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Autore: formerly_known_as_A    08/03/2015    4 recensioni
Momotarou Mikoshiba è uno studente universitario di 21 anni, in un momento della vita in bilico tra l'adolescenza e l'età adulta.
Vive la routine come noia ed accoglie quello che i suoi colleghi chiamano numero della morte con l'entusiasmo di chi è davvero disperato.
La Morte, però, ha davvero una bella voce.
Genere: Science-fiction, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Momotarou Mikoshiba, Sosuke Yamazaki
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Dedicata a Lulu, per il suo *inserire numero a piacere* compleanno.



 

“Hai sentito quella storia del numero di telefono maledetto?”

Momo alza la testa, gli occhi che sfrecciano da una parte all'altra dell'ufficio fino ad individuare i due colleghi che pensano probabilmente di sussurrare, ma stanno chiaccherando abbastanza forte.

Momotarou ha 21 anni, è maggiorenne, ha persino questo lavoro stagionale in un ufficio con cui vuole risparmiare abbastanza da permettersi due settimane in Australia per la sua tesi sulla Rhipicera femorata. Tesi che dovrebbe scrivere ormai da anni, perché da quando ha scoperto quel buffo scarafaggio sa di voler assolutamente diffonderne la conoscenza ovunque nel mondo.

Nonostante l'età suggerisca una certa maturità, ormai, le parole dei colleghi lo attirano come farebbe una lampada con una falena. Li fissa ed aspetta che continuino, cercando nel contempo di non farsi notare dal supervisore.

“Sì, ma figurati se è vero! Quelle storie vanno bene solo per i bambini.”

“Bè, io ci credo... solo che non ho credito sul telefono e non ho ancora provato.”

Noshiyo, l'uomo che mente palesemente per paura di dover provare quella leggenda metropolitana, è un tipo sulla quarantina, di solito parecchio posato, ma stranamente interessato e spaventato allo stesso tempo da tutte le dicerie che circolano su misteriosi avvenimenti e fantasmi. Visto da fuori sembra un tipo a posto, i capelli che vanno ingrigendosi e l'espressione tranquilla, ma in coppia con Fukoshi si trasforma completamente.

Fukoshi era l'ultimo arrivato, prima che arrivasse Momo. È tecnicamente il suo senpai, anche se hanno la stessa età, ma dimostra si e no 12 anni per l'entusiasmo con cui ama trascinare Noshiyo in qualsiasi avventura pericolosa, fosse anche pinzare tutte le fotocopie che fa in modo artistico.

“Mikoshiba!” esclama Fukoshi, inclinando pericolosamente la sedia all'indietro e facendolo sobbalzare.

Momo si alza, perché un senpai che ha bisogno di aiuto non andrebbe ignorato secondo il regolamento interno, ma non fa in tempo ad arrivare alla scrivania del collega che quello gli prende il telefono.

Lo osserva con un momento di panico al pensiero che cancelli qualcosa o che guardi tra le foto e trovi qualcosa di compromettente -anche se non crede di aver mai scattato foto compromettenti, Momo si scopre ad arrossire- ma smette quasi subito con quella crisi quando glielo restituisce.

“Ti ho salvato il numero della morte, chiamalo stasera e dicci cosa succede!”

Momo fa una smorfia e si chiede se anche quello faccia parte delle mansioni che i suoi senpai possono addossargli.

 

Quando arriva a casa, la schiena a pezzi perché portare documenti su e giù dalle scale pare sia tra le sue competenze, Momotarou si lancia sul divano che gli serve anche da letto, nella stanza che gli serve anche da sala da pranzo e cucina.

Il suo appartamento a Tokyo è così minuscolo da non potersi muovere liberamente. Quando si sveglia di notte e ha sete, da una parte è molto comodo poter aprire il frigo dal divano, dall'altra tende a dimenticare di non essere a casa e i lividi sulle sue gambe ne sono testimoni.

Si gode quei quattro secondi che riesce a passare con la faccia sprofondata nel cuscino, l'impressione che un elefante gli sia passato sulla schiena che lo opprime quanto il silenzio che regna in casa.

Dovrebbe esserci abituato, invece oggi è peggio di ieri e ieri era peggio del giorno prima.

Sbuffa, lo stomaco che si lamenta, vuoto.

Guarda lo schermo del cellulare, gli occhi che scorrono più volte il numero di telefono che il collega gli ha salvato. Sfrega la guancia sul cuscino, sbuffando. Come può ridursi a pensare davvero di contattare uno sconosciuto, piuttosto che qualche amico rimasto nella sua città natale?

Rotola sulla schiena, posa il cellulare sulla fronte e si ritrova a chiedersi cosa poi ci sia di tanto sbagliato. In fondo, un po' ha voglia di vivere un'avventura bizzarra -sarebbe meraviglioso se a quell'indirizzo rispondesse qualche messaggio pre-impostato o se appartenesse a qualcuno che si finge un fantasma!- o restare a fissare il telefono senza che dia segni di vita per un po', ma comunque... smettere di pensare. Deve smettere di pensare.

Chiude gli occhi, sentendo la stanchezza portarlo verso l'incoscienza, ma si scuote per mettersi a sedere, altrimenti sa benissimo che salterà sia la cena che la colazione, perso nella catalessi.

Lascia il telefono sul divano, alzandosi per prepararsi qualcosa. Il frigo è vuoto, ma anche dopo che è andato a vivere da solo non ha magicamente preso l'abitudine di cucinare, quindi non è una novità. Anche il freezer risponde con la stessa eco.

Scuote la testa e torna al telefono, lo stomaco che non approva quel cambio di idea improvviso.

“Sei davvero la morte?” chiede all'apparecchio, come se si aspettasse veramente una risposta.

Decide di lasciar perdere e ha l'impressione che il suo umore peggiori nel momento stesso in cui prende la decisione. Non si lascia trascinare al divano un'altra volta ed esce di casa per comprare qualcosa al conbini all'angolo.

Comincia a far freddo per uscire con la giacca soltanto, ma il vento freddo lo sveglia, i pensieri che si fanno meno pesanti e più reattivi, pronti a renderlo entusiasta per qualsiasi cosa.

