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Autore: The Writer Of The Stars    08/03/2015    5 recensioni
“E non riesco nemmeno a togliermi queste quattro maledette parole dalla testa …” ammise sconfitta, mentre finalmente, dopo settimane di lacrime represse e mai versate davvero, si lasciò andare ad un pianto liberatorio, rumoroso, doloroso. Abbracciò con forza la lapide di Heiji, mentre il cappello poggiato sulla sua testa le donava un senso incredibilmente strano di calore, dolcezza, amore, che mai avrebbe più potuto ricevere da lui. Singhiozzò forte, la schiena si alzava e si abbassava con violenza, come colpita da una frusta che probabilmente avrebbe fatto meno male in quel momento. E mentre si abbandonava ai singhiozzi, mentre stringeva a sé tutto ciò che le restava dell’amore della sua vita, la voce di Heiji si ripeteva costantemente nella sua testa, con quelle quattro, ultime parole con cui le aveva detto addio … “Se lo dici tu …”
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HeijiXKazuha. Angst, drammatico, malinconico.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Heiji Hattori, Kazuha Toyama | Coppie: Heiji Hattori/Kazuha Toyama
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“… E quando egli morirà, tu notte, prendilo 
con te e ritaglialo in mille pezzettini
Da farne tante piccole stelle;
 allora renderà tanto bella 
la volta celeste che il mondo
Non avrà occhi che per te, notte,
 e nessuno farà più omaggio d’adorazione alcuna all’abbagliante sole …” 
-William Shakespeare, Romeo e Giulietta

 

(https://www.youtube.com/watch?v=8hYdM_YRCJo – canzone)

Il muro era bianco. Poteva forse avere al suo interno una qualche sfumatura di colore, ma non era così. Era bianco, semplicemente e fastidiosamente bianco. Troppo bianco. Lo stava fissando da tre ore e quindici minuti ormai, e più lo guardava, più si convinceva che non ci fosse nulla di più sbagliato del bianco. Perché ogni cosa è un colore, ogni emozione è un colore.
Ma il bianco no.
Il bianco infatti era un colore che non sopportava. Ad esso erano aggrappati troppi termini dall’accezione negativa: passare una notte in bianco, consegnare un compito in bianco, avere un capello bianco. Era qualcosa di troppo vuoto, troppo strano, che le provocava un fastidio insopportabile, proprio al di sopra dello stomaco, o forse all’interno dello stomaco, non lo aveva mai capito.
Con un sorriso mesto, si ritrovò a pensare che effettivamente non capiva mai un bel po’ di cose. Il perché gli ospedali fossero bianchi, ad esempio. Dio, non era già terribile  l’idea di doversi trovare in un luogo dove decidere se restare nel mondo dei vivi o andarsene in paradiso (o all’Inferno, dipende dai casi) ? Che senso aveva mettere il bianco in un ospedale, se non quello di aumentare ancora di più il dolore, fino a renderlo talmente insopportabile da non riuscire nemmeno a staccare gli occhi da un maledetto muro bianco per più di tre ore? Quei corridoi asettici, tutti uguali, le infermiere in divisa, i medici con il loro bel camice professionale che correvano come dei matti per l’edificio … perché doveva essere tutto bianco?

Aveva paura del bianco, si, ne aveva paura. Le metteva ansia, ecco la verità. Le faceva credere che fosse tutto vuoto, che niente fosse vero, che nulla durasse per sempre, perché un capello nero che si tinge di bianco sta a significare solo una cosa: Stai invecchiando, amico mio. E il bianco te lo dice con schiettezza, senza tanti giri di parole. Un giorno trovi un minuscolo, insignificante capello bianco sul cuscino, e quello dopo ti scopri circondato da quattro asettiche mura bianche, disteso su un letto altrettanto bianco e circondato da gente con indosso altrettanta roba bianca, che cercano di salvarti la vita in estremis. Quella stessa vita che il bianco ti aveva annunciato non sarebbe durata ancora per molto, pensa un po’.  E tu non puoi fare niente, puoi solo sopportare in silenzio e far finta che quel malessere all’interno forse dello stomaco non esista, ingoiandolo insieme alle lacrime che non vuoi versare.

