia l’interno delle guance raccogliendo la bambola finita vicino ai suoi piedi, infilandosi in quel covo di vipere non senza un briciolo di timore. Alcune si accorgono di lui, parlottano e si danno gomitate prima di ridacchiare scioccamente. Vorrebbe che il drago-suora se le pappasse in un sol boccone, almeno le orecchie smetterebbero di dolere.
Si dondola sui piedi quando la raggiunge, ma non lo guarda. Ricorda di esserci rimasto male quando posa la bambola sul tavolo e lei nemmeno lo ringrazia, gli sorride, gli dice qualcosa.
«Sai come si dice in questi casi?» la bambina si acciglia, sembra infastidita dalla sua presenza «Si dice: grazie. La tua mamma non te l’ha insegnato?» per tutta risposta, spinge il giocattolo fino al bordo, lasciandolo cadere.
Gli volta le spalle e Akira è tentato di lasciarla perdere, ma poi la sente parlare ed è come se il pentimento per essersi infilato lì dentro sia scomparso «Sei nuovo? Non ti ho mai visto qui.» esala apatica, scrutandolo da capo a piedi.
Akira si sente in gabbia, i suoi occhi scuri sono guardinghi e sembrano voler incenerire i suoi abiti ben messi e le scarpe lucide.
Scuote la nuca «Sono qui con mamma e papà.» 
La vede allargare gli occhi scuri e che non hanno il suo stesso taglio, sono un po’ più rotondi e meno allungati «Oh, quindi non sei come noi.»
«Come voi?»
«Sì… Un orfano. Qui ci mettono i bambini che non hanno più la mamma e il papà. Quelli soli.» gli dice spicciola; le gambe corte dondolando sulla sedia troppo alta.
«Oh, ma io ce l’ho una mamma e un papà.»
«E dove sono?»
«Non lo so. Li ho persi…» alza le spalle «Dobbiamo comprare un bambino!» all’epoca non dà peso alla manciata di parole che getta tra loro e non si cruccia per la piega malinconica che assumono i suoi occhi e le sue labbra. Sembra avvilita ma l’unica cosa a cui riesce a pensare è che non ha mai visto una bambina così triste.
Osserva la sua figurina e si chiede dove sia nascosto il cartellino con il prezzo. Del resto, un negozio che vende bambini non è poi così diverso da un negozio che vende verdure o articoli sportivi, no? Non c'è nessun codice a barre sotto la sua frangetta spettinata, però «Che strano colore…» mormora tirandogli i boccoli, ricevendo un pizzicotto sulla mano. La piccola si copre la nuca con entrambe le mani e quando si sente al sicuro comincia a pulire la zona in cui le sue dita si sono annidate per un paio di secondi «Scusa…» mormora piano, sentendosi in colpa per neppure lui sa cosa. 
Gli ricorda una di quelle lucertole che mette all’angolo insieme ai compagni di scuola, quando si annoiano e non hanno voglia di sbirciare sotto le gonne delle compagne.
«Non toccarli più, mi dà fastidio.» borbotta stizzita.
«Scusa… E’ che sono così strani!» ridacchia, vedendola tranquillizzarsi un po’ «E’ la prima volta che li vedo di questo colore. Nella mia scuola hanno tutti i capelli neri.»
Le sue dita sottili scivolano fra le onde, si incastrano e il suo naso si arriccia quando prova a districarle dai nodi. «Mamma diceva che nessuno può toccarli. Solo lei può farlo, sono il suo Sole.»
«E la tua mamma dov’è ora?» glielo chiede con curiosità e un breve sorriso ad increspargli le labbra. Non ci vede nulla di male in quella domanda eppure la bimba reagisce con freddezza, aggrottando le sopracciglia e appiattendosi sempre più sulla sedia, quasi volesse diventare minuscola.
«I maschi non possono stare qui. Se suora Kong ti scopre, chiamerà il Cane randagio
.» lo sussurra con fare cospiratorio, cambia discorso così repentinamente da lasciarlo interdetto.
Akira è tramortito, sa di aver sbagliato ma non sa esattamente per cosa «Il Cane randagio?»
Lei annuisce e allarga le braccia mentre le dita tratteggiano una figura enorme e dai contorni tremolanti «Viene di notte, mentre stai dormendo. Ti prende e ti porta via e
quando ha fame…»
«Quando ha fame…?» si dimentica della domanda che le aveva posto, è troppo concentrato sul suo sguardo opaco e la tonalità cantilenante della sua voce. Indietreggia un poco, trema quando la sedia della bambina striscia, producendo un suono così sinistro da fargli vibrare l’anima.
I suoi piedi toccano terra e si accorge di quanto sia bassa in confronto a lui, che all’età di otto anni è alto quasi quanto un ragazzino delle medie. Ha dei lividi e graffi sulle gambe lasciate scoperte perché le calze sono troppo larghe e le scivolano fino al polpaccio. Le sue scarpe rotte fanno scricchiolare il legno mentre gli si avvicina con passo leggero e prima che possa spintonarla lontano, questa gli è ormai ad un palmo dal naso, sollevata sulle punte dei piedi pur di guardarlo negli occhi.
«Quando ha fame, ti prende e ti porta nella sua cantina--»
«E poi…?»
«E poi ti mangia, no?» 