Di norma, Momo è sempre allegro. Non c'è niente che lo abbatta, niente che faccia vacillare le sue certezze. Però lavorare è una noia mortale, gli sembra di stare in mezzo a dei vampiri succhiasangue. I colleghi lo deprimono, il supervisore lo stressa e persino uscire con i compagni di corso non lo mette di buon umore.

Gli sembra passato un secolo dall'ultima volta in cui si è comportato come gli pare, senza dover per forza pensare alle conseguenze di un'azione o di un'altra. Non è un pazzo, non si comporta mai in modo pericoloso, ma è vero che è sempre stato pronto a lanciarsi in qualche impresa un po' strana, fosse esplorare una grotta o andare a caccia di insetti. È abbastanza contento che la seconda si possa anche trasformare nel suo futuro lavoro, ma lo deprime un poco non sentire l'entusiasmo di un tempo.

Sospira per l'ennesima volta in dieci minuti mentre entra al conbini e rapidamente riempe il cestino di cibo che richiede solo l'aggiunta di acqua calda o pochissimo sforzo per essere cucinato. Sua madre gli direbbe di tutto perché non sta praticamente mangiando frutta e pensandoci aggiunge qualche confezione di tè al mango alle buste colorate.

La cassiera lo fissa con un mezzo sorriso, contravvenendo alla tradizionale discrezione che la professione esige e pensando probabilmente che stia invitando amici per una serata davanti al televisore. Forse dovrebbe davvero fare un corso di cucina, pensa, tornando nell'aria fredda della sera.

Si è alzato un po' di vento, ma non importa. Respira a pieni polmoni anche se non è esattamente l'aria più pura del mondo, ma lo fa per svegliarsi ancora.

La verità è che non ha molta voglia di crescere. Crescere, trovarsi una ragazza fissa che non fugga alla prima manifestazione di quell'entusiasmo che è andato via a via a scemare con gli anni, magari sposarsi e passare il resto della vita a pensare alle bollette da pagare e a quante generazioni passeranno ancora prima che possa considerare propria la casa che ha comprato a rate.

Tokyo non è la sua città. È caotica e rumorosa esattamente come lui, ma è un caos che non è dovuto ai contatti tra le persone, quanto piuttosto ai muri di divisione che erigono per non avere niente a che fare con gli altri. È una vita triste, quella che gli si prospetta davanti.

Spinge la porta di casa con lentezza, ci appoggia la testa sopra appena la richiude, sollevando un muro di divisione dalla vicina anziana che deve averlo sentito, perché stava girando la chiave nella toppa. Anche lei è sola, parcheggiata dai figli dove possono controllarla regolarmente, ma non abbastanza da non farla sentire sola.

La sua presenza non dovrebbe dargli noia quanto sente, eppure gli sembra ogni volta di dover fuggire dalle sue parole, dalle offerte di cibo e dolci.

Più diventa solo e più vuole stare da parte, isolarsi. Parlare con qualcuno è diventato faticoso.

 

Prende uno snack dal pacchetto e lo rosicchia, sedendosi pesantemente davanti al computer, sul divano, per godersi qualche ora di meritato riposo. Ma è difficile riposarsi con la testa piena di pensieri molesti.

Apre il video di un documentario inglese, di quelli che hanno il commentatore capace di farlo dormire in poco meno di dieci minuti, per avere una sorta di sottofondo mentre si alza di nuovo per far bollire l'acqua per il ramen istantaneo.

Fissa quella calma piatta che sembra protrarsi troppo a lungo, appoggiato al mobile della cucina con la schiena e solo allora si ricorda della mail misteriosa.

Una parte di lui non vuole crederci, ma è una parte minuscola e timida rispetto a quella che desidera un’avventura qualsiasi, un evento che sconvolga la noia in cui è sprofondato da quando ha finito il liceo.

Essere disposti ad essere uccisi o maledetti pur di provare qualcosa di diverso dalla solita routine è un indizio abbastanza chiaro di quanto sia disperato.

 

Fissa il ramen istantaneo mentre si idrata di nuovo, prendendo una forma che si addice di più al cibo e meno ad un cestino di vimini decorato a scaglie che potrebbero essere verdure come no. Non è molto appetitoso, ma lo mangia lo stesso, godendosi almeno il calore del brodo.

Forse dovrebbe comprare almeno delle spezie da aggiungere a quel brodo blando, qualcosa che possa migliorare il suo umore.

Torna sul divano a guardare il televisore spento, ma finisce per riprendere il telefono e scorrere la rubrica fino al numero misterioso. Sì, ha una sovrabbondanza di 4 ed ha un prefisso che non riconosce, ma non gli sembra molto strano.

Fosse una mail potrebbe almeno mandare un messaggio per decidere se è il caso o meno di telefonare, ma non immagina molto bene un demone o un fantasma avvertirlo del pericolo, quindi sospira soltanto e digita il numero.

Magari i suoi colleghi, in un atto di bontà altruista, gli hanno dato il numero di una ragazza che conoscono, si ritrova a pensare.

Dopo due squilli è subito chiaro che non è il caso, perché a rispodere è una voce maschile, bassa e profonda, esattamente il contrario di quello che aveva immaginato nel caso avesse risposto un essere umano.

“Sei un fantasma?” domanda, rendendosi conto solo dopo della stupidità di quella frase.

“Sono Sousuke.”

Momo fa una smorfia, arricciando la bocca, perché la risposta lo lascia perplesso. È un dato di fatto, come se dovesse conoscerlo per forza o come se fosse abituato a quel tipo di domanda.

Momo si rannicchia, abbracciandosi le ginocchia con un braccio prima di continuare.

“Io sono Momo! Un amico ha salvato questo numero dicendomi che mi avrebbe risposto un fantasma o un demone!” esclama, come se fosse la cosa più normale da dire. In effetti, dopo averle pronunciate, le parole non suonano giuste.

“Ma che persone frequenti.”

Non è nemmeno una domanda, è di nuovo un dato di fatto, un'accusa che Momo incassa con una specie di risata soffocata.

“Credimi, se potessi me ne starei alla larga, ma sono miei colleghi e per di più miei senpai, quindi non posso scappare!” risponde, lamentoso nonostante la risatina. Non è che non possa essere sincero con uno sconosciuto, no? Tanto cosa può fare, dire tutto ai suoi colleghi? Probabilmente nemmeno li conosce!