Però non era giusto. Perché doveva essere lì? Non era giusto, aveva solo diciassette anni, cosa centrava lui con quelle mura bianche? Cosa centrava lui con quel proiettile, cosa centrava lui con … con la morte?
 

Ad un tratto il bianco del muro divenne improvvisamente color crema. Strabuzzò gli occhi stranita, fissando il bicchierino di plastica a due centimetri dai suoi occhi.

“Dai, bevi …” il dolce ordine arrivò da una gentile voce femminile, evidentemente esausta e … distrutta. Ma mai quanto lei.
Scosse la testa con insistenza, continuando a fissare al di là del bicchierino colmo di caffè fumante, alla ricerca del punto in mezzo al bianco che stava fissando da ore. La ragazza al suo fianco sospirò stancamente, quasi esasperata, e alle sue orecchie quello sbuffo risuonò davvero inappropriato.

“Kazuha, sono ore che stai ferma in quella posizione. Non ti sei mai alzata da quella sedia, non ti sei mossa minimamente … hai bisogno di questo.” Le disse, agitando impercettibilmente il bicchiere davanti agli occhioni smeraldo della ragazza di Osaka. Kazuha chiuse per un attimo gli occhi, lasciandoli serrati per alcuni secondi. Si strinse maggiormente le gambe a sé, senza mutare la posizione accovacciata che aveva assunto nel momento in cui lui era entrato in sala operatoria.

“Ran, non lo voglio.” Pronunciò con fermezza, scostando leggermente la mano dell’amica dal suo volto. Sentì Ran sospirare e pochi secondi dopo vide il bicchiere posarsi con delicatezza sul tavolino in plastica davanti a lei. Per alcuni secondi si concentrò sul caldo vapore che saliva dal bicchiere, osservando i giochi e gli effetti che componeva nell’aria salendo verso l’alto. Poi decise che quella cosa le stava mettendo ansia, così torno a guardare di nuovo il muro davanti a sé, che in realtà era anche peggio ma in quel momento un lato insospettabilmente masochista del suo io interiore stava prendendo il sopravvento sulla ragazza sempre dolce e allegra che era prima di quel giorno.

“Senti Kazuha, ascoltami bene: lo so che è difficile, troppo difficile, ma non c’è niente che tu possa fare. I medici stanno facendo del loro meglio, stanno lavorando tutti senza sosta per salvargli la vita, ma noi non possiamo fare niente, okay? Niente. Possiamo solo aspettare e pregare che qualcuno di questi dottori venga fuori da lì dentro e che con un bel sorriso stanco ci dica: è andata bene. Ma non puoi stare così.”  Le disse Ran, in un tono quasi irriconoscibile per la dolce ragazza quale era. Kazuha strinse i pugni con forza, talmente arrabbiata da conficcare dolorosamente le unghie nella carne, senza badare però al dolore.

“Se ci fosse Shinichi là dentro” disse ad un tratto, voltando di scatto la testa in direzione di Ran e fissandola con occhi brillanti e distrutti.

“Se ci fosse lui al suo posto, tu cosa faresti?” chiese duramente, e forse era anche stata un po’ cattiva, ma in quel momento distinguere il bene dal male era diventato quasi impossibile. Si scoprì con sua somma sorpresa odiare per la prima volta Schinichi, quel detective che Ran tanto adulava e per colpa di cui adesso Heiji stava lottando tra la vita e la morte dentro quella maledetta sala operatoria.
Ran spalancò gli occhi, sconcertata, balbettando un qualcosa di incomprensibile.

“I-Io …”

“È colpa sua, lo sai vero?” disse Kazuha duramente, come se in quel momento sentisse la necessità di esternare tutti quei pensieri, tutte quelle parole che si teneva dentro da più di tre ore mentre fissava l’orribile muro bianco.

“È tutta colpa sua! Heiji lo stava aiutando contro questa maledetta organizzazione con cui non centrava nulla! Lui non centrava nulla con Schinichi, con l’organizzazione, con quella pistola, con quel proiettile …” soffiò le ultime parole tra le lacrime, lasciandosi sfuggire un singhiozzo.

