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Autore: GiuliaStark    07/03/2015    2 recensioni
Sono passati 97 anni da quando la Terra è stata colpita da una bomba nucleare. 97 anni durante i quali tre generazioni si sono succedute sull'Arca, la base spaziale che molto tempo prima raccolse i pochi sopravvissuti dell'esplosione, nella speranza che un giorno possano far ritorno a casa, ed ora quel momento sembra essere arrivato. Cento ragazzi minorenni presi dalla prigione dell' Arca saranno mandati ad esplorare i territori che furono abitati dai loro predecessori, cento ragazzi mandati a morire. Tra questi c'è Rhys, una ragazza che inizialmente non doveva essere presente ma che ha compiuto questo sacrificio pur di salvare la vita alla sua migliore amica; nessuno è realmente a conoscenza del motivo per il quale sia finita in carcere, si sa solo che è qualcosa di molto grave. Lo sbarco sulla Terra non è facile, tutto è idillico, si, ma niente è come sembra e presto i ragazzi si accorgeranno che è arrivato il momento di combattere le proprie paure, di azzerare la loro umanità per sopravvivere. Perché non c'è più distinzione tra bianco e nero, giusto o sbagliato, legge o criminalità. No. Ora sono sulla Terra, sono soli. Ora sta nelle loro mani se decidere di vivere o morire
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Finn Collins, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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~Ciao a tutti!! Ecco una nuova FanFiction che ho pensato di iniziare dopo essermi innamorata follemente di questo telefilm! Sarò breve, la trama in grandi linee sarà quella del telefilm ma ci saranno grandi cambiamenti rispetto ad altre cose ad esempio sull'assenza di Clarke sulla Terra ma per ora mi serve lì e legfendo i prossimi capitoli capirete perchè. Beh spero che l'introduzione vi abbia incuriosito e vi auguro buona lettura!! Mi raccomando recensite per farmi sapere cosa ne pensate!! 😁😉

P.S. Il nome della protagonista, se qualcuno se lo dovesse chiedere si pronuncia Ris 😁 lo so un nome un pò particolare 😁😉


~~POV RHYS
La Terra. Era tutto ciò a cui riuscivo a pensare in questo buco di cella. Non l’avevo mai vista, né avevo respirato la sua aria, né tantomeno messo piede su di essa; siamo nati tutti qui, sull’Arca, una grande navicella in orbita da più di 97 anni, più precisamente da dopo che il Pianeta cadde vittima di una catastrofe nucleare che sterminò quasi tutta la popolazione rendendo l’aria ed il suolo radioattivi ed inabitabili. I pochi superstiti, non più di quattrocento, si radunarono nelle Stazioni Spaziali di dodici Nazioni diverse per essere lanciati nello spazio, ed ora, dopo tre generazioni da quel giorno siamo ancora tutti qui. Quattromila persone bloccate su questa prigione di ferro che ci tiene lontani da un luogo che dovrebbe essere casa nostra. Ero rinchiusa qui dentro all’incirca da tre anni per un crimine da me commesso tempo fa e per il quale non mi avevano dato neanche la possibilità di spiegare, o almeno difendermi, niente. Ero stata contrassegnata con fin troppa semplicità come un “soggetto pericoloso” e messa in isolamento dove ero costantemente trattata, o dovevo dire maltrattata?, come se fossi un oggetto. È così che funzionava quassù: se sei minorenne e commetti uno di quelli che chiamano «reati capitali» ti sbattono in carcere, mentre se sei già adulto… beh quella è tutta un’altra storia. Per farla breve, vieni lanciato nello spazio. Era una cosa orribile e loro avevano il coraggio di chiamarla legge ma non lo era… tutto ciò aveva solo un nome: brutalità, la stessa che usavano le guardie quando abusavano del loro potere attraverso i manganelli elettrici che fin troppe volte avevo sentito sulla pelle fino a lasciarmi delle cicatrici come a ricordarmi che contavo meno di zero. Delle volte quando sentivo il peso che mi opprimeva il petto diventare insopportabile mi isolavo perdendomi in qualcosa di mio soltanto. Dalla finestra della mia cella riuscivo a vedere una parte della Terra e più la osservavo, più la sua bellezza mi coglieva di sorpresa: l’unione perfetta dei colori, il suo lento girare attorno a se stessa e la sensazione di tranquillità e pace che mi trasmetteva vedendola; tutto così bello, tutto così lontano. Troppo lontano. Per non pensare a quella insormontabile distanza chiudevo gli occhi ed aprivo la mente immaginandomi a camminare sui suoi prati, respirare la sua aria, guardare il suo cielo… ma purtroppo non ero fatta per sognare e ben presto tornavo alla realtà, alle mie mura grigie ed al mio incessante dolore. Odiavo chi ci aveva costretto ad una vita del genere 97 anni fa. Non avevano il diritto di scatenare un’apocalisse nucleare ma, come ci hanno spiegato a “Tattiche Terrestri”, non è stato per loro volere che tutto ciò era accaduto, è semplicemente successo; a parer mio, invece, erano tutte stronzate. La verità era che volevano un motivo, una scusante o addirittura una consolazione che gli faccia credere che la nostra vita, confinata quassù, ne sia valsa la pena per qualcosa di importante ma, udite, udite non lo è stato affatto! Continuavamo a ripeterci le stesse bugie da ormai ben tre generazioni senza fermarci un attimo a pensare razionalmente. Forse, dopotutto, è proprio quello che non volevamo fare, pensare. Pensare a come sarebbe stata una vita diversa da questa, pensare che all’epoca ci potesse essere stata un’altra scelta rispetto alla guerra… in poche parole preferivamo questa versione della storia perché era più facile e ci permetteva di vivere meglio con noi stessi. Da un lato è probabile che sia giusto così, vivere con i “se”, i “ma” ed i “forse” non fa bene a nessuno, ma si dovrebbe smettere di pensare che questa società sia uno sprazzo di vita, perché questa non era vita. Tutti a bordo indossavano una maschera che celava il costante malanimo e faceva apparire la felicità dove non c’era, che nascondeva il fatto che andasse bene fluttuare nel vuoto con la costante paura di venirne risucchiato; si erano arresi alla loro situazione, o peggio, abituati a tenersi ciò che avevano senza chiedere di meglio. E non lo sopportavo. La maggior parte delle volte ero così disgustata da desiderare perfino la morte, almeno mi sarei liberata della loro ipocrisia ma non potevo permettermi di pensarla così, dovevo resistere. Ormai ero brava in quello, quasi un esperta oserei dire, dato che era tutta la vita che lo facevo. Una cosa divertente che accadeva da un po’ era che mi credevano depressa, si, forse lo ero, o forse il mio era solo un meccanismo di difesa, fatto sta che almeno venivo lasciata in pace. Continuai a fissare il vuoto di fronte a me mentre lentamente scorrevo lungo il muro fino a sedermi sul pavimento di pietra fredda e scura; da fuori della mia porta potevo sentire il trambusto che da stamattina infervorava gli animi. Era già da un paio di giorni che andava avanti questa storia, ma la cosa più strana erano stati tutti i controlli ai quali ci avevano sottomesso. Sentivo che c’era qualcosa di strano. Potevo anche sbagliarmi ma la sensazione in me che mi avvertiva ogni volta che c’era un problema non mentiva, ma cos’altro poteva succedere? Esisteva veramente una punizione peggiore che stare in cella d’isolamento da tre anni? Stentavo a crederlo. Sicuramente passò qualche ora da quando ero seduta li, ma il tempo in queste quattro mura era un lusso che non potevo permettermi, mi sfuggiva di mano scorrendomi tra le dita senza che io potessi afferrarlo. Improvvisamente la porta si aprì di scatto ed un bagliore di luce mi investì il volto portandomi a coprire gli occhi, entrò qualcuno e richiuse l’entrata in fretta come se nessuno dovesse sapere che fosse lì; una volta che i miei occhi si abituarono di nuovo alla penombra riconobbi una figura, una donna precisamente, in piedi di fronte a me. Sapevo chi era, la conoscevo molto bene e proprio per quello mi chiesi cosa ci facesse lei qui che in tutti questi anni non si era mai fatta vedere:
- Abby – dissi in tono leggermente confuso mentre portavo le gambe al petto e poggiavo gli avambracci sulle ginocchia – Che diamine ci fai qui? -
Non rispose subito alla mia domanda; continuava a guardarmi dall’alto lasciando metà del suo viso in ombra cosicché io non potessi vedere la sua espressione ma non ne avevo bisogno, percepivo che c’era qualcosa che non andava, che la preoccupava o addirittura terrorizzava. Abby era la madre di Clarke la mia unica amica qui sull’astronave, l’unica persona, a parte mia sorella, per la quale avrei fatto qualunque cosa. Alla fine sospirò e si inginocchiò di fronte a me in modo tale che entrambe potevamo vedere l’una negli occhi dell’altra:
- Non abbiamo molto tempo – si guardò attorno come se avesse paura che dall’ombra potesse venir fuori qualcuno – Ho bisogno del tuo aiuto – pronunciò quella frase guardandomi dritta negli occhi: aveva uno sguardo disperato di chi non aveva scelta, lo stesso sguardo che avevo avuto io per anni.
- Che succede? – domandai aggrottando la fronte.
- Vogliono raccogliere 100 ragazzi qui dal carcere per mandarli sulla Terra per testare se è abitabile -
- Cosa? – domandai sconcertata dalla notizia – Spero sia uno scherzo – lei scosse la testa.
- L'Arca ha vita contata, stiamo rimanendo con sempre meno ossigeno – sospirò – So che ne hai parlato con Clarke prima che la rinchiudessero -
- Si, ma mi aveva anche detto che c’erano possibilità di riparare il danno -
- Non è certo che gli ingegneri ci riescano per questo dobbiamo cercare un'alternativa -
- E questa alternativa consiste nel mandare a morire 100 ragazzi sulla Terra? Bel piano, complimenti – scossi la testa.
- Ti prego Rhys, risparmiami il sarcasmo! – disse duramente.
- Va bene, va bene ma non capisco perché mi stai dicendo queste cose –
- Si tratta di Clarke… - all’improvviso si interruppe come se le parole che stava per pronunciare bruciassero.
- Clarke? Clarke, cosa? Abby parla! – la esortai improvvisamente interessata alla situazione.
- Clarke sarà una dei 100 –
- No… - sussurrai incredula. Mi alzai ed Abby fece lo stesso, potevo percepire la sua disperazione che ora era diventata anche la mia; Clarke andava a morire… no, non potevo accettarlo - Sei tu quella che l'ha messa qui dentro! È colpa tua... - la guardai con sguardo ostile una volta che mi fui voltata.