Perché non li conosce, vero?

“Aaaah! Eccomi a parlare male di loro quando sono loro ad aver salvato questo numero! Non è che li conosci? Ho davvero bisogno di questo lavoro, voglio partire in Australia!”

Ecco altre informazioni che non dovrebbe dare ad un perfetto sconosciuto, per di più via telefono, non sapendo nemmeno che aspetto abbia.

Soprattutto perché nemmeno i suoi genitori sanno perché abbia scelto quel lavoro, quando potrebbero pagargli gli studi senza problemi.

“Australia?”

“Sì, lo so, l'Australia è arida e non so nemmeno tanto bene l'inglese perché la mia unica esperienza diretta viene dai dialoghi del Trono di Spade, ma c'è un insetto adorabile che ci vive e io voglio fare la tesi su quello!”

Non sembra stupido. Anche se le prime volte che l'ha detto e, soprattutto, quando ha presentato l'argomento al relatore gli è sembrato ridicolo, dirlo a Sousuke è diverso.

“In Australia. Hai davvero trovato il mio numero di telefono per sbaglio?” domanda l'interlocutore, un po' sorpreso.

“Eh? Sì, certo, cos'ha di strano l'Australia? Lo so che tutto vuole ucciderti, ma almeno non è Tokyo!” protesta, la disperazione di andarsene perfettamente palpabile nel suo tono.

L'altro ridacchia, qualcosa che non gli trasmette esattamente divertimento, ma è comunque sincero.

“Abito a Sydney.”

Gli occhi di Momo si spalancano come davanti all'esemplare più grande mai scoperto di cervo volante.

“Waaaaah! Soucchi, Soucchi, è vero che i ragni mangiano le persone? E ci sono davvero tanti squali? E gli hobbit?” domanda a raffica, preso dal suo naturale entusiasmo per le novità.

“Gli hobbit? Ma davvero? Momo!”

Il tono con cui Sousuke protesta lo rende felice come non si è sentito da un bel po'.

 

Sousuke è in Australia per fare il coach.

Momo non sa esattamente di cosa e Sousuke sembra sempre evitare di precisare. Gli sembra già incredibile potergli parlare per un'ora intera, non fa domande.

Gli piace nuotare e il suo coinquilino, che Momo sente parlare sottovoce da qualche parte nella stessa stanza, è un professionista in quello sport, quindi intuisce che sia in quello che fa il coach. Ma ancora, non chiede. Né la prima volta, né quelle successive.

Chiama Sousuke quando non riesce a dormire. Non capisce il fuso orario, ma si tratta di un'ora soltanto e comunque le tre del mattino sono tardi da qualsiasi parte del mondo. O molto presto, ha commentato Sousuke.

Il suo inquilino, Rin, è una presenza di sottofondo costante, il mormorio che Momo non capisce per la maggior parte del tempo che accompagna ogni telefonata e che sopporta senza problemi.

Alla terza telefonata si sente un po' in colpa per l'orario, ma Sousuke chiarisce il mistero del mormorio e Momo si sente più tranquillo.

Rin apparentemente ha un ragazzo e si chiamano su Skype per ore. A volte Sousuke gli ripete stralci di dialogo, la voce atona che rende la scena più divertente. Il meglio rimane il suo coinquilino che protesta e l'altro che descrive quanto rosso è diventato il suo viso.

Prende l'abitudine di non resistere fino alle tre prima di cedere alla tentazione di chiamarlo e presto quelle telefonate diventano una routine consolidata.

Una routine che invece di annoiarlo, rende la sua vita fuori dall’appartamento un po’ più sopportabile.

 

“Sognavo di vincere le olimpiadi. Nuoto. Mi allenavo ogni giorno, ma, in qualche modo, non sembrava abbastanza. Allora ho spinto il mio corpo al massimo e quello ha ceduto. La mia spalla non ha retto e ho smesso di credere ai sogni.”

Il telefono ha squillato alle quattro del mattino. Le tre a Sydney, un'ora indegna da questa parte e dall'altra dell'Oceano.

Il silenzio che gli ha risposto allo strascicato pronto che è riuscito a formulare quasi lo ha fatto addormentare, ma gli basta il tono di voce di Sousuke per risvegliarsi quasi del tutto.

Non sa come sia possibile, ma hanno continuato a telefonarsi, in quelle tre settimane che ora lo separano dal primo, imbarazzante contatto.

È strano, perché Momo ha una voce entusiasta ed energica, al telefono -quando è di buon umore- e Sousuke sembra più serio, posato... Malinconico. Non parlano di cose davvero importanti, eppure Momo ha scoperto abbastanza da non stupirsi di quella telefonata nel pieno della notte e si sistema sotto le coperte per ascoltare.

“Prima di rinunciare definitivamente sono andato a vederlo nuotare. Fin da quando eravamo bambini abbiamo avuto questo in comune... Poi lui si è trasferito in Australia. Volevo solo vedere se perdere il mio migliore amico ne fosse valsa la pena. E... Durante quella gara è arrivato ultimo. Arrancava nell'acqua, quando era sempre sembrato più a suo agio lì che sulla terraferma. Non è stato un bello spettacolo.”

Può immaginare. Può immaginare il perdere completamente l'entusiasmo per qualcosa che si è amato, una seconda natura come può essere il nuoto per alcuni.

Anche per Momo è stato così per tanto tempo, prima di rinunciarvi. Nuota ancora, ma non si è mai spinto davvero al massimo delle proprie capacita per non scoprire che non era mai abbastanza.

“E ha rinunciato?” chiede, riempiendo il silenzio.

Sousuke, dall'altra parte dell'Oceano, scuote la testa e nega.

“No, ma non era una situazione per cui potevo fare qualcosa. In Australia si era scontrato con un muro e quando era tornato aveva fatto il vuoto intorno a sé. Aveva bisogno di riallacciare i rapporti con i suoi amici, prima che con me.”

Momo fa una smorfia. C'è qualcosa che ha imparato in quelle settimane ed è il modo in cui Sousuke tende a sminuirsi di fronte al già discusso amico, ponendolo davanti ad ogni altra cosa.

“Bé, con chi è adesso in Australia? Non di certo con i suoi amici!” protesta Momo, tormentando il cuscino che tiene stretto al petto per poterci appoggiare il mento.