“Lui non centrava niente!” gridò disperata dinanzi ad una Ran sconvolta, addolorata, incapace di pronunciare anche solo una sillaba.

“Kazuha …” sussurrò sconvolta, mentre la ragazza di Osaka respirava pesantemente, cercando inutilmente di ricacciare indietro le lacrime tramutatesi in singhiozzi. Poi ad un certo punto la porta bianca si aprì e i loro occhi saettarono verso il medico che con passi trascinati e a testa bassa uscì da lì dentro. Il dottore alzò gli occhi e per un attimo, nell’attimo in cui incrocia quelli di Kazuha, sentì che quello sarebbe stato l’annuncio più difficile da dare in tutta la sua carriera. Come si fa a dire agli occhi di una ragazza innamorata di non essere stato abbastanza bravo da salvare l’amore della sua vita? Come, come … si fa?

“I signori Hattori?” chiese debolmente il medico.

“Sono scesi un secondo al piano inferiore.” Rispose Ran con voce malferma, attendendo con il cuore in gola il responso del medico.

“E voi siete?” chiese il medico, anche se aveva già capito chi fosse Kazuha. Lo aveva capito dai suoi occhi innamorati e disperati allo stesso tempo.

“S –sono … la …” Kazuha prese un profondo respiro, soppesando o meno l’idea che Heiji si fosse magari arrabbiato nel sentirla dire ciò che effettivamente non erano ancora a tutti gli effetti.

“Sono la sua ragazza.” Pronunciò infine con fermezza, il tono di voce orgoglioso. Il medico guardò Kazuha e se avesse potuto, sarebbe voluto morire all’istante.

“Signorina …” cominciò, evitando lo sguardo della ragazza. Kazuha lo fissò senza muoversi, gli occhi colmi di lacrime a malapena trattenute. Ran al suo fianco trattenne il respiro, agitandosi nervosamente sulla scomoda sedia di plastica dell’ospedale.

“Abbiamo fatto il possibile ma …” il medico si bloccò, guardando per un attimo Kazuha.

“Mi dispiace … non ce l’ha fatta …”
 
Dopo di quello, Kazuha non ricordò nulla. Lacrime, buio e parole … orribili, maledette parole rimbombavano nella sua testa. “Mi dispiace … ma non ce l’ha fatta … Heiji è morto …”
 
 


Tre settimane dopo

Poggiò con delicatezza l’ennesimo scatolone in terra, abbassandosi lievemente, sospirando con pesantezza.

“Ho messo delle etichette su queste scatole, così sarà più semplice separare le cose …” Kazuha si alzò in piedi, infilando le mani nelle tasche posteriori dei suoi jeans e sospirando tristemente, fissando gli scatoloni da lei stessa portati lì.
La madre di Heiji alzò gli occhi dal pavimento, guardandola dal letto dove era seduta e annuendo con gli occhi gonfi di lacrime.

“Grazie, tesoro …” disse con voce roca in direzione di Kazuha.

“Non dobbiamo farlo per forza ora. Possiamo aspettare …” la voce burbera di Heizo Hattori, stranamente dolce si rivolse alla moglie seduta al suo fianco, evidentemente distrutta.

“Non c’è fretta.” Disse Kazuha, trattenendo le lacrime. La madre di Heiji scosse la testa con veemenza, chiudendo gli occhi nel tentativo anch’essa di non piangere.