- Stiamo veramente iniziando a distribuire colpe? – disse alzando le sopracciglia evidentemente infastidita da quello che le avevo detto - Devo ricordarti le tue? – si avvicinò guardandomi fissa negli occhi; non potevo credere che mi stesse sbattendo in faccia con tanta facilità gli errori del mio passato.
- Non avevo scelta e lo sai… - risposi distogliendo lo sguardo e chiudendo le mani a pugno fino a farmi diventare le nocche bianche.
- C'è sempre una scelta Rhys, tu hai solo percorso la via più facile –
Rimasi allibita dalle sue parole, non era un segreto che non le andassi a genio ma così era troppo, pensava veramente che all’epoca quella che decisi di percorrere era una strada semplice? Se mi aveva portato in questa cella sicuramente non lo era:
- Avevo quindici anni ed una sorella minore a qui badare! Cosa ci vedi di giusto in questo? - la conversazione si bloccò e la guardai con profonda rabbia, poi cercai di calmarmi e continuai - Che vuoi che faccia? Se non te ne sei accorta sono chiusa in isolamento, non vedo come da qui potrei esseri utile! - 
- Devi prendere il posto di Clarke sulla navicella –
Disse quelle parole con talmente tanta semplicità che mi spaventò; Abby era disperata ed avrebbe fatto di tutto per salvare sua figlia anche se questo voleva dire mandare qualcun altro al suo posto:
- Vuoi mandarmi a morire? - chiesi con una risata sarcastica cercando di trattenere la paura che voleva prendere il sopravvento.
- Sto cercando di salvare mia figlia – disse in un sussurro evitando il mio sguardo.
- Condannando me, la sua amica, a morte - sottolineai con più serietà questa volta.
- Sai che ho delle informazioni su di te che se rivelate ti condannerebbero per davvero –
Stava di nuovo usando la carta del mio passato contro di me, ma stavolta in modo diverso:
- Mi stai minacciando? – alzai le sopracciglia sorpresa.
- Non mi lasci scelta -
- Io non ti lascio scelta? – risi sprezzante – Sicura che non siano quelli che hanno preso questa decisione? Ah, dimenticavo! – mi avvicinai con i nervi a fior di pelle che rischiavano di esplodere – In mezzo c’eri anche tu… - dissi a denti stretti.
- Ma non sapevo che avrebbero scelto Clarke! –
- Quindi finché a morire sarebbero stati i figli di altre persone andava bene! – esclamai.
- Non si tratta di morire, ma di dar loro un’opportunità! –
- Continua a ripetertelo, forse prima o poi ci crederai davvero –
- Non ho tempo da perdere con te a discutere di cose che non capisci – disse mentre si voltava per andarsene.
- Aspetta – si girò ed attese; presi una decisione già quando mi pose la domanda e sapevo che era una cosa stupida ma si trattava di Clarke - Non ho detto che rifiutavo l'offerta -
- Accetterai? -
- Ad una condizione – mi avvicinai per guardarla meglio negli occhi.
- Non sei nella posizione di chiedermi nulla, Rhys -
- Abby, sei una madre e mi capirai, è importante -
- Cosa? - sospirò pesantemente guardando altrove.
- Promettimi che ti prenderai cura di Jess - quando sentì l'entità della mia richiesta addolcì lo sguardo ed annuì.
- Ma certo -
- Quando si parte? -
- Domani mattina -
- Va bene - annuii
- Ti ringrazio… - disse con uno sguardo veramente riconoscente mentre mi poggiava una mano sulla spalla
- Non devi ringraziarmi, Clarke è la mia unica amica e ci tengo molto a lei – risposi sottraendomi al suo tocco.
- Lo so, per questo sono venuta da te –
Non aggiunse altro e come era venuta sparì. Non appena richiuse la porta mi crollò sulle spalle un enorme peso, avevo scambiato la mia vita con quella della mia migliore amica per impedirle di andare in contro ad una probabile morte, ma ora quella a cui toccava quel destino ero io. Andavo sulla Terra. Se me lo avessero detto questa mattina non ci avrei creduto, eppure, ora, eccomi qua; fino a pochi giorni fa pensavo a come fosse laggiù ed ora ci sarei andata veramente, avrei scoperto come fosse il pianeta di cui tanto leggevamo sui libri o che immaginavamo ma nonostante la curiosità il mio istinto mi diceva che non sarebbe stata affatto una missione semplice. Avevo ragione, qualcosa di strano stava per accadere, ma addirittura questo? L’Arca stava andando allo sfracello: l’ossigeno cominciava a scarseggiare e allora non si sarebbe più trattato di vivere, ma sopravvivere. Presto ci saremmo ridotti a fare qualsiasi cosa pur di restare vivi e chissà… magari saremmo finiti proprio come i nostri predecessori terrestri a farci la guerra l’un l’altro. Tutto questo assurdo piano era qualcosa di ridicolo, avevamo resistito tanto a lungo per cosa? Per ridurci a mandare a morire cento ragazzi per un sogno in un cassetto che c’era la possibilità che non si sarebbe neanche realizzato? Quando Clarke me ne parlò più di una anno fa non volevo crederci. Si, era una cosa terribile, ma non so come dentro di me si era istaurata la strana sensazione che alla fine si sarebbe risolto tutto. Invece no. Avevo torto ed ora eravamo di fronte ad un ultimatum. L’unica cosa a darmi sollievo era che tutto questo non l’avrebbe affrontato Clarke. Ero molto legata a lei e avrei compiuto questo sacrificio volentieri; non sarebbe stata pronta ad affrontare una prova simile, andare in un territorio sconosciuto, abbandonato moltissimi anni fa senza sapere cosa aspettarsi; no, Clarke non se lo meritava, non dopo che aveva visto strapparsi via suo padre. Io ero diversa, ciò che avevo passato mi aveva forgiato diversamente dagli altri ragazzi della mia età, mi aveva cambiata. Ma fino a che punto? Beh, lo avrei scoperto presto. Era tutto nelle nostre mani, il peso della sopravvivenza di una specie; si fidavano di quelli che loro chiamano “delinquenti”, era questo ciò che rappresentavamo per il popolo dell’Arca: dei criminali. In realtà non si trattava di fiducia, solo del fatto che eravamo persone sacrificabili per il bene comune. Nonostante ciò continuavo a domandarmi come poteva il consiglio decidere chi salvare e chi non. Facevamo anche noi parte degli abitanti di questa navicella, anche noi ci meritavamo un’opportunità e non un salto nel buio, non una missione suicida! Ma parlando in tutta sincerità a nessuno importava di noi. In quel momento pensai a mia sorella, Jess, di otto anni, mi permettevano di vederla poco perché dicevano che ad una bambina così piccola non faceva bene respirare l’aria della prigione; in realtà non avevamo lo stesso sangue, purtroppo sull’Arca era vietato avere più di un figlio a famiglia visto che lo spazio scarseggiava ed ora anche l’ossigeno. Lei era figlia di una cara amica di mia madre che era morta per via di un potente virus ed io, pur di non lasciare la bambina in balia di sconosciuti, decisi di occuparmene a soli tredici anni. Sapevo cosa voleva dire rimanere senza famiglia dato che io ero la prima a compiangere entrambi i genitori. Quello fu l’unico bel gesto, fino ad oggi, che avessi fatto, l’unica cosa del mio passato della quale non mi pentivo ma che mi dava la forza di andare avanti e sopportare questa reclusione. Nonostante la mia preoccupazione ero sicura che Jess sarebbe stata al sicuro, ovviamente lasciarla qui sapendo ciò che rischiava il popolo dell’Arca mi spaventava ma almeno non sarebbe rimasta sola, Clarke e sua madre si sarebbero occupate di lei, le avrebbero reso più facile la mia lontananza. Ciò che mi tormentava fino a distruggermi era che se mi fosse successo qualcosa lei non si sarebbe ricordata di me una volta cresciuta, ma probabilmente era meglio così. Dopotutto cosa c’era da ricordare? Che ero una criminale? No, di certo quella era l’unica cosa che doveva sapere. Appena stamattina avevo creduto che le cose non potessero essere peggiori di così, beh evidentemente mi sbagliavo di grosso. Passai la notte insonne a fissare il soffitto in balia delle emozioni contrastanti che cominciavano a logorarmi dentro ma non avevo tempo per quello, dovevo mettere una corazza, dovevo impedire alle amozioni di prendere il sopravvento una volta laggiù perché sicuramente niente sarebbe stato facile. Mi avevano perfino impedito di vedere Jess e un lato di me era sollevato altrimenti sarebbe stato più difficile dirle addio trovandomela di fronte. L’alba arrivò prima di quanto credessi come se il destino fosse impaziente di segnare la mia condanna a morte, sapevo che tra poco sarebbero venuti a prendermi delle guardie così mi concessi ancora qualche minuto per guardare le mura che per tre anni erano state “casa mia” e gli dissi addio per sempre. Si, addio. Addio perché non contavo in un ritorno. E come potevo essere ottimista quando neanche sapevo con cosa dovevo fronteggiarmi? Cominciai a fare avanti ed indietro per la cella e mi passai le mani tra i capelli lasciandomi andare in un sospiro ansioso mentre mi inginocchiavo a terra, poi all’improvviso la porta si aprì con uno stridente rumore metallico e fui investita da un luminoso fascio di luce, ma notai perfettamente le due guardie che entrarono minacciose. Era ora. Potevo sentire i rintocchi dell’orologio che delimitavano i miei ultimi momenti qui a bordo risuonare nella mia testa:
- Prigioniera 216, in piedi! -
Per me fu come se non avesse parlato. Rimasi lì ferma senza prendere coscienza di ciò che stava accadendo attorno me, come se tutto fosse frutto di un incubo; notando la mia esitazione, una delle guardie mi prese per un gomito e mi alzò bruscamente da terra, le gambe mi cedettero per un secondo ma non caddi, anzi, fui strattonata con ancora più forza e messa con la faccia contro il freddo muro di pietra. Poggiai la fronte contro la parete e socchiusi gli occhi lasciando che le guardie facessero il loro lavoro: una delle due mi torse il braccio sinistro dietro la schiena e, mentre cercavo di non pensare a ciò che mi aspettava, sentii una morsa d’acciaio imprigionarmi il polso e quando abbassai lo sguardo notai un bracciale metallico con una luce rossa in cima; la sentinella mi voltò afferrandomi per una spalla e mi guardò fissa negli occhi. Era sicuramente poco più grande di me, lo sguardo freddo e severo colmo di disprezzo nei miei confronti. Solo le guardie sapevano il motivo per il quale ero stata rinchiusa e non mancava giorno che non ricevessi un occhiata del genere senza che nessuno però sapesse il perché del mio gesto. Anche se era difficile sopportare tutto ciò cercavo di affidarmi a quella poca forza d’animo che mi era rimasta per non crollare definitivamente. Ricambiai il suo sguardo con altrettanto disprezzo e lasciai che mi portasse fuori dalla cella, non appena misi piede fuori mi guardai attorno ed osservai gli altri ragazzi che venivano prelevati e con i quali avrei diviso la mia sorte. Vedere ciò rendeva il tutto ancor più reale e solo in quel momento la concretezza dei fatti mi colpì duramente in pieno petto portandomi a realizzare. Questi erano i miei ultimi istanti sull’Arca, l’ultima volta che vedevo questo posto e chi ci viveva. Jess. Il mio pensiero volò subito verso di lei e capii che non potevo andarmene senza dirle addio, dovevo vederla almeno un’ultima volta, dovevo vederla per ricordarmi per cosa lottare. Mi fermai improvvisamente e percepii subito il disappunto delle sentinelle che mi spinsero a fare qualche altro passo contro la mia volontà:
- Voglio vedere mia sorella – dissi duramente mentre guardavo fissa davanti a me.