Uno sbuffo che sembra l'inizio di una risata risuona nel suo orecchio.

“In realtà due dei suoi amici di allora sono qui a Sydney, uno è in squadra con lui e l'altro è il suo coach. Tecnicamente è un maestro d'asilo, ma se tu conoscessi Haru, probabilmente capiresti che non c'è nessuno di più indicato.”

Il divertimento nella sua voce lo rilassa, lo fa sentire soddisfatto, in qualche modo, di aver contribuito a quel buon umore.

“Avrei davvero voluto gareggiare con lui un'ultima volta.”

“Nulla ti impedisce di farlo, Soucchi.” ribatte, piuttosto sicuro delle proprie parole, soprannome buffo e tutto quanto.

C'è un silenzio che, per la prima volta, sembra troppo pesante e Momo cerca qualcosa da dire, non trovando nulla che possa riempire il vuoto.

“No, lui ormai è troppo distante da me. Non mi alleno seriamente da una vita e non sarei in grado di sopportare una staffetta, probabilmente perderei il braccio in piscina o cose del genere…”

L'ultimo commento sembra fatto apposta per alleggerire l'atmosfera, ma Momo riflette bene sulle parole che vengono prima e stacca un bottone dalla fodera che stringe, preso dal nervosismo improvviso.

Probabilmente sarebbe un momento perfetto per scherzare sul fatto che il suo coinquilino con i denti da squalo ne approfitterebbe per mangiargli il braccio perduto, ma riesce solo a pensare a quanto debba essere stato difficile rinunciare a qualcosa che sembra amare così tanto.

“Lo sai? Mio fratello è pro. È in selezione olimpica, anche se ormai si ritiene troppo vecchio. Quando ho scelto cosa fare dopo le medie, lui ha insistito tanto perché facessi una scuola in cui lo sport era importantissimo... ma ho rinunciato all'ultimo. Non è che non mi importi più nuotare o non volessi anche io diventare un vero atleta... Ma c'era lui e ci sono io, chilometri indietro. Ha sempre pensato che avrei battuto i record che aveva lasciato dietro di sé al liceo e probabilmente l'ho deluso, rinunciando... Ma so che non ce l'avrei fatta, non con il peso di dover sempre fare meglio di lui. Mi faceva paura allora e mi farebbe paura ora, perché in gioco c'era il mio rapporto con lui... Non volevo arrivare ad odiarlo perché inseguirlo mi avrebbe rovinato la vita.”

Anche durante le pause, quelle in cui soppesa parole che comunque escono naturalmente, Sousuke non lo interrompe. Lo ascolta in silenzio confessare qualcosa che nessuno sa, che non gli confida perché sono immensamente lontani, ma perché lo sente vicino, simile, in qualche modo.

“Però... Se mai ci vedremo ora voglio nuotare con te. Dici che sarà possibile?” domanda, improvvisamente timido.

C'è un silenzio, di nuovo, che sente di dover riempire con qualcosa. Lo interrompe un sospiro e il corpo torna in tensione.

“Certo che sì, Momo.”

 

Che Sousuke gli piaccia quasi subito non è proprio una sorpresa.

Sousuke gli ha detto di avere gli occhi blu o forse verdi e i capelli castani. Non sembra il tipo di persona che si preoccupa troppo dell’aspetto, ma forse sta cercando di essere vago per non farlo scappare? Magari è un essere deforme come nel Gobbo di Notre Dame!

Eppure… Eppure a Momo basta la voce. Gli basta vedere il numero sullo schermo del cellulare, sentire come pronuncia il suo nome, per sentire che qualsiasi cosa sia andata male durante la giornata può sistemarsi, che può ancora pensare di passare un’ora ad ascoltare Sousuke, a borbottare cosa non va’ e stare bene.

Non meglio, bene.

Bene, come non si ricorda di essere stato da tempo.

Eppure ha bisogno del fratello per dare un nome definitivo a quel sentimento che fatica ad afferrare davvero.

“Allora, Momo. Come si chiama lei?” domanda all’improvviso Seijuurou, un giorno in cui riesce a trovare un momento per fargli visita.

“Lei?” chiede il ragazzo, indicando Gou, la signora Mikoshiba, mentre concentratissima sceglie una seconda fetta di torta perché, a suo dire, il bambino di appena quattro mesi che le sta in grembo merita una fetta tutta sua. “Tua moglie?”

Seijuurou gli blocca la testa in una morsa con il braccio, sfregandogli i capelli con energia e scoppiando a ridere. Le risate del fratello non sono mai discrete e il fatto che metà del locale si volti per fissarli, tra la disapprovazione e la curiosità, lo rende stranamente timido.

Non sa cosa potrebbe dire, a parte lamentarsi sommessamente dei capelli scompigliati. Sfugge alla presa per sistemarsi il più lontano possibile dal fratello traditore e lo guarda storto per un momento, prima di sospirare.

L'espressione entusiasta del fratello scema in una più seria, adatta ad un adulto, che Momo sa che non riuscirà mai a replicare.

Cosa può dirgli? Non può raccontargli la verità. Non può dirgli di certo che ha telefonato ad un numero che, in teoria, avrebbe anche potuto ucciderlo, non può pensare di dirgli che da un paio di mesi sente un ragazzo dall'altra parte del mare e che è così felice proprio perché lui ascolta e ha una voce capace di farlo sentire felice e triste allo stesso tempo.

Non può raccontargli delle farfalle nello stomaco, dirgli che fino a questo momento della sua esistenza ha pensato che fossero solo un'esagerazione, ma ora capisce benissimo e, davvero, basta così poco per scatenarle da essere quasi imbarazzante.

Non può farlo perché non c'è davvero nulla, con Sousuke. Anche volendolo sono troppo lontani, anche volendolo non sa se potrebbe veramente azzardare a confessare i propri incerti sentimenti a quello che ormai non è più uno sconosciuto con un numero di telefono particolare.

Non sa se valga la pena dire al fratello che esiste un'eccezione, un ragazzo che gli fa battere il cuore.

Spiegato così ha un che di patetico e sente subito il collo e le guance andare a fuoco.

