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Autore: Norwegian Wood    08/03/2015    0 recensioni
secondo capitolo dl romanzo. tengo divisa la storia per mia comodità. un mondo interiore che visto con i miei occhi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                     Cap 1.2
 
 
La chiamavamo cosi perché era un monolocale lasciato a Giamma da sua nonna dopo la sua morte. Da qualche anno veniva utilizzata solo da noi tre. Era il nostro rifugio. Birra, sigarette e cibo non mancavano mai, senza contare la presenza di play, computer e tv via cavo. Al centro della stanza avevamo messo un materasso matrimoniale che utilizzavamo nei modi più disparati. La tranquillità che provo sdraiandomi su quel materasso non riesce a darmela nessun altro luogo. Tutto scorre via, lasciandomi fluttuare beato in quella stanza.
Arrivo per le 16. Gibbo dopo qualche battuta demenziale mi chiede com’è andata con la Marta. Gli rispondo che non era la donna della mia vita, si mette a ridere. Dopo circa un’ora di cazzeggio Giamma ci porge una canna dicendoci che ci deve parlare.
La Giorgia ci propone un’uscita a coppie per farci conoscere delle sue amiche. Sto per rifiutare ma Gibbo mi ricorda che tra loro ce anche la Claudia, una sua punta. Accetto l’invito a malincuore, lo faccio solo per aiutare un amico. Quando vuole uscire con qualcuno vuol dire che è veramente cotto. Non è il classico ragazzo da una botta e via, esce solo con ragazze che gli piacciono veramente.
 