- Non ti è concesso! – rispose la guardia alla mia destra con voce severa
Mi strattonarono ancora ma non mi mossi, ero decisa ad ottenere ciò che volevo… come se fosse il mio ultimo desiderio:
- Ho detto che voglio vedere mia sorella! – ripetei con più insistenza alzando la voce.
- Smettila ragazzina e cammina! Non abbiamo tempo da perdere!! –
Un altro strattone mi fece perdere l’equilibrio e cadere a terra mentre la sentinella alla mia destra continuava a tenermi per il gomito. Non mi avrebbero permesso di vederla… me ne sarei andata senza dirle addio, l’avrei abbandonata così, senza neanche poterle spiegare il perché. Sentii un improvvisa e strana sensazione pervadermi per intero; la riconobbi subito, dopo anni mi dava sempre le stesse emozioni annientandomi completamente. Voltai leggermente la testa, mentre venivo rialzata con poca delicatezza dalla guardia, e subito incontrai due iridi color cioccolato profonde come l’universo in cui fluttuavamo; intrecciai lo sguardo con quello del ragazzo che anni prima mi fece perdere la testa e che avevo amato con tutta me stessa fino a farmi del male ma che poi, inaspettatamente, mi aveva spezzato il cuore. Il suo nome era Finn Collins. Il tempo si fermò ed in quel momento nulla contava più, ognuno perso nello sguardo dell’altro; potevo vedere stampato sul suo volto il terrore nel sapere che anche io ero stata condannata a far parte dei 100 e la preoccupazione per la resistenza che stavo ponendo. Le guardie continuavano ad urlarmi qualcosa ma le loro voci non riuscivano ad oltrepassare la fitta nube dei miei pensieri, tutto aveva perso movimento, suono e colore ed io continuavo a desiderare di vedere mia sorella. Improvvisamente sentii un rumore elettrico e capii che la sentinella dietro di me aveva tirato fuori il manganello che nel giro di qualche secondo andò a scontrarsi contro la mia schiena. Una scossa mi attraversò la colonna vertebrale fino a raggiungere le terminazioni nervose che vibrarono sotto l’alto voltaggio causandomi uno spasmo di violento dolore; distolsi lo sguardo da Finn mentre le ginocchia mi cedettero nuovamente ed abbassai la testa cercando di trattenere un gemito di dolore, cercai di rialzarmi mentre sentivo i muscoli ancora tremanti ma non ne ebbi il tempo visto che un altro colpo andò a depositarsi nello stesso punto del primo con la sola differenza che stavolta era molto più forte. Se prima mi ero trattenuta, ora mi lasciai andare ad un lamento di puro dolore; ero esausta… mi sentivo come svuotata, le guardie mi presero per entrambe le braccia e mi tirarono su e stavolta non opposi la minima resistenza ma nonostante la mia passività sentii qualcosa di appuntito conficcarsi dietro il mio collo e riconobbi subito cos’era. Mentre sentivo il tranquillante scorrermi nelle vene udii del frastuono dietro di me e quella che sembrava la voce di Finn chiamarmi ma non ebbi il tempo di accertarmene che tutto venne inghiottito dal buio più profondo. Quando ripresi conoscenza tutto era ancora confuso, ero seduta su un sedile al quale ero ancorata con una stretta cintura che passava sotto le braccia ed attorno la vita; riaprii lentamente gli occhi e misi a fuoco ciò che mi circondava: mi trovavo in una navicella dalle pareti in acciaio e, proprio come me, altri ragazzi dallo sguardo spaventato e confuso che si guardavano attorno increduli di ciò che stava per accadere. Sentivo la testa ancora appesantita e leggermente stordita mentre mi premevo le dita contro le tempie per cercare di allontanare questa sensazione di vulnerabilità, mi voltai a sinistra ed accanto a me era seduto un ragazzo della mia età con anche lui la stessa espressione degli altri. Eravamo solo dei ragazzi impauriti, come potevamo riuscire a sopravvivere da soli? Un rumore sordo mi riempì le orecchie e ben presto l’intera struttura tremò violentemente segno che i motori erano stati accesi, un grido di paura uscì dalle labbra di qualcuno e mentre la navicella si stava staccando dall’Arca si accese uno schermo sulla parete di fronte e apparve il Cancelliere Jaha che iniziò a parlare:
- Prigionieri dell’Arca, ascoltate. Vi è stata data una seconda possibilità e come vostro Cancelliere spero che la vediate non solo come una possibilità per voi ma anche una possibilità per noi e tutta l’umanità. Non sappiamo cosa troverete laggiù, se le speranze di sopravvivere fossero maggiori avremmo mandato degli altri, ma abbiamo mandato voi perché i vostri crimini vi hanno reso sacrificabili - ed eccolo qua che ammettevano la nostra inutilità, eravamo solo degli scarti della società, qualcosa di marcio che poteva essere mandato a morire per il “bene” di molti senza che nessuno avesse dei rimpianti - Se riuscirete a vivere i vostri reati saranno cancellati e avrete la fedina penale pulita – ci mancava solo la ricompensa. Era così che davano una motivazione per andare avanti in questo suicidio legalizzato, una specie di ricatto se si vuole vederlo così. Tutto ciò mi disgustava profondamente - Il sito di atterraggio è stato scelto con cura, prima dell’ultima guerra Mount Weather era una base militare costruita all’interno di una montagna, era rifornita di generi non deperibili per sostentare trecento persone per due anni, nessuno è mai riuscito a raggiungerlo, poiché non abbiamo potuto darvi cibo capirete quanto per voi siano importanti quelle scorte; la vostra missione sarà localizzarle immediatamente – La navicella continuava ad essere scossa da violenti tremiti ed uno più forte degli altri mi lasciò intuire che avevamo superato l’atmosfera; continuammo la nostra caduta libera a gran velocità mentre il video andava avanti - Voi avete una missione, una responsabilità restare vivi… -
All’improvviso lo schermo si spense e l’intera struttura cominciò a tremare ancor più forte a tal punto che alcune cinture si staccarono facendo volare due ragazzi verso il fondo mandandoli a sbattere contro la parete d’acciaio facendo un macabro rumore sordo. Sentimmo un forte scoppiettio mentre continuavo a guardarmi attorno cercando di capire cosa stava succedendo e se fossimo riusciti a sopravvivere almeno all’atterraggio; regnava il caos ed ovunque guardassi potevo vedere i volti terrorizzati degli altri ragazzi mentre tutto all’interno della navicella cominciava ad emanare fumo, scintille e piccole fiammate. Le urla mi assordavano e sovrastavano i miei pensieri che cercavano di trovare un minimo di razionalità o di prendere forma in maniera sensata; non so quanto tempo passammo in balia di quel disastro, né cosa stava esattamente succedendo ma all’improvviso tutto si spense immobilizzandosi a tal punto da fare ancor più paura di prima. Sentivo un gran sussurrare da parte di tutti i ragazzi ma nessuno si azzardava a dire ad alta voce ciò che li tormentava, forse perché avevano paura che fosse tutto frutto di un sogno, ma non si poteva essere più chiari di così. Eravamo atterrati ed eravamo sopravvissuti. Le luci traballavano dando fastidio alla vista, poi un ragazzo parlò:
- I motori sono fermi –
Forse tutti aspettavano una costatazione da parte di qualcuno abbastanza coraggioso da dire le cose come stavano per far qualcosa, fatto sta che dopo quelle parole tutti cominciarono a slacciarsi le cinture ed alzarsi in piedi dirigendosi verso il portellone d’entrata; mi liberai anch’io dalla moltitudine di cinghie e mi alzai, forse un po’ troppo velocemente, e ciò mi provocò un capogiro che mi costrinse a sorreggermi allo schienale del sedile di fronte a me, socchiusi gli occhi ed aspettai che passasse quando sentii una mano poggiarsi delicatamente sulla mia spalla, mi voltai di scatto ed incontrai lo sguardo preoccupato di Finn che mi scrutava attentamente in cerca di chissà cosa. Fece per parlare ma io non volevo sentirlo, così mi sottrassi al suo tocco e mi voltai sgattaiolando via prima che potesse fermarmi dirigendomi verso il gruppo di ragazzi che si erano ammassati davanti l’uscita e che fremevano perché venisse aperta per mostrare, finalmente, la loro vera casa:
- Il portellone, qualcuno lo apra! – dissero un paio di voci attorno a me.
- State indietro! – tuonò una voce che sicuramente non apparteneva ad un ragazzo di diciassette anni.
- No, fermi! – dissi mentre cercavo di farmi largo tra i ragazzi che riconoscendomi mi lanciarono occhiate sospettose – Non sappiamo se l’aria è respirabile o cosa troveremo lì fuori! –
Quando giunsi di fronte al portellone e posai lo sguardo sulla persona che vi era accanto lo riconobbi subito: Bellamy Blake. Tutti, più o meno, lo conoscevano per via della storia di sua sorella che la madre nascose sotto il pavimento per ben sedici anni finché non fu scoperta e rinchiusa come tutti noi in prigione con il solo crimine di essere nata. Il suo sguardo cadde su di me ed alzò un sopracciglio guardandomi dall’alto in basso: 
- Se non lo apriamo non lo scopriremo mai – rispose.
- Bellamy? – domandò una voce dal retro.