Non crede che il fratello possa rifiutarlo o insultarlo per le proprie preferenze... ma è normale rimandare quella confessione a quando ne avrà veramente la certezza. Un solo ragazzo in tutta la vita non fa di lui un gay, soprattutto considerando che sarà difficile incontrarlo dal vivo per confermare quei sentimenti.

“Ho un amico. Non è male, mi sembra sia passato troppo tempo da quando sono uscito l'ultima volta con qualcuno per ragioni che non siano cercare libri universitari. È rilassante.” confessa, anche se non si sono visti davvero.

Ma non concentrarsi solo sullo studio, pensare a svuotare la mente di tanto in tanto, anche quell'infatuazione per Sousuke, sono distrazioni che lo rilassano davvero, lo rendono meno nervoso, meno grigio.

“Ah, anche se fai il misterioso lo scoprirò lo stesso.” borbotta Seijuurou, incrociando le braccia al petto perché ovviamente non si beve quella parte di verità nemmeno lontanamente. In fondo la poca distanza tra le loro età li rende vicini, nei sentimenti, da troppo tempo per poterglielo far credere.

“Piuttosto... Riuscirete ad arrivare al parto prima che prosciughi il tuo conto in dolci?”

Cambia discorso, il tono cospiratorio che allegerisce una tensione che tra di loro non dovrebbe esserci mai. Si sente immediatamente in colpa di nascondergli quel cambiamento importante, ma è sollevato quando Gou si siede finalmente accanto a Sei, scivolando sul divano di pelle del cafè fino al marito.

Ha un broncio sul viso e gli punta una forchetta contro.

“Se continui così mangerò anche la tua fetta.” borbotta, mettendo in atto la minaccia e rubandogli un minuscolo pezzo di dolce.

Ha avuto una cotta per quella donna, a prima vista. Quando il fratello gliel’ha presentata, per Momo è stato come veder apparire la ragazza più bella e luminosa dell’intero Universo.

Di lei ha amato il modo in cui sorrideva, stringendo gli occhi di un rosso meraviglioso. Ha amato la sua risata e la serietà con cui gli parlava della sua grande passione per i muscoli maschili.

A pensarci bene non riesce a non cadere nell'imbarazzo più totale, ma lei lo guarda con gli occhi grandi e spalancati in modo innocente e la forchetta tra i denti chiusi e Momo ricorda esattamente perché era perso per lei.

Seijuurou si china al suo orecchio, sussurrando qualcosa e facendola ridere.

È una risata genuina, capace di far sorridere Momo anche se non ha sentito cosa l’abbia provocata.

A volte gli capita di chiedersi se sarebbe stato capace di renderla davvero felice e basta il ricordo di una scena come questa a fargli credere che esistano anime gemelle e che Gou e suo fratello non siano altro che quello.

 

“Non è strano quando passi tanto tempo a pensare di essere innamorato di una persona e poi, un giorno, dal nulla, la guardi e senti solo una sensazione piacevole, come se bastasse, non so, saperla felice o qualcosa del genere?”

Non è troppo tardi, stasera.

Armeggia con il microonde, arrivato a casa da dieci minuti, eppure già con il cellulare attaccato all’orecchio. È strano non aspettare notte fonda, strano sentire il bisogno di parlare con qualcuno proprio alla fine di una giornata passata in compagnia.

“Probabilmente dovresti imparare a cucinare prima di lanciarti in discussioni così profonde.” commenta Sousuke, dall’altra parte dell’Oceano.

Si imbroncia, ma poi finisce per ridacchiare.

“Probabile, sì. Ehy, non mi hai detto più niente della slogatura di Rin!”

 

"Voglio andarmene da qui."

Sousuke, a chilometri di distanza, sospira appena e Momo sente il rumore che fanno le lenzuola nel muoversi sotto il suo peso.

"Non ho voglia di discutere la tesi o continuare a studiare per anni in quest'università. Non mi piacciono gli insegnanti, non mi piace il mio lavoro, non mi piace Tokyo." confessa, il peso che sente sul petto che si attenua appena, per poi tornare con tutta la sua potenza, un dolore che non può non soffocarlo, lasciarlo senza una via d'uscita, messo all'angolo.

"Non sono pronto. Non voglio essere serio, non voglio vivere tutta la vita in questo modo. Voglio avere degli amici, uscire, ma questa città è così fredda e tutto quello che vorrei è tornare a casa."

Smette di parlare perché fa troppo male. Sa che non tornerà a casa senza prima aver terminato gli studi, sa che non potrebbe offendere in questo modo la propria famiglia, i genitori che lavorano duramente, il fratello che è già avviato verso una carriera nel nuoto, la sorella che li ammira entrambi, li prende come esempio.

Non vuole essere un fallimento, anche se sa che non vuole nulla di tutto quello che ha adesso. Non è la sua vita.

"Momo?"

Si rende conto di essere stato in silenzio per tanto tempo, abbastanza da preoccupare il suo interlocutore e smette di far sobbalzare la gamba per il nervosismo.

"Non sei obbligato a fare per forza quello che non vuoi, ma è successo qualcosa, oggi?"

Sousuke sa. Il respiro di Momo si ferma per un lungo momento, poi si lancia con la faccia a sprofondare nel cuscino, lasciandosi sfuggire un lamento borbottante.

Sì, è successo qualcosa. Ha litigato sul lavoro con un senpai che non fa altro che comandarlo a bacchetta. Il suo relatore è disperso, l'ha cercato da un'aula all'altra, senza successo e quando pensava di aver ricevuto delle risposte alle numerose domande che si era posto mentre aggiungeva un mezzo paragrafo alle dodici pagine scarse di tesi, la sua risposta era stata semplicemente un "ok" che per poco non gli aveva fatto lanciare il portatile in fondo alla stanza.

"Non c'è niente che va'. Ieri Takeda mi ha rimproverato perché il caffè che gli avevo portato non è buono, perché i dolci non andavano bene e sono rimasto un'ora in più per finire un lavoro da consegnare oggi perché ero troppo occupato a fargli da schiavo personale. Hishigure stamattina ha aperto tutta la posta indirizzata a me o, almeno, a quello che dovrebbe essere il mio compito. Takeda mi ha lasciato il suo lavoro da finire mentre andava a pranzo e mi ha rimproverato quando non l'avevo finito e lo odio, mi sento soffocare, non ce la faccio più a stare lì dentro!" butta fuori, emergendo dal cuscino per articolare bene le parole.

