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Autore: Il_Capitano    09/03/2015    1 recensioni
La guerra in Iraq, la mente di un cecchino, l'odio verso il nemico e la paura di impazzire.
Un breve racconto per narrare come la follia di una guerra sia dietro ad ogni gesto.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A volte era un attimo…
Bastava che un soldato mettesse la testa fuori dalla trincea ed in meno di un secondo il temerario si ritrovava morto…
Cosa era stato ad ucciderlo? Io…
Del resto in questa stupida guerra, che da ormai troppi anni imperversava in questo stupido Iraq, quello era il mio compito.
Un cecchino, un tiratore scelto, la frusta che rompe il silenzio della notte, ecco cosa ero…
In guerra ognuno ha i suoi modi per sopravvivere, o almeno per non uscirne pazzo, ma penso che tra tutti il mio fosse il più macabro…
Dato il tipo di compito che avevo spesso mi ritrovavo a dover premere il grilletto, accelerando così l’incontro tra qualche arabo ed il suo beneamato Allah, e fidatevi che già dopo la prima volta i sensi di colpa si fanno troppo pesanti per essere sostenuti da un uomo normale.
Fu così che in poco tempo dovetti iniziare a tenere la conta dei morti; quanti erano caduti sotto i miei colpi e chissà quanti ancora ne sarebbero ancora caduti.
Fare ciò mi aiutava a ricordare, e ricordare mi aiutava a far si che questa follia che mi circondava non divenisse solo un incubo nelle mie notti, ma anzi che mi permettesse di raccontare la mia storia una volta tornato a casa, proprio come stò facendo adesso.
Per tenere questo oscuro conteggio mi affidavo al mio coltellino svizzero argentato, ultimo regalo di un vecchio padre la cui unica soddisfazione fu quella di vedere il proprio figlio entrare nell’esercito proprio come lui aveva fatto a suo tempo.
Con in mano il coltello prendevo il fucile, un M24 ormai un po’ datato ma ancora molto affidabile e, con pazienza, iniziavo a fare una breve linea sul corpo del fucile, una linea di appena un paio di centimetri, ma che dentro di sé racchiudeva tutto l’odio e la follia che solo un soldato al fronte può provare…
Quella volta non fu diverso, si, si era trattato di un bambino, però io non né avevo colpe, io stavo solo eseguendo gli ordini, giusto?
Ero stato chiamato perché un pazzo, un Iracheno armato di pistola, aveva preso in ostaggio tre donne e minacciava di ucciderle se l’America e con lei tutti gli stati alleati della N.A.T.O. non avessero immediatamente abbandonato il paese…
Povero sciocco, noi eravamo arrivati là per il petrolio, oro nero mascherato dalla parola Democrazia, e veramente pensava che bastasse minacciare un paio di mignotte con quel pezzo di metallo per farci andare via; magari anche chiedendo prima scusa per quello che avevamo fatto in questi anni a quel martoriato paese.
Il mio intervento fu rapido, non volevo tirarla troppo per le lunghe, faceva caldo e mi ero scordato il cappello alla base.
Con una calma quasi meccanica tarai l’ottica per la distanza che il mio proiettile avrebbe dovuto percorrere, circa centocinquanta metri, centocinquantadue per la precisione, poi allinei il reticolo alla fronte dell’uomo, rallentai il battito cardiaco con un esercizio di respirazione e, dopo essermi stabilizzato, feci fuoco.
In meno di un secondo l’uomo si ritrovò a terra, in un lago di sangue, circondato dalle tre donne che, nonostante fossero finalmente salve, continuavano a piangere come matte.
Il mio lavoro era fatto, ma a quanto pare il Fato aveva altri piani per me…
Stavo per riporre il mio fucile sulla Jeep quando notai un bambino che correva verso l’uomo che poco prima avevo “addomesticato”.
Incuriosito da quella visione aspettai e, senza accorgermene, ripresi il fucile con un certo nervosismo.
Non appena il ragazzino fu giunto dall’uomo si accasciò su di lui, inondandolo di lacrime…
Quello che vidi dopo però mi lasciò senza parole e da allora mi insegue ogni volta che incrocio lo sguardo con gli occhi di un bambino…
Quella creaturina infatti non si era abbassata per dare un ultimo abbraccio al padre, ma bensì per raccogliere dalle sue mani la pistola, una vecchia Nagant, residuo bellico della Seconda Guerra Mondiale, per puntarla poi verso le donne che fino a poco prima erano ostaggi e che, per una seconda volta, si ritrovavano ad un passo dalla morte.
Il bambino provò a fare fuoco, ma il grilletto duro e arrugginito, aggiunto alla poca forza del giovane, non lasciarono partire il colpo.
Senza un attimo di esitazione presi la mira, l’ottica era già tarata, e feci fuoco…
Quella sera dovetti aggiungere due tacche al mio fucile, ma questa volta non si trattava di signori della droga o terroristi islamici…
No, questa volta le vittime erano state un uomo e suo figlio, persone di due generazioni diverse ma toccate dalla guerra in egual misura…
Ecco perché, nonostante il nostro continuo impegno, non vinceremo mai in Iraq, la i padri hanno visto troppe guerre per accettare di perderne una anche contro di noi, e i figli crescono così tanto a contatto con le atrocità di questo posto che per loro diventa normale l’idea di morire da martiri facendosi esplodere in un bar…
Così non può andare avanti, il mio fucile sta finendo lo spazio per le tacche e adesso ho una sola paura…
Cosa accadrà quando, dopo la mia morta, dovrò scontare nell’aldilà una pena per ogni tacca che con tanta cura ho inciso in quell’oggetto che ormai non è nulla di più che un’estensione della  mia mano?
   
 
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