I ragazzi cominciarono a dividersi lasciando un piccolo spazio in cui si stava insinuando una ragazza che quando arrivò davanti a me riconobbi come Octavia Blake, la sorella di Bellamy:
- Sei cresciuta eh? –
- Che ci fai qui anche tu e con l’uniforme delle guardie? –
- L’ho rubata – fece spallucce – Qualcuno doveva pur controllarti quaggiù –
I due si abbracciarono ed io distolsi lo sguardo sentendomi di troppo. Almeno lui poteva prendersi cura di sua sorella a differenza mia, sicuramente Jess si meritava molto di più. Mentre ero persa nei miei pensieri non mi accorsi che Bellamy aveva azionato la manopola di apertura del portellone; alzai lo sguardo e notai che era calato un silenzio colmo di tensione su tutti noi. Ogni volto era il disegno di un emozione diversa, ogni ragazzo riponeva in quel momento la speranza di una nuova vita, di un nuovo inizio; solo io vedevo una condanna. Lo sportello della navicella si mosse con un cigolio metallico e lentamente cominciò ad aprirsi lasciando entrare un fascio di luce dorata che ci abbagliò a tal punto da ripararci gli occhi con un braccio; mano a mano che la lastra metallica si apriva entrava sempre più luce assieme ad un dolce profumo. Il cuore mi batteva all’impazzata tanto che riuscivo a sentirne l’eco nelle orecchie: cosa dovevo aspettarmi? In quel momento i dubbi cominciarono ad arrampicarsi dentro di me con l’intento di soffocare la mia razionalità ma non potevo permettermi dei cedimenti. No. Dovevo assolutamente restare lucida. Ne valeva la riuscita della missione e soprattutto della vita di mia sorella. Un tonfo attutito mi avvertì che il portellone si era aperto definitivamente. Nonostante l’euforia iniziale tutti i ragazzi erano fermi, immobili, come se non credessero a ciò che gli si presentava di fronte. Molti si guardavano tra di loro incerti sul da farsi, quasi increduli di essere finalmente tornati sulla Terra. La prima a scendere dalla navicella fu Octavia, poi pian piano anche gli altri la seguirono lanciando grida di gioia sentendosi liberi per la prima volta da… beh, vivendo sull’Arca ed essere costretti alla prigione, direi da sempre. Lentamente feci qualche passo in avanti anche io ma prima di scendere definitivamente afferrai una mappa che trovai sul pavimento, quando mi rialzai lo sguardò volò subito verso la grande luce di fuori. Continuai ad avanzare finché non arrivai a metà della rampa: mi guardai attorno e ciò che trovai mi lasciò a bocca aperta. Attorno a dove eravamo atterrati c’era un bosco con alberi altissimi con le chiome verdastre sfumate di giallo dorato esaltato dai raggi del sole che filtravano tra di esse; quando poggiai i piedi sul terreno lo trovai morbido e solido, coperto da un robusto manto di erba e terriccio scuro, l’aria era fresca, pulita e profumava. Profumava non solo di sole, di erba e resina. Profumava di libertà. O almeno di qualcosa di molto simile. Il cielo era limpido e di un azzurro acceso, le nuvole erano perlopiù assenti e gli uccelli giovavano di quell’atmosfera lasciandosi andare in un canto gioioso e melodico. Dovevo ammettere che tutto ciò mi aveva lasciato un piccolo sorriso speranzoso sul volto, ma purtroppo la parte razionale di me prese il sopravvento troppo presto portandomi a cercare un buon punto per sistemarmi ed esaminare la nostra posizione; feci qualche passo allontanandomi dal frastuono che le urla dei ragazzi stavano provocando e mi diressi verso un’apertura degli alberi che affacciava su un vasto paesaggio erboso che rappresentava un paradiso per gli occhi. Una maestosa foresta si espandeva per un paio di chilometri fino a giungere ad una grande montagna grigia che torreggiava imponente su tutta la vallata; mi concessi ancora qualche secondo per bearmi di tutto ciò che fino a ieri avevo solo immaginato ed imprimermelo a fuoco nella memoria in tal caso non fossi sopravvissuta allungo. Alla fine con un sospiro srotolai la cartina e la osservai con attenzione guardandomi attorno per trovare qualche punto di riferimento che mi facesse capire la nostra posizione ed improvvisamente la realizzazione mi colpì con un sonoro schiaffo: eravamo atterrati sulla montagna sbagliata, qualcosa era andato storto ed ora Mount Weather ed i suoi rifornimenti si trovavano di fronte a me. Riarrotolai la mappa e tornai indietro cercando nel frattempo di elaborare un piano quando ad un tratto mi trovai davanti qualcuno:
- Rhys? –
Alzai lo sguardo e vidi una delle persone che non mi sarei mai aspettata di vedere in mezzo ad un gruppo di criminali, lo guardai dall’alto in basso incrociando le braccia al petto:
- Wells? Che diamine ci fai tu qui!? –
- Dovrei farti la stessa domanda – rispose aggrottando le sopracciglia – Dov’è Clarke? Doveva esserci anche lei a bordo –
Rimasi sbalordita. Sapeva di Clarke e non aveva fatto nulla, lui il figlio del Cancelliere si era dimostrato ancora una volta un traditore nei confronti della sua amica, ancora una volta sapeva che poteva essere in pericolo e non aveva fatto assolutamente nulla:
- Clarke è sull’Arca – risposi con freddezza.
Mentre lo aggiravo per tornare nei pressi della navicella con l’intenzione di troncare lì il discorso lui mi afferrò bruscamente per un braccio costringendomi a guardare verso di lui; cercai di liberarmi ma la sua presa era troppo salda, così esasperata gli chiesi:
-  Cos’altro vuoi! Sono un po’ impegnata in questo momento se non l’hai notato – dissi mostrandogli la cartina che avevo in mano.
- Dov’è Clarke – ripeté.
- Te l’ho detto – risposi a denti stretti – Ora, se non ti dispiace, lasciami andare – terminai con del sarcasmo.
- Che cosa è successo? Doveva esserci lei non tu su quella navicella! – scosse la testa aumentando la presa attorno al mio braccio.
- Beh, sorpresa! – esclamai continuando a giocarmi la carta del sarcasmo pungente – Abbiamo finito? –
Strattonai nuovamente il braccio ma lui non lasciò la presa, anzi, la rafforzò ancora di più avvicinandomi a se di qualche passo senza complimenti. Aveva lo sguardo serio ed arrabbiato ma sinceramente Wells ed i suoi sospetti nei miei confronti erano l’ultimo dei miei pensieri:
- Non scherzare – disse a voce bassa mischiata ad una sfumatura di rabbia e frustrazione.
- Ti sembra che abbia voglia di scherzare? – risposi con altrettanta serietà – Clarke è sull’Arca sana e salva, almeno per ora visto che la loro sopravvivenza dipende dalla nostra riuscita quaggiù –
- Giuro che… -
- Cosa? – lo sfidai ma lui non disse altro – Tu invece che ci fai qui?! –
- Ero venuto per lei, per proteggerla –
- Spiacente, ma hai fatto un viaggio a vuoto -
Wells stava per aggiungere dell’altro ma si fermò a metà della frase attirato da qualcos’altro alle mie spalle che lo fece irrigidire ancor di più, poi quando sentii una voce capii tutto:
- Cosa sta succedendo qui? -
Era Finn. Mi voltai nella sua direzione e notai che il suo sguardo non faceva che guizzare avanti ed indietro tra la mano di Wells ed il mio braccio sinistro stretto nella sua morsa a tal punto che avrebbe lasciato sicuramente un livido; ci mancava solo lui adesso…:
- Nulla che ti riguardi – risposi severa cercando di liberarmi nuovamente ma con scarso successo.
- Ehi, lasciala subito andare! – disse Finn alzando il tono di voce mentre avanzava di qualche passo.
Wells allentò leggermente la presa ed io strattonai il braccio riuscendo finalmente a sottrarmi dalla sua stretta, lo guardai con astio e disprezzo e scossi la testa incredula di quello che aveva appena fatto; alla fine mi allontanai massaggiandomi il polso ma prima di sparire tra la vegetazione gli dissi:
- Non avrei nessun interesse a mentirti – la mia voce aveva una calma quasi glaciale – Accetta il fatto che anche stavolta non sei stato in grado di salvarla –
Mi voltai senza aspettarmi alcuna risposta e tornai sui miei passi; non degnai Finn di uno sguardo nonostante sapessi che mi stava seguendo ma non avevo tempo per queste cose, dovevamo sbrigarci e pensare prima di tutto alla nostra sopravvivenza, come al solito però a Finn non piaceva essere ignorato:
- Che problemi hai con Wells? Di chi stavate parlando? – mi domandò fermandomi per una spalla visto che io non avevo alcuna intenzione di voltarmi.
- Stanne fuori ok? – risposi esasperata – Non ho bisogno della tua protezione, non più… - terminai con un sussurro.
Quando tornai dagli altri notai un certo trambusto, così mi avvicinai ancora di più finché mi accorsi che un gruppo molto numeroso di ragazzi e ragazze si erano riuniti tutti attorno a Bellamy che, a quanto pareva, stava promuovendo una specie di campagna elettorale per nominarsi il “Capo”:
- Non siamo degli schiavi! – diceva – Pensate veramente che sopravvivremo a questa missione? E anche se fosse di certo nessuno sull’Arca vi guarderà come persone normali, no, ai loro occhi rimarrete sempre dei criminali – fece una pausa – Io dico che non siamo costretti a fare ciò che loro ci chiedono, possiamo benissimo ricominciare qui una nuova vita anche senza di loro! –
- Seriamente!? – mi avvicinai incredula delle sue parole corrugando la fronte.
Si voltarono tutti nella mia direzione ed iniziarono ad esaminarmi da capo a piedi con uno sguardo di sufficienza sapendo benissimo chi ero; non prestai attenzione a quegli sguardi e mi scrollai di dosso la sensazione di disagio mentre mi avvicinavo con passo deciso a Bellamy che aveva un sorriso arrogante dipinto sul volto:
- C’è qualcosa che non va tesoro? – domandò marcando spontaneamente sull’ultima parola per infastidirmi, ma io lo ignorai decisa a non dargli alcuna soddisfazione.
- Per quanto possa essere stata una pessima decisione spedirci qui abbiamo bisogno dell’Arca! –
- Io credo proprio di no – ribatté lui – Ci hanno detto dove trovare le provviste, non ci serve altro –
Un ghigno mi apparse sul volto. Ok, non c’era molto da essere fieri di questa situazione ma io sapevo qualcosa di cui lui era all’oscuro e che avrebbe complicato i suoi piani di ammutinamento e questo mi dava un enorme soddisfazione; Bellamy notò la mia espressione e con un tono annoiato domandò:
- Cosa c’è? –
- Siamo atterrati sulla montagna sbagliata – dissi – Dobbiamo trovare Mount Weather e le provviste prima che inizieremo a morire di fame e non discutere su chi sarà il leader! Tra noi e il nostro prossimo pasto ci sono almeno trenta chilometri e se entro domani vogliamo mangiare dovremmo partire subito! –
- Bene, a te l’onore di fare il lavoro mia cara – ripose lui incurante della gravità della situazione.