"Devo consegnare la tesi tra due settimane e l'unica cosa che vorrei fare è dare fuoco a tutti i miei libri. Il mio relatore se ne frega, tanto!"

Il senso di sollievo nell’essere sincero lo scalda nel petto, facendolo sospirare, ma si stringe meglio nella coperta ed appoggia la guancia al ginocchio.

“Sto congelando perché si è rotta la caldaia. Domani è Natale e sono da solo. So che se mi lamentassi con mio fratello farebbe finta di niente e verrebbe  trovarmi, ma è sposato da tre mesi e di solito Natale si passa con la persona amata, no?” mormora, grattando appena la stoffa del copri materasso. Di nuovo un senso di oppressione dettato dal nervosismo, qualcosa che lo soffoca e gli accelera il battito.

L’aspettativa, la tristezza, la paura di rivelare troppo e ritrovarsi senza quelle telefonate che gli impediscono di dire un’altra parola.

“Sai, in Australia è tradizione andare al mare per Natale.”

A Momo sembra una presa in giro, quella e per poco non gli riattacca il telefono in faccia riempendolo di insulti.

“Rin è fissato con il surf, anche se non è capace a stare in equilibrio su una tavola per più di dieci minuti, nemmeno con tutta la sua testardaggine.”

Non riesce ad immaginare, nel freddo della stanza, di passare il Natale in spiaggia. Dev’essere strano, chissà se Sousuke è abituato o lo trova ancora disorientante come sarebbe per lui.

“Prima che tu me lo chieda, credo che il mio record sia quattro minuti, ma non ho insistito troppo. Rin è davvero testardo, invece, è convinto di potercela fare solo perché fino ad ora non ha mai incontrato uno sport in cui non riuscisse ad ottenere dei risultati in poco tempo!”

Momo è imbronciato. Succede ogni volta che Sousuke parla troppo di Rin, ormai e un po’ non può che vergognarsene, perché sa quanto sia importante per lui.

“Eh! Come mai non sei con lui nel giorno degli innamorati?” si lascia scappare, arrossendo subito dopo.

Sousuke scoppia a ridere davvero, questa volta, ma Momo rimane ad ascoltarlo con un piccolo broncio, senza capire cosa ci sia di tanto divertente. A parte l’evidente gelosia che traspare da quella piccola accusa, s’intende.

“No, Rin non è il mio ragazzo, come ti viene in mente?”

Certo che non è il suo ragazzo e dovrebbe saperlo dopo tutte le imitazioni buffe di Sousuke e le frasi degne di un drama romantico ripetute con voce atona. Rin ha un ragazzo che non è il suo compagno di stanza, ma Momo non si è mai definito troppo sveglio e la gelosia non è un sentimento molto razionale.

“Non lo so, io! Vivete insieme!” protesta, sentendo che il collo e le guance sembrano andare a fuoco. Dovrebbe fare un respiro profondo e smetterla di parlare per istinto, gli dice quella paura, anche se assordata dalle grida di vittoria della sua speranza.

Quale speranza? Anche volendolo, sono a chilometri di distanza e non conosce molte persone capaci di innamorarsi al telefono.

A parte lui, si intende. Ma lui è sempre stato un'eccezione, nella sua cerchia d'amici, la sua capacità di sognare ad occhi aperti e crollare davanti ad ogni ragazza che reputava carina meritevole delle migliori battute.

Ma così non è divertente, è patetico. Innamorarsi di una voce, della persona nebbiosa che sta dall'altra parte dell'Oceano, è segno di disperazione e dovrebbe soltanto impietosirlo.

Ma non è banale. Non è stupido, quell’innamoramento. Non per Momo, che si morde il labbro mentre tenta di trattenere un sentimento per nulla inventato o causato dalla disperazione, ma genuino, vero, molto più delle innumerevoli ragazze a cui ha detto che erano carine.

È rilassante. Rilassante anche se sente il cuore che batte all'impazzata e il nervosismo che gli rosicchia le viscere.

È come ritrovarsi al mare alla fine della primavera e lasciarsi trasportare dalle onde dopo la prima lunghissima nuotata. Stare sulla schiena ed osservare il cielo e rendersi conto di essere felici di stare al mondo.

"È che mi piaci.” mormora Momotarou, le labbra strette dopo la confessione. Gli sfugge senza che possa fermarla, una parte di lui fiera di averlo detto, una parte piccolissima ed entusiasta come non si sentiva da tempo.

C’è silenzio, dall’altra parte dell’oceano, come se le parole dovessero impiegare dieci ore a viaggiare fino a Sousuke ed altrettante a tornare da Momo. Si accorge di battere i denti quando ne sente il frastuono amplificato dal telefono.

“Fa così freddo?” è la risposta e il ragazzo sente che avrebbe preferito un rifiuto netto, qualcosa che non gli facesse così male.

Capisce. Capisce il voler mantenere quel rapporto com’è, capisce il non voler forzare le cose, maledizione, capisce anche il non poter scoprire magicamente di essere attirato dai ragazzi… ma è comunque una fitta costante, quella che gli riempe il petto, una pressione che non cessa, come avere il mondo intero in equilibrio sopra al cuore.

Tira su con il naso e sa di star piangendo in silenzio. Un altro segno di quanto sia serio, sconvolto da quello che prova.

Niente capricci, niente grida, solo lacrime silenziose e la sensazione che non riuscirà più a rispondere alle sue chiamate. Guarda lo schermo, il numero mai salvato, che ormai conosce a memoria, è ancora collegato.

Riavvicina il telefono all’orecchio per poter sentire ancora la sua voce, qualunque cosa decida di dirgli.

“Ci sei ancora?”

Annuisce, poi si rende conto che Sousuke non può vederlo, allora emette un suono di assenso, piccolo come quello di un topolino chiuso in un angolo, senza uscita.

“Torno in Giappone il 4, resto per un paio di giorni. Ci vediamo a Narita?”

Non realizza subito. C’è un altro suono strozzato in fondo alla gola, che si trasforma presto in un gridolino felice.