“No, dobbiamo farlo ora o … ho paura che non lo farò mai.” Disse sospirando, stringendo a sé un cuscino verde. Kazuha annuì, ficcando ancora di più le mani nelle tasche. Gli occhioni smeraldo andarono ad osservare le pareti di quella stanza dai toni dell’azzurro che era la camera del suo migliore amico, e mano a mano che le iridi smeraldine incontravano gli oggetti che avevano fatto compagnia alla vita di Heiji il nodo alla bocca dello stomaco si stringeva ancora di più, ampliandosi fino alla trachea, impedendole quasi di respirare. Erano passate tre settimane dalla morte di Heiji. Tre settimane dal suo funerale, tre settimane da che non vedeva più quel fantastico mezzo sorriso sulle labbra del suo migliore amico, tre settimane da che i suoi occhi smeraldini non incrociavano più quelli blu oltremare di Heiji, tre settimane passate senza gli abbracci e i litigi tra di loro. Tre settimane da che era morta anche lei insieme ad Heiji, nell’esatto momento in cui il medico aveva detto che non ce l’aveva fatta, che la sua forza e la sua tenacia non erano state in grado di combattere contro quel maledetto proiettile. In tanti erano presenti il giorno in cui erano state sepolte la superbia e l’audacia di Heiji Hattori, e guardando la sua bara in legno di ciliegio Kazuha si era chiesta quanta di quella gente amasse effettivamente Heiji quanto lei. Probabilmente solo i suoi genitori erano distrutti in ugual modo e forse anche Schinichi e Ran, perché poi alla fine la famosa organizzazione era stata sconfitta. C’era voluta la sua morte però, e questo non riusciva ad accettarlo. In quelle tre settimane però era stato strano, perché in pochi l’avevano vista piangere. La gente avrebbe potuto pensare che fosse un’insensibile, mentre invece non sapeva che si era caricata sulle spalle un peso troppo grosso e pesante per le sue esili membra. Aveva deciso di essere lei la roccia che avrebbe sorretto gli altri, soprattutto i genitori di Heiji. Passava le sue giornate in compagnia della signora Hattori e dinanzi a lei cercava sempre di non cedere, perché doveva essere lei la roccia, la spalla su cui piangere degli altri. Però non lo aveva messo in considerazione. Non aveva pensato che quel giorno, tre settimane dopo quell’incubo, entrando nella stanza di Heiji rimasta sino ad allora chiusa sarebbe successo.
Kazuha guardò le foto alle pareti, sentendo il mondo crollarle addosso. Scorse in ordine cronologico tutte le foto che raffiguravano lei ed Heiji nel corso della loro crescita, da quella dove da nanetti si teenvano per mano sorridendo dinanzi al cancello della scuola materna, fino alla più recente, che ritraeva Kazuha appollaiata sulle spalle di un Heiji fintamente infastidito, durante l’ultimo giorno di scuola del liceo. Un mese … quella foto era stata scattata solo un dannatissimo mese prima. Gli occhi guizzarono poi al letto dal quale Heizo e sua moglie si erano alzati, al materasso che aveva fatto loro da campo di battaglia di interminabili lotte con i cuscini che sfociavano sempre in gare di solletico nei suoi confronti, perché era lei la più sensibile dei due. In tutti i sensi.
Guardò poi la scrivania in legno chiaro colma di libri e di oggettistica più o meno ordinata, ripensando a tutte le volte in cui su quel tavolo avevano studiato fino a tardi per un compito in classe o per un’interrogazione, e ripensò anche a tutte le volte in cui entrando in quella stanza lo aveva sgridato bonariamente per il suo disordine. Nella sua mente il ricordo ancora vicino del sorriso furbetto che metteva su in quell’occasione si fece largo tra tutto il resto, provocandole una fitta di dolore proprio al centro del petto. Chiuse gli occhi per un attimo, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Li riaprì, posandoli poi su un oggetto che le fece nascere un sorriso triste sulle labbra.

“Guardate …” disse, richiamando l’attenzione dei signori Hattori. “È la lampada a forma di rana che avevamo vinto a quella lotteria scolastica in terzo liceo …” portò alla mente i ricordi di quella serata in cui il biglietto di Heiji gli aveva permesso di vincere quell’orribile lampada a forma di rana che non aveva poi però avuto il coraggio di buttare. Così l‘aveva tenuta, lì nella sua stanza, proprio al fianco del suo letto.

“Beh, credo che l’abbia tenuta per fare più che altro un dispetto a suo padre.” Intervenne con ironia malinconica la signora Hattori, mentre era intenta a piegare una felpa blu che profumava di Heiji. Heizo non rispose, limitandosi a guardare quella lampada e ricordare il momento in cui aveva espresso il proprio disgusto nei confronti dell’oggetto. Ricordando il sorriso di sfida di Heiji nel momento in cui aveva deciso di tenerla, portandola in camera sua, una coltellata, dritta nel petto si inflisse nel cuore dell’ispettore.