- Rhys ha ragione – mi voltai e vidi Wells che prima di continuare mi rivolse una fugace occhiata – Non avete sentito le parole di mio padre? –
- Avete sentito ragazzi? Abbiamo il Cancelliere della Terra con noi! –
A Wells si avvicinò John Murphy e con fare minaccioso cominciò a spingerlo finché non lo fece cadere a terra. Ci mancava solo una rissa, ora che eravamo in una situazione più che critica e dovevamo collaborare per il bene comune, ma a quanto pareva a tutti andava bene così visto che nessuno aveva intenzione di intercedere tra i due ma li esortavano a combattere. Io e Wells non eravamo mai stati grandi amici e di certo non lo stavo facendo per lo spalleggiamento che mi aveva dato poco fa, ma sicuramente questo non era il modo in cui risolvere i nostri problemi, anzi, perdevamo solo del tempo prezioso, così mi feci avanti io:
- John, no, fermo –
Lo fermai prendendolo per un braccio, lui si voltò verso di me e mi guardò con una strana espressione facendo vagare lo sguardo su di me con un leggero sorriso stampato sul volto; alla fine dopo un paio di minuti che sembrarono infiniti alzò le mani in segno di resa e si fece da parte tornando dal suo gruppo. Finn si fece avanti, mentre Bellamy si appartava con sua sorella in modo sospetto, aiutando Wells a rialzarsi e facendolo sedere vicino la navicella; una volta sistemato mi inginocchiai e gli esaminai la caviglia sulla quale era caduto:
- Dobbiamo prendere quel cibo – dissi mentre mi alzavo con un sospiro poggiando le mami sui fianchi guardando in un punto non preciso alla mia sinistra.
- Non puoi sobbarcarti le provviste per cento persone da sola – aggiunse Wells.
- Non andrà da sola – Finn. Di nuovo lui. Più lo allontanavo e più continuava a tornare. Feci per controbattere ma me lo impedì – Non si discute, ok? – alla fine cedetti ed annuii leggermente ancora infastidita dal suo comportamento.
- Siete ancora in pochi –
- Risolvo subito –
- Se non l’hai notato nessuno si fida di me – dissi.
- Non preoccuparti -
Finn si voltò dirigendosi verso due ragazzi e dopo aver scambiato con loro qualche parola li condusse verso di noi con un sorriso trionfante sul volto. Non sopportavo questo lato di lui, si comportava come se tra di noi non fosse successo nulla, come se tutti gli anni di sofferenza che avevo patito per colpa sua erano solo che un sogno o, in questo caso, un incubo. Non c’era niente di paragonabile a ciò che avevo sofferto per causa sua. Niente…:
- Loro sono Jasper e Monty – disse Finn mentre dava una pacca sulla schiena ad entrambi i ragazzi – Lei, invece è Rhys –
Jasper e Monty mi guardarono con circospezione, poi sorrisero e mi strinsero la mano in un gesto sincero; forse non tutti i cento mi sarebbero andati contro, forse avevo davvero una possibilità per cambiare vita e dimenticare il passato. Sinceramente ci credevo molto poco, ma per adesso mi piaceva illudermi almeno un po’:
- Quando si parte? – domandò Jasper euforico.
- Adesso – dissi con determinazione – Spero che torneremo entro domani mattina –
Lanciai un’occhiata veloce a Finn con la quale trasmisi il mio disappunto per la sua presenza, poi mi diressi verso la navicella dove presi uno zaino con le cose essenziali per il viaggio ed una volta controllato il contenuto me lo misi in spalla; mentre mi voltavo per tornare dagli altri davanti a me trovai Octavia che mi osservava incuriosita:
- Organizzate una festa? – domandò eccitata.
- No, andiamo a recuperare le provviste sul Mount Weather – risposi passandole accanto senza badarle troppo.
- In quanti siete? – continuò mentre mi veniva dietro.
- Quattro – prima che potesse elaborare la mia risposta capii dove voleva andare a parare. In tutta onestà non avevo nulla contro Octavia, anzi, rappresentava in tutto e per tutto le ingiustizie che si svolgevano a bordo dell’Arca; il problema era suo fratello, ed io non volevo altri guai oltre a quelli che già avevo di fronte ma alla fine ascoltai il mio buon senso e cedetti alla sua ingenuità – Se vuoi puoi venire con noi –
Il volto della ragazza si illuminò di gioia ed annuì con vigore, ricambiai il sorriso e raggiunsi Jasper, Monty e Finn che erano già pronti per partire, quando vidi Bellamy venire verso di noi con un’espressione contrariata sul volto:
- Dove credi di andare tu? – domandò alla sorella.
- Ad aiutare Rhys a prendere le provviste – rispose lei alzando le spalle.
- Non se ne parla! È troppo pericoloso –
- Bel, smettila! Ho vissuto sedici anni rinchiusa, ora che sono qui voglio vivere, essere libera! – insistette lei.
Bellamy la guardò addolcendo lo sguardo; non mi fidavo affatto di lui ma era evidente che teneva a sua sorella più di ogni altra cosa. Alla fine cedette ed annuì leggermente, ma prima di andar via si voltò verso di me riservandomi una strana occhiata. Ricambiai lo sguardo non capendo in realtà dove volesse andare a parare e continuai a sostenerlo finché non fui costretta a voltarmi. Iniziammo a camminare per i boschi guardandoci attorno ammirando ciò che per tutta la vita avevamo solo potuto immaginare; avrei dato qualsiasi cosa pur di poter condividere la bellezza della terra con mia sorella, qui saremmo potute vivere in tranquillità senza che nessuno giudicasse le mie azioni, senza che fossi costretta a nascondere la vera me dietro una maschera di costante freddezza e diffidenza. Saremmo state finalmente libere. Il tempo scorreva e noi non ne avevamo il controllo, non sapevo da quanto tempo eravamo in cammino, potevano trattarsi di minuti come di ore ma in questi boschi così estranei era tutto paurosamente uguale che non ti lasciavano la possibilità di trovare punti di riferimento o di renderti conto se quella strada era già stata percorsa o meno. Il sole che filtrava tra la coltre erbosa degli alberi andava a creare degli affascinanti giochi di luce che illuminavano di un ombra dorata ogni cosa rendendo il paesaggio quasi come un immagine onirica proiettata direttamente da un sogno. E forse lo era. Sembrava tutto così bello e perfetto per essere reale. Man mano che avanzavo e mi perdevo nella folta nube dei miei pensieri mi isolai da ciò che mi circondava dando poco peso al fatto che non ero sola e procedetti il più spedita possibile superando gli altri di qualche metro. A riportarmi alla realtà furono dei passi frettolosi dietro di me e non ebbi bisogno di voltarmi per sapere a chi appartenevano:
- Per quanto continueremo ad ignorarci così? – mi domandò Finn con una punta di disapprovazione nella voce nascosta dalla malinconia.
Continuai a camminare senza rispondere alla sua domanda; avevo lo sguardo rivolto verso il terreno facendo attenzione a dove mettevo i piedi ma lui sapeva benissimo che era un modo per ignorarlo. Lo sguardo di Finn era puntato sulla mia schiena e ne potevo percepire l’intensità ma non mi interessava cosa provava o pensava, più mi stava lontano meglio era per entrambi, purtroppo non sarebbe stato facile per due motivi: il primo, quello che continuavo a raccontarmi nella speranza che mi convincesse, era il fatto che eravamo stati catapultati in una situazione più grande di noi dove per sopravvivere bisognava contare l’uno sull’altro. Il secondo invece era un altro paio di maniche. Cercavo di nasconderlo il più in profondità possibile in modo tale che non sarebbe mai saltato fuori ponendomi in una situazione decisamente scomoda. Era dura doverlo evitare, dovevo ammetterlo. Cancellare dalla mia memoria ogni attimo passato assieme e sostituirlo con odio, rancore e brutti ricordi. Finn era stato il primo ragazzo che mi aveva fatto innamorare, che si era preso cura di me e di Jess senza riserve e che mi aveva fatto sentire parte, dopo tanto tempo, di qualcosa molto simile alla parola famiglia. Poi tutto finì improvvisamente poche settimane dopo il mio arresto, costringendomi una volta per tutte a svegliarmi dal sogno idillico per tornare alla vita dell’Arca che per quanto crudele e spietata fosse, era l’unica che avessi mai conosciuto. Tre anni. Passarono tre lunghissimi anni da quel giorno fino ad oggi ed ancora la sola vista di Finn mi provocava emozioni contrastanti… un misto tra l’odio ed i residui di ciò che provavo per lui in passato. Jasper e Monty ci avevano superato rivolgendoci uno sguardo incuriosito ed ora si trovavano pochi metri davanti a noi ad ammirare la rigogliosa vegetazione assieme ad Octavia che si guardava attorno con un’espressione di pura meraviglia disegnata sul volto. Avanzai ancora di qualche passo quando ad un tratto mi sentii afferrare per un braccio e fui costretta a voltarmi incontrando così lo sguardo tormentato di Finn:
- Cosa vuoi? – gli domandai con durezza.
- Non possiamo continuare con questa storia, Rhys, e lo sai – fece un sospiro – Non posso e non voglio ignorarti… - sussurrò mentre faceva scorrere la mano lungo il mio braccio con l’intenzione di afferrare la mia.
- Invece è quello che ho intenzione di fare io – risposi – Se questa situazione che si è creata non ti piace potevi restartene al campo! –
Feci per voltarmi ma lui mi trattenne rischiando di mandare in frantumi quella poca pazienza che mi era rimasta. Più lo guardavo negli occhi, più riuscivo a vedere tutte le emozioni che vi albergavano: paura, tristezza, rabbia, disperazione ma anche quello che all’apparenza credevo fosse amore. Già, amore. Quell’amore che avrei pensato mi avrebbe potuto dare, ma che invece alla fine riservò ad un’altra quando avevo più bisogno della sua vicinanza. No. Non potevo perdonarlo anche se in fondo bramavo di farlo:
- Non puoi chiedermi questo! – esclamò Finn afferrandomi per entrambe le braccia e scuotendomi con vigore.
- Oh si che posso, credimi! Non capisci che non voglio avere più niente a che fare con te?! – risposi con durezza cercando di trattenere la rabbia più che potevo liberandomi dalla sua presa.