“Sì!” esclama, la voce acuta per il passaggio improvviso dalle lacrime alla risata che sente risalire dal petto come bollicine in una bevanda frizzante.

La sensazione lo inebria, costringendolo a ridere davvero.

“Soucchi! Mi hai spaventato a morte!”

Sousuke sospira e gli sembra di vederlo scuotere la testa. Quando parla, però, c’è un sorriso, nel suo tono, come se fosse più leggero, anche lui.

“Tu lo fai sembrare facile… Ci sono ottomila chilometri tra noi.”

Momo scuote la testa e ridacchia ancora, i muscoli che si rilassano, permettendogli di sdraiarsi senza doversi rannicchiare.

“Settemilaottocento.”

“Sono tanti.”

Scuote di nuovo la testa, fissando il soffitto. Si passa una mano sul viso per mandare via le lacrime e respira profondamente.

“Nah. Siamo vicinissimi, proprio in questo momento.”

Un’altra risata, da parte di Sousuke, questa volta.

“Devo presentarti Rin, siete agli stessi livelli di protagonista shoujo.”

“Ehy!”

 

“Sousuke?”

“Ti sei svegliato tardi?” chiede Sousuke, senza traccia di irritazione nella voce, però.

Uno scherzo. Uno scherzo durato mesi, non può che essere quello.

“Sono… Sono a Narita, Sousuke. Non c’è nessun volo da Sydney fino alle cinque di stasera.”

Sta tremando, seduto nell’angolo estremo di una fila di sedie nella sala d’aspetto di un aeroporto, solo. Fa freddo, c’è un cielo bianco, come se dovesse nevicare da un momento all’altro.

Ricorda di aver sperato in una neve fortissima per giorni e giorni, in un tempo che ora gli sembra lontanissimo, un mondo fuori dalla pressione soffocante che sente. Tantissima neve, per passare altri momenti con Sousuke.

“Chi è Sousuke? Vivi davvero in Australia? Era vera quella storia strappalacrime sulla spalla?”

“Momo… Momo stai scherzando, vero? Sono a Narita ora.” insiste Sousuke, anche se è impossibile credergli, non quando tutto ciò che può vedere di Narita è la sua assenza e il vuoto che scava nel proprio petto.

“Di chi è stata l’idea? Di Fukoshi? O di qualche altro mio collega?” sibila, il veleno che filtra dalle parole come unico scudo. Non è una delusione. Sono mesi della sua vita trascorsi ad aprirsi completamente ad una persona che non esiste, sono sentimenti gettati al vento e Momo sente di far fatica a respirare, ora, gli occhi pieni di lacrime mentre si guarda intorno, la speranza non del tutto sepolta che gli manda il cuore in frantumi.

Perché Sousuke è quello che l’ascoltava ad ore improbabili della notte. Perché solo lui sa dettagli così profondi della sua anima che nemmeno Momo conosceva, prima di rivelarglieli.

“Momo? Sto andando all’uscita, accanto alla biglietteria del treno.”

Si alza nonostante il dolore minacci di mandarlo a terra e lo cerca anche se quella che regola i suoi passi è più disperata speranza che volontà.

Quello che attrae la sua attenzione è una finestra. Dietro di sé intravede la hall dell’aeroporto di Narita, le coppie che si ricongiungono abbracciandosi, i turisti pronti a fotografare ogni singolo anfratto della città. Ma nel riflesso non c’è lui.

Fa un balzo all’indietro e quasi gli cade il telefono dalle mani, distogliendo lo sguardo per assicurarsi che quello sia proprio l’uscita, quella accanto. C’è la biglietteria del treno, il punto informazioni… e appena guarda oltre la vetrata dell’aeroporto, quella gli restituisce l’immagine riflessa di turisti ed innamorati.

Ma non sono gli stessi che sono alle sue spalle.

“Momo?”

C’è un uomo, davanti a lui. Più alto di lui di poco, tanto che basta alzare appena la testa per guardarlo negli occhi.

Sousuke si sbagliava. I suoi occhi non sono di un colore indefinito. Sono del colore del mare tropicale, quello che si vede sulle cartoline e che Momo non sa definire, ma non è un colore banale, gli toglie il fiato.

"Hai gli occhi dorati."

La persona davanti a lui, le spalle larghe nascoste sotto un cappotto lungo, la sciarpa che gli sfiora le labbra che Momo ha desiderato sfiorare, anche solo con la punta delle dita, mima soltanto le parole che sente nel telefono.

Momo fa un passo all'indietro e singhiozza una volta, coprendosi la bocca con le dita.

Non è possibile.

"Sei... Sei bellissimo."

"Non dirlo!" sbotta Momo, rendendosi poi conto della gente intorno. Abbassa la voce, ripetendo la frase e cercando di fermare le lacrime.

Ci sono ipotesi che gli frullano nella testa, ipotesi che non potrà studiare e che non sa come considerare, fantascienza, magia, un destino che semplicemente si prende gioco di lui.

Dentro lo specchio c'è Sousuke. E solo lì.

Il telefono suona statico, assordandolo.

"Momo!"

Ora anche lui sembra agitato, agitato come un animale in gabbia, cammina avanti e indietro su quel metro che riesce a percorrere senza dover fissare per forza oltre il vetro, l'altro mondo.

"Non sei qui." sussurra Momo, appoggiando una mano allo specchio, un peso sul cuore che minaccia di buttarlo a terra.

Ma cadere e perdere i sensi vorrebbe dire rinunciare ad un secondo davanti a quell'uomo e Momo non crede di poter sopravvivere senza.

Almeno quel momento, anche se il telefono restituisce solo statico mentre Sousuke parla e ormai le persone dietro di lui sono sparite, lasciando spazio soltanto al parcheggio dell'aeroporto di Narita, fuori.

Nel mondo di Momo.

"Momo, non riesco a sentirti!"

Muove la bocca per parlare, sentendo il gusto delle lacrime che rotolano sulle guance, la mano testardamente appoggiata al vetro.

Queste cose non succedono, queste cose non devono succedere. Vuole il suo lieto fine, vuole abbracciare Sousuke, lasciarsi stringere, vuole nuotare con lui come gli ha promesso, studiare ogni sua singola espressione quando nevicherà troppo forte per riuscire a ripartire.