“Se siete tutti d’accordo, credo che terrò quella lampada.” Disse dopo attimi di silenzio, con voce ferma e colma quasi di senso di colpa.

“No, non sono d’accordo. Quella cosa è orribile.” Disse la signora Hattori, scuotendo il capo in direzione di suo marito. Heizo si avvicinò alla lampada, sfiorandola con lentezza.

“Ho bisogno di una lampada nel mio ufficio in questura. Questa lampada è orribile ma lui aveva deciso di tenerla in ogni caso, per dimostrarmi che non gli interessava cosa dicessero gli altri. Era un gran testardo …” disse con un sorriso triste. Kazuha e la signora Hattori lo guardarono staccare la spina della lampada, sollevarla con entrambe le mani, perché era enorme, e depositarla con lentezza in uno degli scatoloni più grandi. Kazuha e la madre di Heiji lo fissarono in silenzio, senza sapere cosa dire.

“Sapeva che gli volevi bene, tesoro …” disse solamente poco dopo la signora Hattori, avendo probabilmente compreso quale fosse il problema del marito. Heizo fissò la lampada, annuendo impercettibilmente tra sé e sé.

“Avrei dovuto abbracciarlo di più, sai?” disse poi ad un tratto, alzandosi in piedi e portandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. Sospirò pesantemente, evidentemente sconvolto.

“Di solito lo sgridavo sempre per la sua impulsività, per il suo volersi cacciare nei guai … e quando faceva qualcosa di giusto, gli davo solo una pacca sulla spalla. Niente “bravo” o “sono fiero di te, figliolo”. Niente. Solo una pacca sulla spalla.” Confessò tristemente, divorato dai sensi di colpa. Alzò le spalle sconfitto.

“Avrei dovuto dargli più abbracci. L’ultima volta che l’ho visto era eccitato per un qualche voto alto a scuola e io gli ho detto < Hai fatto il tuo dovere! > Ma se lo meritava, infondo.” Heizo volse lo sguardo verso la parete, evitando gli occhi delle due donne.

“Quello era il momento perfetto per un abbraccio.” Ammise con voce rotta. La signora Hattori abbassò gli occhi, passandosi una mano sul viso distrutto. Kazuha fissò Heizo sconcertata, incredula. Non aveva mai visto il padre Heiji piangere, se non al suo funerale.
“Ma per il mio stupido modo di essere gli ho solamente dato una pacca sulla spalla … e basta.”

“E adesso è morto …” ammise sconfitto, voltandosi e nascondendo le lacrime. Kazuha serrò gli occhi al suono di quella verità così schiacciante, così opprimente … così terribile. La signora Hattori scosse la testa con gli occhi completamente arrossati, prendendo in mano il cappellino di Heiji appeso alla parete e ponendolo all’interno di uno scatolone. A quel gesto Kazuha si avventò rapidamente su quel cimelo, strappandolo con delicatezza dalle mani della donna.

“N – no, questo no. Ne ho bisogno …” disse con voce rotta, prendendo il cappello dalle dita della signora Hattori che la guardava commossa. Kazuha guardò il cappello stretto tra le sue dita, la scritta SAX cucita in nero sopra al tessuto bianco urlava ricordi che non avrebbe mai cancellato dalla sua memoria.

“Vederlo arrivare a scuola con questo cappello ogni mattina …” disse piano, stringendo delicatamente il copricapo. Sorrise triste, mentre le scene della quotidianità si facevano spazio nella sua mente.

“Sembrava quasi che Superman fosse arrivato …” si lasciò sfuggire un sospiro addolorato, mentre tremando si portava il cappello alla testa. I signori Hattori la guardarono commossi, incapaci di parlare. Kazuha lasciò il cappello sopra la sua testa, e alzando gli occhi verso l’alto si scontrò con la visiera di quel copricapo enorme per lei.