Lo guardai ancora per qualche secondo, poi lasciai andare un sospiro sofferto socchiudendo gli occhi. Ero stanca di arrabbiarmi, di rivangare il passato e starci male; da oggi in poi avrei cambiato il modo di relazionarmi con Finn soprattutto ora che vi era un contesto di priorità assoluta rispetto ai nostri problemi, così decisi che avrei affrontato la situazione semplicemente ignorandola, cercando di mettere tutto da parte e trattarlo con freddezza. Non avevo più voglia di litigare con lui e il fatto di vederci per la prima volta dopo tanto tempo peggiorava la situazione visto che portava a gettarci in faccia solo rancore, rabbia e sentimenti repressi che non facevano altro che logorarci dentro spingendoci al limite delle nostre forze. Ed eravamo solo al primo giorno. Come sarei sopravvissuta a questo clima senza uscirne provata e decisamente ancor più fragile? Non lo sapevo. Ma dovevo trovare un modo per equilibrare ogni singola
emozione, nasconderla se necessario. Tutto fuorché falle uscire; purtroppo però sapevo che per quanto avrei voluto mantenere questa immagine di me, alla fine avrei ceduto:
- Non mi sembra il momento adatto per parlarne – alla fine lui annuì leggermente e mi lasciò andare.
Avevo raggiunto Jasper, Monty ed Octavia mentre Finn era in testa al gruppo e dopo pochi attimi di silenzio alla fine Monty pose ad alta voce la domanda che fino ad ora nessuno si era posto:
- Perché ci mandano sulla qui sulla Terra dopo ben 97 anni? Cosa sperano sia cambiato? –
- Forse hanno rilevato qualcosa, dei cambiamenti – ipotizzò Finn.
- O forse si erano stancati di fluttuare nello Spazio – scherzò Jasper.
- È probabile che un satellite meteo sia passato sulla Terra mostrando qualcosa… - continuò Monty seguendo la linea di pensiero di Finn.
Nessuno di loro era neanche un minimo vicino alla verità. In realtà non avevano rivelato il motivo per il quale ci avevano spedito quaggiù, solo io ne ero a conoscenza perché me ne aveva parlato Abby e forse era il momento di rivelarlo anche agli altri:
- Non si tratta di nessun satellite – dissi mentre continuavo a camminare.
- E di cosa allora? – domandò Monty mentre si avvicinavano a me per sentire meglio.
- L’Arca sta morendo – feci una piccola pausa, poi ripresi – Con il livello di popolazione al quale siamo arrivati ci restano si e no quattro mesi di autonomia, dopodiché saremo tutti morti –
Calò un silenzio glaciale mentre cercavano di elaborare più in fretta possibile quella notizia sconvolgente. Mi voltai e l’unica cosa che vidi sui loro volti fu la confusione mista ad un pizzico di paura. Finn alzò lo sguardo da Terra ed incontrò il mio, nei suoi occhi leggevo preoccupazione ma non per la situazione in cui eravamo, bensì per il fatto che io conoscessi informazioni molto più che riservate:
- Come fai a sapere certe cose? – sussurrò ancora con quell’espressione stampata sul volto che portò anche gli altri tre a guardarmi in modo strano.
- Me lo ha detto qualcuno del Consiglio – rimasi sul vago.
Non aggiunsi altro e mi voltai nuovamente ma per l’ennesima volta, durante la giornata, l’inconfondibile presa di Finn si serrò attorno al mio braccio costringendomi stavolta a fronteggiare non solo lui ma anche Jasper, Monty ed Octavia:
- Rhys, spiegati – disse Finn con determinazione – Chi ti ha detto questo? – ripeté.
- Abby Griffin – dissi con un sospiro mentre Finn lasciò il mio braccio – È stato suo marito a scoprire la falla – ricominciai a camminare e gli altri mi si raggrupparono intorno per sentire meglio – Voleva dirlo a tutti ma il Consiglio non era d’accordo, poi Wells, il figlio del Cancelliere l’ha denunciato tradendo la fiducia di Clarke e condannando suo padre ad essere lanciato nello spazio – terminai con voce flebile al pensiero di quando Clarke entrò nella mia cella in lacrime raccontandomi cosa era successo.
- È per questo che hanno rinchiuso anche lei? – domandò Jasper.
- Si – annuii leggermente.
Non dissi altro, continuai a camminare sommersa dai miei pensieri; ascoltavo a malapena le loro conversazioni per quanto ero preoccupata in cosa ci stavamo andando a cacciare, dopotutto per noi questo era un territorio sconosciuto che avrebbe potuto nascondere qualsiasi tipo di pericoli. Passò sicuramente un altro paio di ore, quando ad un tratto Jasper si fermò e mi guardò con aria incuriosita come se stesse aspettando una risposta:
- Cosa c’è? – domandai perplessa.
- Non mi stavi ascoltando? – ridacchiò.
- No, scusami, ero sovrappensiero – sospirai alzando leggermente le spalle.
- Ti ho chiesto qual è stato il motivo per cui ti hanno arrestata – il mio cuore perse un battito a quella domanda – Si, insomma, nessuno lo sa… come mai? –
A Jasper si erano avvicinati anche gli altri, probabilmente tutti desiderosi di sapere la causa del mio imprigionamento. Su una cosa si sbagliava però, Finn lo sapeva. Era l’unico che conoscesse fin nei minimi dettagli ciò che mi era successo e ciò che mi aveva spinto a fare determinate cose pur di condurre una vita decente non tanto per me quanto per mia sorella Jess. Sospirai pesantemente e distolsi lo sguardo dai loro occhi curiosi che continuavano a scrutare ogni minima espressione del mio volto; non ero il tipo di persona che si confidava così facilmente con degli sconosciuti, non più almeno, soprattutto per qualcosa di così personale e grave. Ma il peso che avevo nel petto richiedeva a gran voce di essere alleggerito, di essere liberato in modo tale da darmi sollievo. Purtroppo per me non potevo dirlo. Anzi, mi vergognavo ad ammetterlo. Mi sentivo come se fossi sporca, macchiata da una colpa orribile che non mi sarei mai scrollata di dosso neanche se l’avessi desiderato con tutta me stessa. Da lontano percepii un leggero fruscio come di un ruscello che scorreva tra le rocce e quel suono mi rilassò un po’ ma la parte razionale di me sapeva che Jasper, Monty ed Octavia stavano ancora aspettando una risposta. Distolsi lo sguardo dal punto imprecisato del bosco dove l’avevo puntato e tornai alla realtà ma prima di guardarli negli occhi il mio sguardo si intrecciò involontariamente con quello di Finn che mi osservava con una certa preoccupazione; alla fine ruppi il silenzio:
- Ci sono molte cose che ho fatto per le quali mi hanno rinchiuso tre anni in isolamento – sussurrai mentre mi voltai e continuavo ad avanzare.
- Ad esempio? – chiese Octavia.
Mi fermai nuovamente e mentre gli davo le spalle socchiusi gli occhi cercando di capire se era il caso di dirlo o meno. Comunque alla fine lo avrebbero scoperto e se volevo veramente iniziare una nuova vita dovevo pur cominciare a fidarmi di qualcuno. Alla fine decisi che non avrei rivelato proprio tutto, solo una piccola parte del grande puzzle che era stato il mio arresto, solo una piccola parte per vedere se anche dopo quella rivelazione ci sarebbe stato ancora qualcuno disposto a fidarsi di me. Mi voltai nuovamente e guardandoli uno ad uno negli occhi dissi la parola che mi tormentava da ormai fin troppo tempo:
- Omicidio… -
Uscì come un sussurro che si perse nella leggera brezza che aveva iniziato a soffiare, ma sapevo che l’avevano sentito chiaramente. Non c’erano bisogno di parole, erano le loro espressioni a parlare per loro ed a lasciarmi intendere che quella sarebbe stata l’ultima cosa che si sarebbero mai immaginati. Non aggiunsi altro. Né i come, né i perché e né i ma. Lasciai a loro la facoltà di decidere ed immaginare ogni motivazione plausibile che mi aveva portato a compiere quel gesto disperato che non era stato neanche l’unico a garantirmi il carcere; concessi loro una scelta, li misi alla prova per vedere se al giorno d’oggi esisteva ancora qualcuno pronto a mettere da parte i giudizi ed i pregiudizi per guardare oltre il muro dietro il quale tutti noi cercavamo rifugio:
- Oh… - furono le uniche “parole” che furono pronunciate dopo la mia rivelazione.
Ripresi a camminare guardandomi attorno ma potevo percepire perfettamente gli sguardi che mi venivano riservati da dietro e i sussurri che si scambiarono; Finn mi raggiunse e cominciò a camminare di fianco a me, sapevo che non era d’accordo con ciò che avevo fatto e che stava cercando di pensare ad un motivo che potesse giustificare il mio gesto. Infine cedetti e gli diedi la soluzione cosicché avrebbe smesso di arrovellarsi inutilmente:
- Lo avrebbero scoperto prima o poi – feci spallucce – Quindi perché continuare a nasconderlo? –
Fece per rispondere ma si interruppe sorpreso da qualcosa: Octavia ci era sfrecciata davanti con un sorriso stampato sul volto, allungai il passo per seguirla tra la vegetazione ed infine mi fermai sorpresa da ciò che mi appariva davanti. Il rumore d’acqua che poco fa avevo sentito non si trattava affatto di un semplice rigagnolo d’acqua, ma era un abbondante corso d’acqua che si trasformava in un laghetto proprio sotto i nostri piedi. Dalla sponda dove ci eravamo fermati si apriva un fantastico paesaggio: il bosco terminava proprio vicino la sponda del fiume per poi riprendere dalla parte opposta in una sterminata distesa verde, permettendo così al flusso d’acqua di attraversarlo; verso sinistra la scogliera man mano che si procedeva con lo sguardo si abbassava fino ad arrivare a diretto contatto con la ghiaia che si trovava vicino l’acqua, mentre sulla linea dell’orizzonte, in lontananza, si distinguevano alti monti che sembravano toccare il cielo e perdersi tra le nuvole. Ero su questo pianeta da neanche un giorno e già mi aveva stupito così tante volte da farmi rimanere senza parole; la bellezza di questo luogo era indescrivibile, ti riempiva il cuore e gli occhi di meraviglia portandoti a pensare, nei remoti angoli della mente, che poteva far parte tutto di un sogno. Ma non lo era. La bellezza che avevo di fronte era reale, il sole che mi scaldava il volto era reale, l’acqua che scorreva con un suono dolce ed armonioso nel silenzio era reale e l’aria, soprattutto quella, era reale. Octavia non perse altro tempo e, dopo essersi tolta parte dei vestiti, si tuffò in acqua provocando un sonoro tonfo; ci avvicinammo alla riva ed ammirammo la superficie azzurra che rifletteva il paesaggio circostante come uno specchio. Dovevo ammettere che era invitante e mi sarebbe piaciuto concedermi qualche minuto di riposo visto che camminavamo senza sosta da molte ore:
- Forza, che aspettate, tuffatevi! – ci chiamò Octavia.