«Akira…» gli sfiorano la spalla e l’urlo di terrore gli si mozza in gola quando vede che è solo sua madre. Gli sorride placida ma qualcosa non va nel tremolio nei suoi occhi. Sembra così stanca... «Che stavi facendo, si può sapere?»
«Stavo chiacchierando con lei.» la indica, sua mamma gli abbassa il braccio.
«Sai che non si indica, è maleducazione… Ah, ma guardati. Hai il colletto tutto spiegazzato» gli aggiusta la camicia, i capelli scuri, gli bacia la punta del naso. Lancia uno sguardo verso la bambina, ora in piedi e silenziosa «Non la stavi importunando, vero?»
Akira vorrebbe strapparle quei suoi orribili capelli uno ad uno, facendogliela pagare per lo spavento che gli ha fatto prendere, ma sua madre la guarda incuriosita «E tu come ti chiami?»
La bimba guarda le loro mani intrecciate e Akira, preso da un moto di cattiveria che mai prima d’allora ha provato, le solleva leggermente, quasi a sottolineare che lui tornerà a casa con i suoi genitori mentre lei se ne dovrà stare lì, da sola, per chissà quanto altro tempo.
Ma lei abbassa lo sguardo e subito il senso di colpa bussa al suo minuscolo cuore.
«Shibahime.»
«Shibahime… E' davvero un bel nome, lo sai?» sua madre sorride un poco prima di guardarlo con amorevolezza «Coraggio Akira, dobbiamo andare. Saluta la tua amica.»
«Non è mia amica!» un pizzicotto dietro la schiena lo fa sussultare «Ciao…» piagnucola mogio prima di farsi trascinare via.
Volge lo sguardo oltre la spalla e l’ultima cosa che vede è la manina sporca di pastello di Shibahime che fa su e giù.
In macchina i suoi sono silenziosi, Madoka guarda fuori dal finestrino e Kyosuke lo guarda di tanto in tanto dallo specchietto.
Akira sente la schiena bruciare lì, dove mamma lo ha pizzicato. 

La bambina dalle stelle filanti rosse diventa uno spettro dei suoi otto anni, viene accantonata come un brutto episodio da dimenticare, fino a quando i suoi non lo ritrascinano in quel postaccio e lui la rivede; è sempre sporca e piena di lividi, sempre triste e sola. Gli ricorda una di quelle orribili bambole di porcellana che nonna Izumi ha regalato a Madoka per non ricorda quale festività -mamma la odia, prega sempre che si rompa durante le pulizie-. Ed è in uno di quegli incontri fugaci, in cui c'è solo uno sventolio di mani tra loro, che comincia a pensare a come sarebbe bello tirarle i capelli prima di andare a dormire, lanciarle contro la palla da basket o costringerla a mangiare anche le sue carote, perché proprio non le sopporta.
Accade così che un giorno si intrufola in cucina tutto sudato e sporco di polvere, dopo una partita vinta contro Koshino e per poco non fa venire un infarto a Madoka, che ha appena finito di pulire il pavimento.
«Mamma?»
«Sì, tesoro?» è distratta, gli toglie la felpa dei Lakers con cipiglio severo, tutta corrucciata.
E le sorride, mostrando la fila di denti bianchi.
«Al posto di un fratellino, posso avere una sorellina?» 

Akira è andato al Sacro Cuore altre cinque volte. Alla quinta è uscito trascinando Shibahime per un polso mentre lei tenta di azzannargli la mano.
Suo padre gli dice di non farle male e sua madre ride come solo lei sa fare.
Si accorge che in quattro non si sta così male.




Note noiose finali (d'obbligo):

E questo primo “capitolo” è andato.
Mi sono documentata sulle adozioni ma il tema è vario e ostico, perciò l’ho molto edulcorato e affrontato velatamente, se così si può dire. Ho cercato di metterci tutta la sensibilità possibile, se dovesse darvi fastidio il modo in cui è stato trattato vi prego di farmelo notare. Ok che è una fan fiction ma, beh, non vorrei mancare di rispetto a nessuno, ecco.
Ringrazio di cuore chi non ha premuto subito la X rossa o chi deciderà di dare un minimo di fiducia a questa storia. Qualsiasi critica o nota positiva è ben accetta perciò se vi andasse di spendere cinque minuti del vostro tempo, sappiate che ne sarei felicissima. 

Alla prossima!
HeavenIsInYourEyes

   
 
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