“Dio, la sua testa era così grande …” sussurrò, lasciandosi sfuggire un risolino triste tra le lacrime represse. Per alcuni attimi il silenzi calò pesantemente sulla stanza. Nessuno dei tre parlava, perché andiamo, cosa si poteva dire di un ragazzo morto a diciotto anni?

“Ho sempre pensato che quando … hm …” Kazuha ed Heizo si voltarono in contemporanea in direzione della signora Hattori, seduta in terra e con una maglietta di Heiji stretta tra le mani. La donna prese un profondo respiro, mentre una lacrima solitaria le solcava le gote.

“Come fanno i genitori ad andare avanti quando perdono il proprio figlio?” chiese ad alta voce, guardando Kazuha ed Heizo con occhi smarriti.

“Sapete, quando sentivo di quelle notizie alla televisione, di genitori che perdono i propri figli, cambiavo immediatamente canale, perché era troppo terribile solo da pensare, ma mi sono sempre chiesta: come si svegliano ogni mattina? Voglio dire, come … come riescono a respirare?” disse sobbalzando per le lacrime. Chiuse gli occhi scuotendo la testa e stringendo i pugni, mentre Heizo e Kazuha la fissavano immobili, sconcertati.

“Ma poi ti svegli. E per solo un solo secondo ti dimentichi tutto.” Sussurrò tremando, guardando Kazuha stringersi nelle spalle, prossima anche lei alle lacrime.

“Ma poi … oh, poi ti ricordi. Ed è come ricevere quella chiamata ancora, ed ancora, ogni volta …” mosse il corpo in avanti, sottolineando la sua ultima affermazione.

“Non smetti di svegliarti. Devi continuare ad andare avanti, continui ad essere un genitore, anche se non riesci ad accettare il fatto di non avere più un figlio …”  sussurrò le ultime parole con una fatica immensa, lasciandosi subito prendere dai singhiozzi che la destabilizzarono violentemente. Subito Kazuha ed Heizo si avvicinarono alla donna, che con il volto premuto contro la felpa di Heiji assaporava per l’ultima volta l’odore del suo bambino, piangendo disperata, cinta dall’abbraccio di suo marito e della migliore amica di sua figlio, che piansero con lei.
 

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Fissò il telefono per minuti interi, rigirandolo tra le dita. Quando diavolo aveva intenzione di chiamarla? Che si fosse scordato di lei? Se così fosse, gliela avrebbe fatta pagare cara a quello stupido, non appena fosse tornato da questo “caso di massima importanza”. “È per Schinichi” aveva detto. “Devo aiutarlo.” E lei lo aveva lasciato andare, per la prima volta senza partire al suo fianco. Faceva uno strano effetto trovarsi da soli, senza essere al fianco di Heiji, pensò. Faceva un bruttissimo effetto. Le vibrazioni insistenti del telefono poggiato sul comodino da pochi secondi la ridestarono dai suoi pensieri, facendola scattare come una molla ad afferrare l’apparecchio, con smania di rispondere.

“Heiji!” urlò al telefono, aprendo la chiamata. Per alcuni secondi non lo sentì rispondere, restando così con il fiato sospeso.

“Ehi, Kazuha!” la voce allegra di Heiji si espanse poi per la cornetta, giungendo sino alle sue orecchie, donandole un senso di pace che da diversi giorni l’aveva abbandonata.

“Perché non mi hai chiamato prima?” chiese piccata. Sentì Heiji sbuffare, evidentemente si aspettava quella domanda.

“Scusami, ho avuto molto da fare. Non è una cosa semplice …” disse con stanchezza. Kazuha annuì, recependo il messaggio.

“Come sta andando?”

“Abbastanza bene, ma è un’operazione delicata, non posso parlarne al telefono, potrebbe essere pericoloso. Kazuha sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Heiji e la sua mania di grande detective!

“Si, ho capito, scusa.”  Disse seccata. Dall’altra parte del telefono Heiji sorrise intenerito, percependo il senso di vuoto da quando non l’aveva più al suo fianco acuirsi sempre di più.