- Ma non sappiamo nuotare –rispose Monty.
- Non c’è bisogno –
Octavia si mise in piedi mostrandoci che il livello dell’acqua era basso, Jasper non se lo fece dire due volte e subito cominciò a togliersi la giacca ma ad un tratto si fermò e cominciò a fissare la superficie del laghetto con aria perplessa. Mi voltai anche io ed aguzzai la vista cercando di capire cosa aveva attirato la sua attenzione, quando ad un tratto, verso la curva che prendeva il fiume verso l’orizzonte, l’acqua si increspò creando una piccola onda che si avvicinava velocemente alla figura di Octavia; sia io che Jasper ci avvicinammo alla riva e lui gridò:
- Octavia! Esci dall’acqua –
La ragazza si voltò seguendo la direzione dei nostri sguardi ed una volta che individuò ciò che si muoveva nell’acqua cercò di uscire ma la creatura era troppo veloce e nel giro di qualche secondo la raggiunse afferrandola per le gambe e sparendo subito dopo. Rimanemmo allibiti. Fermi, immobili come se fossimo in uno stato di trance. Avevo gli occhi sbarrati e fissavo il punto in cui poco fa c’era Octavia mentre il cervello ancora cercava di elaborare l’accaduto. Non potevamo perdere altro tempo, dovevamo aiutarla. Sbattei le palpebre riprendendomi dal torpore che mi aveva avvolta e mi avvicinai a riva più che potei scendendo dalla scogliera, Jasper e gli altri mi seguirono ed insieme perlustrammo il lago ma di Octavia nemmeno l’ombra. Improvvisamente ci fu un altro suono simile al precedente, ci voltammo di scatto e vedemmo che la creatura teneva ancora Octavia per la gamba:
- Dobbiamo fare qualcosa prima che la porti nuovamente sott’acqua! – gridai.
Mi guardai velocemente attorno facendo lavorare il più in fretta possibile la testa in cerca di un’idea per aiutare Octavia a liberarsi; improvvisamente un piano prese forma dentro di me ed anche se poteva non funzionare era l’unica alternativa che avevamo:
- Ragazzi ho un piano – esclamai e loro annuirono pronti ad eseguire – Jasper tu va vicino alla riva e sta pronto a tirar fuori Octavia – lui fece un cenno e corse subito in posizione, poi mi rivolsi a Monty e Finn – Vedete quei sassi lì in basso – li indicai – Li faremo cadere in acqua in modo tale da creare movimento ed attirarla verso di noi –
Entrambi furono d’accordo e senza perdere tempo prezioso ci mettemmo al lavoro facendo cadere in acqua delle pesanti pietre; fortunatamente riuscimmo nel nostro intento e la creatura lasciò andare Octavia, che fu recuperata da Jasper, per dirigersi dalla parte opposta ed alla fine sparire. Appena entrambi si accasciarono a riva corremmo verso di loro, mi inginocchiai di fronte alla ragazza e la esaminai costatando, con mio grande sollievo, che stava bene a parte un superfluo graffio sulla gamba che fasciai usando un pezzo della maglietta di Jasper:
- Come ti senti? – le domandò Finn.
- Sto bene, grazie – rispose ancora leggermente scossa.
- Ce la fai ad alzarti e camminare? – le chiesi poggiandole con delicatezza una mano sulla spalla.
- Credo di si –
Fortunatamente Octavia riusciva a camminare abbastanza bene e la ferita sembrava né essere profonda o dargli fastidio, così, una volta recuperate le nostre cose, decidemmo che per quella notte sarebbe stato meglio accamparci e continuare le ricerche la mattina dopo. Per oggi avevamo camminato abbastanza, la stanchezza cominciava a farsi sentire soprattutto dopo l’esperienza di poco fa che ci aveva fatto capire quanto questi territori potevano essere pericolosi e selvaggi. Dopo aver trovato un posto abbastanza riparato nel bosco si addormentarono tutti abbastanza in fretta tranne me; avevamo deciso che accendere un fuoco sarebbe stato troppo rischioso, così ci arrangiammo ad avere un po’ di luce con la piccola torcia che avevo trovato dentro lo zaino. Rimasi seduta vicino a loro per non so quanto tempo ma alla fine demotivata dal fatto che non sarei riuscita a dormire mi alzai allontanandomi di qualche passo finché non trovai un posto da dove si scorgevano i monti e rimasi lì, ferma, a contemplare il paesaggio sommersa dai miei pensieri. Era una serata limpida e stellata, la Luna torreggiava fiera irradiando la sua luce su tutta la foresta tingendola di una leggera sfumatura argentea; istintivamente alzai lo sguardo verso il cielo e pensai agli abitanti dell’Arca. Pensai a Clarke, a Jess e a tutte quelle povere vittime che non erano a conoscenza del lento disfacimento di quella che per tutti questi anni avevano chiamato “casa”. Non appoggiavo affatto le decisioni del Consiglio, prima fra tutte quella di lasciare all’oscuro i suoi abitanti del fatto che se non avessero trovato una soluzione probabilmente sarebbero morti tra qualche mese; l’unico uomo coraggioso che aveva avuto la forza di contrapporsi a chi gli era contrario fu il padre di Clarke e per quello fu giudicato un traditore e condannato a morte. Ricordavo quel giorno come se fosse ieri… il tradimento di Wells segnò per sempre la vita di Clarke e da quel giorno entrambe giurammo di odiarlo. Oggi avevo imparato qualcosa di fondamentale su questo pianeta: non era nostro, non più almeno. Dopo la scomparsa della razza umana da esso la natura aveva preso piede impossessandosi di nuovo di ciò che era suo milioni di anni fa. No, non avevamo alcun diritto a stare qui, nessun diritto a reclamare qualcosa che in primis non era mai stato nostro e che 97 anni fa avevamo distrutto. Qualcosa di cui dovevamo prenderci cura senza abusarne ma che invece fu sfruttato fino al limite dell’immaginabile; nonostante avessi trascorso tre anni in isolamento mi era concesso di leggere, così appena potevo mi facevo portare i libri che parlavano della storia della Terra e da essi imparai non solo la grandezza dell’uomo e delle sue scoperte, ma anche la sua infinita crudeltà. Molte erano state le guerre che questo pianeta aveva visto: morte, distruzione e disperazione da parte delle persone innocenti che erano in balia degli eventi del loro tempo fino a quando ci fu la “resa dei conti” e l’uomo si distrusse da solo firmando la sua condanna a morte e restituendo alla Terra ciò che le era stato strappato via con violenza. Eravamo degli ospiti, per non dire intrusi, le nostre leggi qui non valevano ma dovevamo essere noi a sottostare al volere di qualcosa di più grande e fuori dalla nostra portata; tutto era tornato allo stato brado, non c’era legge che tenesse se non quella della natura. Questi erano territori selvaggi che nascondevano chissà quali segreti sviluppati in anni ed anni di completa solitudine, magari gli animali che vi abitavano erano mutati subendo gli effetti delle radiazioni ed ora si erano create nuove specie, chissà… Solo una cosa però era certa: stavolta se volevamo davvero vivere dovevamo assicurarci di non ripetere gli stessi errori del passato:
- Ehi, eccoti qui – sussurrò la voce di Finn alle mie spalle – Mi sono svegliato e non ti ho trovato, pensavo ti fosse successo qualcosa… - l’apprensione nella sua voce era tangibile.
- Beh, ora che ti sei accertato che sono viva e vegeta puoi anche tornare a dormire – risposi senza voltarmi continuando a far vagare lo sguardo sul paesaggio.
- Non ho molto sonno – fece qualche passo e si avvicinò rimanendo ancora dietro di me – E poi c’è una domanda che mi ronza in testa da un po’ –
- Riguardante cosa? – domandai fingendomi interessata.
- La tua discussione con Wells – stavolta la sua affermazione catturò veramente la mia attenzione. Ovviamente Finn aveva intuito che in quell’episodio c’era qualcosa di molto più di ciò che si voleva dare a vedere.
- E allora? – domandai fingendomi estranea a ciò che stava dicendo.
- Rhys, perché ti hanno spedito quaggiù!? – domandò con più fermezza
- Perché sono una criminale – risposi con un sorriso sarcastico.
– Ti prego, dimmi la verità… -
- Non sono cose che ti riguardano – risposi con freddezza distogliendo ancora lo sguardo. Era più forte di me, non riuscivo a guardarlo negli occhi per troppo tempo. In passato avevo amato quelle iridi colme di sentimenti che riservava solo a me, ma da quando le cose tra noi si erano rovinate e lui mi aveva lasciata, lì dentro riuscivo solo a vedere un mondo di bugie che mi portavano a dubitare del nostro passato insieme.
- Ti prego… non tagliarmi fuori così –
Stavolta quando tornai a guardarlo in faccia notai la disperazione. Una disperazione che ormai non si nascondeva più solo nell’ombra dei suoi occhi scuri, ma che era uscita allo scoperto dando sfogo alla sua intensità irradiandosi in ogni angolo di lui; il muro che avevo innalzato per separarci si incrinò leggermente sotto il peso dei ricordi e forse fu un momento di debolezza a farmi parlare…:
- Io non dovevo far parte dei cento – dissi in tono assente con lo sguardo che si perdeva nuovamente nel vuoto più assoluto.
- Lo sapevo… - sentii astio nella sua voce, rabbia ed anche paura mentre i suoi sospetti prendevano forma dimostrandosi reali – Cosa è successo? –
- C’è stato uno scambio – sospirai socchiudendo gli occhi. Ci fu una pausa da parte di entrambi e quando tornai a guardare verso Finn la sorpresa e l’orrore sul suo volto mi portò a continuare il racconto – Il giorno prima Abby è entrata nella mia cella chiedendomi di prendere il posto di Clarke altrimenti avrebbe rivelato a tutti il mio segreto –
Finn scosse la testa incredulo rimanendo senza parole dopo la rivelazione che gli avevo fatto riguardante la mia presenza qui. Il silenzio tra di noi era assordante nonostante i suoni della foresta; nessuno dei due aveva la forza di dire altro, ciò che gli avevo appena rivelato era sufficiente per capire quanto l’uomo poteva mostrarsi spietato pur di sopravvivere anche solo per qualche mese in più:
- Perché hai accettato? – domandò spezzando il muro di silenzi con cautela, come se fosse spaventato dalla risposta.
- Clarke è mia amica e non potevo abbandonarla così dopo tutto quello che le è successo l’anno scorso – mi passai una mano tra i capelli.
- E non hai pensato a tua sorella!? – domandò con disapprovazione.