 Era fatto così, faceva quello che si sentiva di fare. Donava tutto se stesso in quello in cui credeva. La vita lo aveva schiaffeggiato ripetutamente ma non si era mai arreso. Credeva nei desideri, una volta mi disse: “che senso ha la vita se non diamo tutto noi stessi per i nostri sogni, i sogni sono il motore della nostra anima”.
Lo invidiavo. Se non fossimo stati amici probabilmente lo avrei odiato. Avrei voluto vivere come lui, fare la cosa giusta senza pentimenti o rimpianti.
Quando la vita mi colpì ne rimasi stupito. Mi voltai e iniziai a correre. Corsi a perdifiato per molti anni senza mai guardarmi indietro. Un giorno mi fermai; mi illudevo di averla seminata. Quando mi voltai lei era ancora lì, pronta a restituirmi tutte le botte che non era riuscita a darmi per tutto quel tempo. Piantai i piedi a terra pronto a fronteggiarla.
L’impatto fu tremendo. Precipitai nell’oscurità più profonda. Provai a reagire, mi divincolai alla ricerca di un appiglio per frenare la caduta. La speranza mi abbandonò. Il freddo limitava i movimenti, il buio mi offuscava la vista, la tristezza mi impediva di sognare. Smisi di lottare. Volevo andarmene da quella oscurità per potermi tuffare in un’altra. Non volevo più svegliarmi. Caddi per molti mesi, raggiunsi il fondo senza che il dolce riposo venne a prendermi.
Codardo fino in fondo. La morte non ama i vigliacchi, gli lascia vivere fino alla fine. Condannati a sopravvivere con i propri rimorsi. Se avessi avuto più coraggio probabilmente quel giorno mi avrebbe accolto fra le sue braccio, cullato dolcemente fino al sopraggiungere del Silenzio.
Dopo l’oscurità venne l’angoscia della solitudine. Mi schiantai su una città in rovina. Tutto era ricoperto da un freddo grigiore. Dalle case che un tempo sorgevano rigogliose come querce in un bosco restavano solo macerie. Ogni cosa era stata demolita, nulla si era salvato. Vagai per quella desolazione per un’infinità di tempo, i minuti parevano ore, le ora duravano giorni. In quel luogo tutto era fermo, congelato. Nel mio vagare trovai un idolo costruito con le macerie rubate alla città. Una statua imponente, con le fattezze di donna. Il volto era irriconoscibile. Il vento e l’acqua l’avevano percosso fino a renderlo una sagoma indecifrabile.
Finalmente capii. Quel luogo, quella città quella desolante solitudine, rappresentavano la mia anima. Tutto quello che avevo creato era stato distrutto per creare quell’idolo. Non era rimasto più niente. Restavo solo io con i miei ricordi. Non avevo la forza per ricostruire, volevo nascondermi da quella angosciosa visione. Volevo solo riposare in un luogo sicuro. Feci l’unica cosa che sapevo fare. Scappai. Prima di andarmene dovevo trovare un modo per proteggermi. Mi strappai le carni. Muscoli come mattoni, tendini come cemento e pelle come vernice. Ersi un muro talmente alto e robusto da rendere impossibile vedere il cumulo di ossa lasciato all’interno. Il dolore lo rendeva indistruttibile, il rimpianto lo rese insormontabile.
Partii. Ormai di me rimaneva solo una manciata d’ ossa e uno muro inespugnabile.
Arrivammo all’appuntamento una decina di minuti in anticipo. Gibbo era teso, sfoggiava il suo vestito migliore lasciando nell’aria un forte odore di profumo. Il locale non era affollato. Alcuni ragazzi ridevano rumorosamente sorseggiando birra. Sembravano non preoccuparsi del mondo. No, si rendevano conto di quanto tutto fosse sfuggevole la vita, la felicità, l’amore, le amicizie. Tutto era volatile. Ma a loro non interessava, volevano restare senza pensieri quella sera. Ci avrebbero pensato domani. Tutto era rimandato per potersi godere un attimo di felicità. Salutammo il proprietario e ci accomodammo al nostro solito tavolo. Il pub era stato ristrutturato di recente. L’ambiente era accogliente, chitarre e poster di vecchi gruppi jazz tappezzavano le pareti. Lo stereo diffondeva una piacevole canzone di Louis Armstrong. Adoravo quel posto, sembrava di tornare in dietro, un vecchi Jazz bar anni 50. L’atmosfera era calda e rumorosa, senza essere fastidiosa. Anzi dava l’impressione di essere molto intima.
Gibbo guardava nervosamente l’orologio. Doveva fare buona impressione per avere qualche possibilità. Le donne ne tengono in gran conto. Dalla prima uscita capiscono se potresti essere il padre dei loro figli oppure solo una buona scopata. Hanno un sesto senso per queste cose. Con uno sguardo intuiscono le tue intenzioni, ma spesso non le voglio ascoltare.
Sono stupende, non ce niente di più bello ed elegante di una ragazza che deve farsi notare. Le ore passate a truccarsi e a scegliere quale vestito indossare le rendono sicure di se. Tutto quel tempo si manifesta in aurea di sensualità. Donne, belle e letali. Sono loro a scegliere, a noi danno solo l’illusione di averle scelte. Superano ogni avversità senza farsi affondare. Non saranno mai sole, mentre l’uomo lo sarà per sempre, perchè troppo stupido per vedere la persona che gli sta accanto.
Ordino un gin fizz. Iniziano le solite chiacchere di cortesia, loro hanno già scelto, tutto il resto sono solo fronzoli e ricami su una tenda già tessuta. Gibbo conduce egregiamente la partita. Sporadicamente faccio qualche intervento ma principalmente penso ai fatti miei. Quanto ci mette PL a rispondermi? Sto per mandargli un altro messaggio quando la conversazione cade su un argomento interessante.
 “Che cos’è per voi la bellezza?” chiede Claudia.
Martina risponde:” penso sia qualcosa di oggettivo, condivisibile da tutti, una caratteristica che suscita emozioni condivisibili”. Gibbo annuisce sorridendo, deve fare buona impressione.
Guardo Martina dritta negli occhi:” Quindi quando una cosa è bella la vedono tutti allo steso modo?”
“Non nello stesso modo ma nessuno può negare che non lo sia”
Sorrido “quindi un quadro bello lo è per tutte le persone che lo guardano?”
Martina ci pensa qualche secondo poi risponde: “io intendo la bellezza estetica, per l’arte è un’altra cosa”.
La mia curiosità aumenta, forse qualcuno con un minimo di profondità intellettuale si trova ancora “Comunque anche la bellezza estetica è soggettiva, possiamo pensarla uguale sul termine Carino ma non sulla bellezza, inoltre non si può dividere in interiore ed esteriore. Rappresenta il tutto di una persona”.
Mi guarda con aria di sfida “Il termine bellezza deriva dal greco e significa simmetria, ordine. Caratteristiche oggettive”
“Come fai a dire che l’ordine è oggettivo, secondo quali criteri”
“Una scarpa è in ordine nella scarpiera non sopra un tavolo” risponde ridendo.
“Certo, però l’ordine trasmette uno stato di serenità e quiete molto soggettivo. La serenità che ti dà una persona dipende dalla risonanza tra le due anime. Una cosa bella ti fa stare bene perché ti dà tranquillità, mette in ordine la tua parte interiore”.
“Però i greci la intendevano come ordine generale, oggettivo. Inoltre gli studi mi danno ragione, non riuscirai a farmi cambiare idea”. Cerca di sbattermi in faccia la sua cultura accademica formatasi dopo qualche lettura classica. Siamo così vicini a far evolvere il discorso in qualcosa di più profondo. Mi sono illuso di poter dare spessore alla serata, troppe aspettative. Quando te le fai rimani sempre deluso. Non bisogna aspettarsi niente dalla vita così si può solo rimanere sorpresi.
Gibbo nota che mi sto alterando e mi sferra un calcio d’avvertimento. Mi ricorda che quella è la sua serata, non posso rovinargliela. Dopo qualche secondo di silenzio sposta la conversazione sui nuovi film che presentano al cinema. Torno a vagare tra i miei pensieri. Perchè mi sono arrabbiato? Era solo una conversazione con una mezza sconosciuta. La tristezza mi assale come una marea, lenta e inesorabile. La stanza inizia a starmi stretta, il brusio diventa insopportabile. Il mare si innalza. L’acqua mi arriva alle ginocchia e continua a salire vertiginosamente. Devo andarmene prima che strabordi. “Scusate ma è ora che vada, domani inizio a lavorare molto presto”. Saluto velocemente e mi avvio verso l’uscita.
Mentre guido numerosi pensieri affollano la mia mente. Voci, odori, suoni di un passato ormai lontano. Mi concentro sulla strada, conto i cartelli stradali cercando di mantenere una velocità costante. Perdo il conto. L’acqua mi sommerge. Annego nel mare della tristezza abbandonandomi alla corrente dei ricordi.
   
 
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