Vuole fare un pupazzo di neve e dividere un letto finalmente caldo, solo per parlare con il suo viso davanti, solo per stringergli le mani e addormentarsi sotto il suo sguardo.

Nella vita vera queste cose non succedono e nei film di quel tipo c'è un lieto fine, perché non può avere il proprio?

"Sousuke!"

Non gli importa se lo rinchiuderanno, dopo questo. Non importa se gli altri lo vedono.

Si asciuga gli occhi con il palmo, i contorni dell'uomo che si fanno più sbiaditi, lo statico che lo assorda ancora una volta.

"Momotarou Mikoshiba! Sono sicuro che nel tuo mondo e nel mio esistiamo uno per l'altro!" grida, anche se non ce n'è bisogno.

Sousuke appoggia la mano sul vetro, sotto la sua e scuote la testa. La superficie è ancora troppo fredda.

"Non rinuncio! Sousuke, io andrò anche in Australia per cercarti! Cerca... Cerca me! Cerca la persona triste che ero prima di incontrarti ed innamorati di lui!"

Altre lacrime bagnano le sue guance, annebbiando ulteriormente la sua vista, ma non importa. Sousuke è vicino, separato solo da un vetro e lui può finalmente dirgli almeno una parte di quella valanga di emozioni che si agitano in lui.

"Ma non sei tu."

Scuote la testa e finalmente sorride.

"Tu sei tu! In fondo al cuore, sei tu in questo mondo o nell'altro e io sono innamorato di quello che c'è nel tuo cuore." confessa, il cuore che batte disperatamente allo stesso ritmo in cui va' in pezzi, solo il viso di Sousuke nel riflesso, la punta delle dita ancora in contatto.

"Momo, io..."

C'è solo un suono continuo, come se il telefono fosse isolato, prima che tutto, di Sousuke, sparisca.

Momotarou si lascia scivolare in terra, come un burattino a cui si fossero tagliati i fili e permette al suo corpo di sfogare il pianto che ha trattenuto fino a quel momento.

Gli ha letto le labbra, ma già sapeva.

 

Ci vuole molto più di un mese per rimettere insieme i pezzi.

Ci vuole la visita del fratello, la sua stretta intorno mentre piange, per poter lasciare andare il telefono che ancora restituisce solo quell'unico suono.

Dopo essere andato in pezzi, però, Momotarou trova la forza di finire quello che ha iniziato.

Da' la tesi, si licenzia dal lavoro, rispettoso come non pensava sarebbe stato davvero. Pensava di uscire da lì con il piede sulla testa del suo nemico, ma è tutto così lontano, quando finalmente smette di andare, che non sente che un breve sollievo nell'abbandonare l'edificio per sempre.

L'aeroporto di Sydney non è diverso da Narita, ma è la prima volta che Momo prende un aereo e si perde due volte prima di recuperare il bagaglio.

Ci vuole un po' a trovare la biglietteria e dopo un'ora finalmente avvista anche il primo cafè. Non è mai stato un patito della caffeina, ma quasi corre verso quel paradiso di zucchero ed altri eccitanti naturali.

Non vede la valigia posata per terra e, nonostante riesca a saltare sopra all'ultimo, il trolley finisce addosso a qualcuno.

Benvenuto in Australia, Momo.

“Mi scusi!”

Parla automaticamente in giapponese, poi biascica qualcosa in inglese, perché si sente un cretino.

L'uomo gli risponde in giapponese.

Momo si sente ghiacciare il sangue nelle vene, dritto come un fuso, la testa abbassata per scusarsi che si alza appena per poterlo guardare.

Ma è bastata la voce. Quella voce che riconoscerebbe ovunque, anche se dal vivo è così strana, priva del riverbero del telefono.

Sousuke gli restituisce lo sguardo, perplesso, poi stringe gli occhi come se stesse cercando di ricordare. C'è del caffè sulla sua giacca, ma non sembra più importargli.

Il cuore di Momo salta un battito e sente un sorriso formarglisi in viso come se esplodesse dal nulla.

“Sono Momo! Momotarou Mikoshiba, però tu chiamami Momo! Posso offrirti il caffè per scusarmi?”

Ha bisogno di toccarlo. Sentirlo reale, caldo, capace di abbracciarlo, un giorno o scompigliargli anche solo i capelli.

Allunga la mano verso la macchia, un fazzolettino in mano e la appoggia, tremando.

Deve trattenersi dal saltargli in braccio perché quello non è il suo Sousuke. Il suo Sousuke, spera, starà cercando la persona triste che ha salvato.

Toglie la mano che ha tentato di asciugarlo ed arrossisce un poco. L'altro gli porge la mano per stringerla e azzarda un sorriso laterale.

“Sousuke. Yamazaki Sousuke.”

Questo Sousuke è qualcuno di diverso, che dovrà imparare a conoscere, ma che sa, senza ombra di dubbio, essergli destinato.


 

Angolo autrice~

Questa storia nasce dal prompt “la tua OTP vive in due mondi paralleli”.

Appena l'ho visto ho pensato ai SouMomo, ma scriverla e trovare il modo di renderlo possibile è stata una vera impresa!

Ovviamente essendo un AU avrei anche potuto cambiare tutto quanto, ma ho preferito cambiare solo alcuni dettagli, come il fatto che Momo non sia andato alla Samezuka e nemmeno il Sousuke con cui parla al telefono.

Momo conosce vagamente un Rin perché è il fratello della moglie di suo fratello, ma ovviamente non li collega perché si sono incontrati solo un paio di volte. Invece è probabile che il suo interlocutore abbia trovato il suo Momo molto più in fretta, visto che gli ha dato il suo cognome, alla fine... così tante possibilità!

Mi sono divertita molto a scrivere questa storia ed ho riflettuto un po' prima di pubblicarla per intero perché è parecchio lunga! Però non avrebbe avuto molto senso dividerla, quindi spero che non abbiate abbandonato a metà (in tal caso non leggereste questo commento, quindi perché l'ho scritto? mistero).

Chi mi segue probabilmente avrà notato che non ho scritto nel solito modo... ho cercato di essere più "cinematografica" perché in origine sarebbe dovuta essere la base per una doujinshi, è stato divertente sperimentare anche in questo!

Spero vi sia piaciuta!

   
 
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