- Ma non ci arrivi proprio! – alzai la voce innervosita dalla sua affermazione – È proprio per questo che mi trovo qui! Se non avessi accettato ed Abby avesse rivelato il mio segreto sarei morta! Non avrebbero perso due secondi in più per lanciarmi nello spazio! – feci una pausa per riprendere fiato dopo quello sfogo di rabbia, poi ripresi – Qui almeno ho una possibilità sia per me che per Jess –
- Non ci ha pensato neanche due volte a sacrificare te… - disse con voce tremante.
- Te l’ho detto… sono una criminale, Finn, cosa ti aspettavi? – feci spallucce arrendendomi a ciò che tutti mi dicevano di essere – E come tale sono sacrificabile, tutti lo siamo… -
La mattina dopo ci svegliammo che il sole era già alto da qualche ora, l’aria era piacevolmente fresca e smuoveva le chiome degli alberi provocando un dolce suono che si propagandava per tutta la foresta. Dopo aver raccolto le nostre cose ci rimettemmo subito in viaggio e visto che per raggiungere il Monte dovevamo per forza passare dal fiume cercammo un modo di passare senza farci sbranare dalla creatura che viveva nell’acqua, quando ad un tratto Jasper ebbe l’ottima idea di costruire una corda con le liane che pendevano dagli alberi vicino la scogliera dandoci così la spinta per lanciarci dall’altro lato. Dopo qualche ora di lavoro alla fine riuscimmo nel nostro intento e prima di tentare ad usarla sfruttammo qualche altro minuto per sederci su quelle sponde e goderci il sole e l’aria, le cose che più ci mancavano nello spazio. Mi sedetti su un masso accanto ad Octavia che non la smetteva di riempirsi gli occhi della meraviglia di questo posto, e come biasimarla? Aveva passato la sua intera vita rinchiusa ed ora, anche se spedita in una missione pericolosa, si sentiva più libera che mai:
- Come va la gamba? – le domandai.
- Sto bene, non sento dolore – sorrise leggermente.
- Posso dare un’occhiata? – lei annuì.
La aiutai a tirar su il pantalone ed una volta scoperta la gamba tolsi il pezzo di stoffa che avevo usato per tamponarle la ferita e guardai con attenzione: fortunatamente era qualcosa di superfluo e non c’erano segni d’infezione. Dovevo ammettere che era stata davvero fortunata. Mi alzai e mi diressi verso la sponda del lago dove intinsi la benda per poi tornare indietro e pulire il sangue secco attorno al graffio:
- Dove hai imparato? – mi chiese Octavia.
Quella domanda mi bloccò per qualche secondo per i ricordi che riaffiorarono. Era stata mia madre. Lei faceva parte dell’ équipe medica assieme ad Abby che, guarda la coincidenza, era la sua migliore amica. Anche se avevo passato poco tempo con lei, vista la sua precoce scomparsa, mi aveva insegnato molto e non parlo solo delle nozioni mediche ma anche dell’amore verso gli altri, della generosità e senso di sacrificio, valori che avevo sempre giudicato come il piccolo tesoro che mi aveva lasciato ma che purtroppo fui costretta ad abbandonare quando scoprii che la vita non era considerata un diritto sull’Arca ma solo una concessione:
- È stata mia madre – risposi con un sussurro mentre riavvolgevo la stoffa attorno alla ferita.
- Dev’essere preoccupata per te sapendo che ti hanno spedito qui – disse con un pizzico di malinconia e forse, cosa? Invidia?
- È morta tempo fa – alzai lo sguardo ed incontrai quello sorpreso di Octavia; continuai – Mentre mio padre è stato lanciato quando avevo sette anni –
- Mi dispiace – era sincera glielo leggevo negli occhi; poteva anche essere una ragazza un po’ immatura e in certi casi incosciente, ma capiva cosa voleva dire soffrire – Anche i nostri genitori sono morti – le rivolsi un sorriso di solidarietà che lei ricambiò.
- Ma hai la fortuna di avere un fratello –
- Si – annuì guardando in basso – Ha fatto di tutto pur di proteggermi e nascondermi ma alla fine non è servito a nulla –
- Anche io ho una sorella – alzò di colpo la testa sorpresa – In realtà non abbiamo lo stesso sangue… - le raccontai di Rose l’amica di mia madre che mi aveva aiutato dopo la sua morte finché anche lei non subì la stessa fine ed io mi presi l’incarico di accudire sua figlia Jess di tre anni come se fosse parte della mia famiglia.
- È stato un bel gesto… non capisco perché tutti devono temerti così – scosse la testa.
- Hanno le loro buone ragioni che vanno oltre ciò per cui mi hanno rinchiuso – dissi alzandomi in piedi.
- Che cosa intendi? – domandò aggrottando le sopracciglia.
- Mi dispiace ma ora non ho voglia di parlarne –
Lei annuì semplicemente e mi sorrise, ma prima che mi allontanassi parlò ancora:
- Grazie –
- Non devi ringraziarmi –
Mi allontanai da lei e mi diressi verso gli altri che mi garantirono che la liana costruita era abbastanza solida da poter reggere la traversata, così pochi minuti dopo eravamo tutti sulla scogliera pronti ad attraversare il fiume per dirigerci finalmente verso Mount Weather e le sue provviste. Il primo a voler tentare fu Jasper che si scambiava occhiate d’intesa con Finn e Monty mentre di tanto in tanto guardava con un sorrisetto verso Octavia che lo incoraggiava. Era strano come un sentimento simile all’amore potesse albergare in noi trovandoci in un territorio straniero e, a quanto ne potevamo sapere, colmo di insidie e pericoli, eppure c’era. L’amore muoveva tutte le nostre azioni anche qui sulla Terra, la voglia di trovare quelle provviste, la voglia di sopravvivere e soprattutto la voglia che avevamo tutti di ricominciare una nuova vita su questo pianeta assieme alle persone a cui tenevamo di più e che ci aspettavano sull’Arca. Alla fine Jasper prese coraggio e, si lanciò aggrappandosi con forza alla corda di tralicci che dopo un volo di alcuni metri lo lasciò cadere sull’altra riva; si rialzò quasi subito con un’espressione di gioia ed esaltazione sul volto mentre si lasciava andare in grida di gioia seguite a ruota dalle nostre:
- Guardate che cosa ho trovato! –
Tirò su un pezzo di plastica sporco ed annerito ma quando lo puntò nella nostra direzione la scritta “Mount Weather” si leggeva ancora e ciò scatenò in noi una nuova ondata di felicità, la prospettiva di sopravvivere ci dava la forza per continuare e magari con il cibo le cose sarebbero state anche più facili da affrontare. Eravamo talmente presi dall’euforia del momento che quando accadde ci colse tutti di sorpresa lasciandoci interdetti e senza spiegazione. Dalla vegetazione in alto alle nostre spalle volò qualcosa che per la sua velocità non riuscimmo a capire cosa fosse ma quando si andò a conficcare nel petto di Jasper mandandolo a terra capimmo. Era una lancia. La realtà di ciò che era appena accaduto mi colpì duramente al petto lasciandomi senza fiato: qualcuno l’aveva scagliata verso il nostro compagno. Qualcuno. Sgranai gli occhi e con andatura tremante mi voltai puntando lo sguardo verso gli alberi nella “speranza” di riuscire a capire cosa poteva essere successo ma niente sembrava avere senso. Avevo la mente annebbiata dalla confusione e dalle domande… qualcuno ci aveva seguito e sapeva che eravamo qui. Mi voltai nuovamente verso Jasper ma lui non si muoveva, sembrava… no, non volevo dirlo… non poteva essere vero. Mi avvicinai alla riva ma Finn me lo impedì riportandomi indietro con la forza finché non raggiungemmo tutti un punto nascosto dietro le rocce; avevo il respiro accelerato ma una parte del mio cervello, che non era ancora sotto shock, già stava elaborando l’accaduto e capito che ciò che era successo, anche se impossibile, era reale. Decisi che arrivata a questo punto non potevo più lasciarmi trascinare dalle emozioni negative come la paura, così mi alzai in piedi nonostante le proteste degli altri e mi diressi verso l’altura dove eravamo poco fa e guardando verso l’altra sponda sentii il cuore perdere un battito. Jasper era sparito. Ogni certezza vacillò, ogni speranza che fosse stato un incidente o qualunque altra cosa svanì nell’esatto momento in cui capii che negare l’evidenza era da stupidi; Monty, Finn ed Octavia mi raggiunsero e quando capirono cosa era successo li sentii trattenere il respiro dalla sorpresa:
- Ma cosa… - Monty non riuscì a completare la frase ma capimmo cosa intendeva dire.
- Non siamo soli – dissi ancora di spalle con voce ferma e sguardo severo dando voce ai pensieri degli altri.
Quando mi voltai per guardarli negli occhi capirono che qualcosa in me era cambiato, che ero più determinata e che avevo rinunciato ad un pezzo di me. Ora avevo capito le regole del gioco. Qualcuno era sopravvissuto sviluppando una nuova specie in un territorio ormai ostile e disagiato creando un mondo nuovo ed ora noi eravamo giunti rompendo, forse, una specie di equilibrio e l’attacco a Jasper era stato un avvertimento. Non avevo paura, non più, ora la cosa che doveva guidare le mie azioni doveva essere l’istinto e quello mi diceva che per nessun motivo dovevo abbandonare il nostro compagno in balia di chissà quale essere. Strinsi i pugni fino a farmi diventare le nocche bianche e con passo deciso riafferrai lo zaino e continuai in direzione del campo:
- Rhys, dove vai? Non possiamo abbandonarlo! – mi disse Monty parandosi di fronte a me per sbarrarmi la strada.
- Non lo faremo –
- Che cosa intendi fare? – domandò Finn con una certa preoccupazione nella voce, come se aveva già intuito tutto.
Mi voltai in modo tale da poter guardare tutti negli occhi, poi continuai:
- Adesso torneremo al campo, costruiremo delle armi e ci andremo a riprendere Jasper – terminai con voce glaciale; gli altri si guardarono tra di loro poi posarono nuovamente lo sguardo su di me ed annuirono. Bene, bentornati a casa e che la caccia abbia inizio.
 
 

~ANGOLO AUTRICE

Beneeeee allora ci sono un pò di cose lasciate in sospeso al riguardo di Rhys e che mano a mano scopriremo e che ci faranno capire come mai si sia spinta ad uccidere qualcuno. Bhè non vi resta che continuare a leggere se ne siete rimasti colpiti! E mi raccomando ancora una volta: mi farebbe moooolto piacere sapere i vostri pareri sulla storia, su cosa potrebbe succedere e le teorie che bi siete fatti. A presto un bacioneeee 😘😘😘😘

 

  
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