“Come va ad Osaka?” chiese con tranquillità, cercando di intraprendere una conversazione. Kazuha mugolò qualcosa, evidentemente delusa.

“Tutto normale, come sempre.” Per alcuni istanti nessuno dei due fiatò e per la linea telefonica si udivano solamente i fastidiosi rumori della connessione non proprio ottimale per la chiamata.

“Mi manchi.” Lo disse diretta, senza tanti giri di parole, Kazuha, e a sentirla, il cuore di Heiji si arrestò di colpo.

“Anche tu.” Rispose poi dopo interminabili secondi di silenzio. Kazuha sorrise orgogliosa e commossa, attendendo che Heiji dicesse qualcos’altro.

“Kazuha, scusami ma devo andare … Schinichi ha bisogno di me.” Le disse invece poi, deludendola. Kazuha spalancò gli occhi, delusa. Ma come, già la liquidava così?

“Ti voglio bene, piccola.” Le disse poi con dolcezza, e a quelle parole, la rabbia scomparve, sostituita da un senso immenso di felicità e orgoglio.

“Io te ne voglio di più.” Ribatté Kazuha con tono infantile, ingorgoglita dalle parole dell’amico. Sentì Heiji sbuffare divertito e se lo immaginò già ridacchiare, alzando gli occhi al cielo esasperato. Poi le sue ultime parole.

“Se lo dici tu …”
 
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La ghiaia scricchiolò sotto i suoi passi all’incedere delle ballerine verde smeraldo, come i suoi occhi. Kazuha attraversò il grande cancello in ferro battuto a testa bassa, fissando i sassolini sotto le sue scarpe, e per poco non si scontrò con un’anziana signora che usciva dal luogo sacro. Alzò di poco gli occhi, giusto per rendersi conto di quale strada dovesse prendere, tornando con la mente al giorno del funerale, ricercando con la memoria la sua ubicazione esatta. Procedette con lentezza per una decina di minuti, attraversando immensi cancelli all’aperto, circondata di monumenti funebri, lapidi ed incisioni buoniste che promettevano il Paradiso e la vita eterna sulle lastre di marmo. Il cappello sopra la sua testa si muoveva su e giù al ritmo dei suoi passi e più volte andò a stringerlo con forza al suo capo, sebbene non ne volesse sapere di stare fermo. Era troppo grande per la sua testa … Si bloccò di scatto, dichiarandosi arrivata, alzò con lentezza esasperante gli occhi, scoprendo dinanzi a sé ciò che più temeva. La lapide lucida risplendeva ai raggi di quel caldo sole di luglio, eppure una lieve brezza fresca soffiava in quel posto, come a volerle ricordare l’aria spettrale che aleggiava nei cimiteri. Mosse alcuni passi in avanti, inginocchiandosi poi con lentezza, noncurante che la ghiaia avrebbe potuto sporcare i suoi amati pantaloni beige. Dalla foto appena inserita sulla lastra di marmo Heiji le sorrideva entusiasta, il solito mezzo sorriso che la faceva impazzire e con in testa quell’amato cappellino che ora era posato sui suoi di capelli scuri. Era una foto recente quella, la riconobbe come scattata appena quattro mesi prima, al suo compleanno. Dio, quanto era bello …

“Ehi …” disse a bassa voce, come se avesse paura di disturbare qualcuno di coloro che riposavano eternamente lì intorno.

“Hai visto? Sono venuta a trovarti …” continuò, con un timido sorriso.

“Sarei voluta venire prima ma … non ce l’ho fatta. Scusami …” ammise, abbassando il capo. Si sentì enormemente in colpa per quella sua mancanza, ma più di tutti si sentiva svuotata da ogni cosa, ora che era lì, davanti ad un pezzo di marmo che le diceva chiaro e tondo: Heiji è morto.

“Però guarda.” Riprese con tono quasi allegro. “Ho portato il cappello.” Disse con un lieve sorriso, trattenendo le lacrime.

“Mi sta un po’ grande però … certo che avevi una testa davvero enorme,eh?” per un attimo si sentì quasi una stupida, perché stava parlando con un pezzo di marmo dove era incollata la sua foto. Ma non gli restava altro. Solo quello. Solo lui.

“Io ancora non riesco a credere che sia vero.” Disse ad un tratto, estremamente seria.

“Io continuo ancora a cercarti. Prendo in continuazione il telefono in mano, controllo sempre questo maledetto aggeggio aspettando di sentirti chiamarmi “Baka!” con il tuo solito tono di voce da sbruffone.” disse, mentre alcune lacrime cominciavano a scendere sul suo volto, afferrando il cellulare dalla tasca della felpa e agitandolo con veemenza davanti a lei.

“E sai qual è la cosa più brutta? Che adesso non saprò mai se tutto ciò che mi è stato detto è solo una bugia ingannevole …” disse a voce più alta, quasi arrabbiata, mentre altre lacrime avevano preso a sgorgare dalle sue iridi.

“Pensavo che saremmo invecchiati insieme …” continuò, gridando al vento di un cimitero deserto.

“Mi hai lasciata così, senza nulla! Non sono neanche riuscita a dirti che ti amo!” Gridò, singhiozzando appena.

“E non riesco nemmeno a togliermi queste quattro maledette parole dalla testa …” ammise sconfitta, mentre finalmente, dopo settimane di lacrime represse e mai versate davvero, si lasciò andare ad un pianto liberatorio, rumoroso, doloroso. Abbracciò con forza la lapide di Heiji, mentre il cappello poggiato sulla sua testa le donava un senso incredibilmente strano di calore, dolcezza, amore, che mai avrebbe più potuto ricevere da lui. Singhiozzò forte, la schiena si alzava e si abbassava con violenza, come colpita da una frusta che probabilmente avrebbe fatto meno male in quel momento. E mentre si abbandonava ai singhiozzi, mentre stringeva a sé tutto ciò che le restava dell’amore della sua vita, la voce di Heiji si ripeteva costantemente nella sua testa, con quelle quattro, ultime parole con cui le aveva detto addio … “Se lo dici tu …”
 
IF YOU SAY SO …
 

Nota autrice:
Ehm ehm, buonasera. Se siete arrivati qui infondo complimenti, anzi mi scuso se vi ho messo addosso depressione a tristezza, ma purtroppo in questo periodo il mio umore non è proprio dei migliori. In questi giorni infatti mi è capitato un evento molto spiacevole qui su Efp che mi ha lasciata molto turbata; in un altro fandom infatti, qualcuno ha letto una mia storia e ha pensato bene di fare copia e incolla e postarla su un’altra sezione, spacciandola per propria. Un plagio vero e proprio. Sono rimasta molto delusa da questo fatto, e anche se fortunatamente l’amministrazione di Efp è intervenuta subito (anzi ringrazio la webmistress Erika per essersi occupata de caso) questa cosa mi ha lasciato con l’amaro in bocca per diversi giorni. Poi c’è da mettere in conto Glee. La mia serie televisiva preferita sta infatti volgendo al termine per sempre, e dire che questo mi sta sconvolgendo è poco. Perciò altra tristezza. Poi collegato a Glee c’è Lea Michele, il mio amore più grande nonché protagonista della serie, che oltre ad essere un’attrice è una cantante eccezionale. Non sto a farvela lunga, ma vi dico solo che ormai più di un anno fa il fidanzato di Lea, Cory Monteith (tra l’altro suo co protagonista nella serie) è venuto a mancare per circostanze tragiche. T-T Lea ha scritto una canzone dedicata a Cory e a questo fatto, intitolata appunto “If you say so”. Ed è a questa canzone incredibilmente struggente e commovente (io piango ogni volta ascoltandola, ma forse sono io la strana) che è nata questa storia. Non so che altro dirvi, ho parlato anche abbastanza. Vi ho messo in alto il link della canzone con la traduzione che vi consiglio di ascoltare, in quanto perfetta per la storia e … e si, è davvero triste. Ok, basta depressione. Spero che questa storia vi sia piaciuta, e se così fosse, vi invito a lasciare una recensione, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate. ;)
Alla prossima!
Un bacio
TWOTS
   
 
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