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Autore: tenerife sea    09/03/2015    4 recensioni
“Adesso ti racconterò una storia, Luke, che viene da molto lontano ma così reale e vera che ti sembrerà di averla vissuta anche tu”
Harry e Louis si guardano, annuendo lievemente e andandosi a sedere sul divano di fronte a Liam.
Luke stringe ancora di più il nonno, guardandolo con gli occhioni spalancati, e aspetta che cominci il suo racconto.
Genere: Malinconico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Liam Payne, Zayn Malik
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Nonno, cos’è quella corda che porti sempre al braccio?”

Il bambino si accoccola sulle gambe del nonno e lo guarda, curioso e in attesa.

Sono sulla poltrona del salotto, accanto al camino, di fronte alla finestra che dà sul loro giardino.

La neve scende silenziosa, imbiancando tutto quello che trova e posandosi leggera e immacolata.

Liam stringe il suo nipotino a sé, mentre guarda fuori dalla finestra con uno sguardo malinconico negli occhi.

E’ triste, lo è sempre, ma cerca di non darlo mai a vedere perché ha una famiglia da mantenere. Un nipotino che stravede per lui, una figlia sempre fuori per lavoro e i suoi due migliori amici che non lo lasciano mai da solo.

Harry e Louis sono abbracciati accanto al camino, Harry ha preparato il caffè e ha sistemato dei biscotti per il bambino sul tavolino del salotto.

Louis guarda Liam e sa perché, conosce il motivo di quello sguardo velato, ma rimane in silenzio e appoggia la testa sulla spalla del suo Harry. Sono insieme da una vita, dopo tante intemperie ce l’hanno fatta a coronare il loro sogno e a sposarsi su una spiaggia di Las Vegas, in un piccola cerimonia con pochi invitati.

Liam è stato il suo testimone, e ricorda ancora, anche adesso che sono passati 30 anni, lo sguardo di promesse che si sono scambiati, uno accanto all’altro sull’altare. Uno sguardo che diceva ‘non ti lascerò mai’. Sono migliori amici da sempre.

“Luke, magari è meglio se facciamo un bel gioco, che ne dici?” propone Harry al bambino, intuendo che per Liam non è uno dei momenti migliori e che quella domanda ha fatto riaffiorare in lui tanto, troppo dolore.

“No, Harry, va bene così” sorride Liam, stanco. E’ stanco di fingere, di portarsi dentro tutti quei ricordi e di avere paura a farli uscire. E’ stanco di sentirsi così vuoto e ingrato per la sua famiglia che è sempre lì per lui, mentre lui pensa a una persona che lì, con lui, non c’è. “Adesso ti racconterò una storia, Luke, che viene da molto lontano ma così reale e vera che ti sembrerà di averla vissuta anche tu”

Harry e Louis si guardano, annuendo lievemente e andandosi a sedere sul divano di fronte a Liam.

Luke stringe ancora di più il nonno, guardandolo con gli occhioni spalancati, e aspetta che cominci il suo racconto.

 

Quando avevo 18 anni e avevo appena finito la scuola, decisi di arruolarmi nell’esercito.

I miei genitori lavoravano e io volevo dare una mano a mantenere la nostra famiglia. Eravamo in tanti, a casa, 7 fratelli e due soli stipendi. La vita nell’accademia militare sembrava allettante, un buon stipendio da mandare ai miei una volta al mese e una nuova casa per me. Sarei stato lontano dalla mia famiglia, ma l’avrei aiutata e avrei anche liberato un po’ di spazio dal mio peso ingombrante. Un membro in meno in quella casa avrebbe dato un po’ di respiro a tutti e un po’ di preoccupazioni in meno.

Mia madre non voleva che lo facessi, era la fine degli anni 30 e tra la gente si parlava dello scoppio di una nuova guerra. I disastri che la Grande Guerra aveva lasciato erano già troppi, e una guerra imminente avrebbe di certo provocato danni ancora più grandi.

Ma io le diedi un bacio e decisi lo stesso di partire. Sentivo che era la cosa giusta da fare. Avevo le spalle larghe e sapevo badare a me stesso.

Quando partii, lasciai dietro di me i miei fratellini e mia madre in piedi sulla porta che mi guardavano, gli occhi pieni di lacrime.

Mio padre mi accompagnò in accademia e, prima di salutarci definitivamente, mi diede una pacca sulla spalla e mi disse che era fiero di me, che ero il suo uomo.

Entrai in quell’edificio con un macigno sul cuore, con la sensazione di aver abbandonato la mia famiglia e di essere un vigliacco, ma ricordai a me stesso che era proprio per loro che lo facevo, e che nei fine settimana liberi sarei riuscito a trovare un modo per andare a trovarli.

Cominciai a camminare in quell’edificio enorme, pieno di ragazzi in divisa che ridacchiavano e parlottavano tra loro e uno di loro si avvicinò a me, chiedendomi se fossi quello nuovo.

Annuii deciso e il ragazzo mi disse di seguirlo. Mi portò prima nell’ufficio del capo, che mi spiegò gli orari e gli addestramenti che avrei dovuto seguire, e poi mi mostrò la camera dove avrei dormito.

Più che una camera, era una stanza lunga e stretta, sui cui lati c’erano file e file di letti a castello. Verso metà stanza, il ragazzo si fermò e mi indicò un letto a livello rialzato.

“Si è liberato ieri, il soldato è passato di livello ed è stato trasferito. Buona fortuna, saranno giorni duri, i primi” mi disse, e si allontanò.

Guardai quel letto smesso con una divisa piegata poggiata sopra, che mi avrebbe accompagnato per tanto, tantissimo tempo, ed emisi un sospiro.

“I soldati non sospirano mai” disse una voce che proveniva dal letto sotto al mio.

“Come?” mi piegai al livello del letto basso e cercai di capire a chi appartenesse quella voce.

“Sei qui per i tuoi motivi, tutti ne abbiamo uno, ma non si sospira mai. Sei un soldato, ora, e devi essere un vero uomo. Quindi niente pianti e sospiri, esci fuori le palle e combatti. Sarà una lotta dura” disse ancora quella voce, e vidi una testa sbucare dall’ombra.

Quando si alzò in piedi, vidi un ragazzo magro, poco più basso di me, che si abbottonava la giacca della divisa.

Il mio sguardo cadde sulle sue dita, lunghe e affusolate, e sulla parte di petto che la scollatura lasciava intravedere.

“E soprattutto, tieni per te la tua vita privata” mi disse con un tono duro mentre si allontanava.

“Aspetta, come ti chiami?” gli chiesi mentre già mi dava le spalle e si avviava verso la porta d’uscita.

“Zayn. Adesso muoviti a indossare la divisa e vieni a fare colazione” rispose, sparendo dalla mia vista veloce e leggero, come una folata di vento.

Mi sfilai la maglietta bianca, portandomela al viso e inspirando il profumo di casa. Chiusi gli occhi per un attimo e mi si offuscarono. Ma cosa mi prendeva? Un vero uomo non si sarebbe comportato così.

Infilai la maglietta sotto al cuscino e mi cambiai, indossando la divisa velocemente e correndo fuori da quella stanza, senza sapere bene dove andare.

Nel corridoio tutti i ragazzi andavano verso una direzione e allora li seguii, cercando tra la folla quel ragazzo che aveva detto di chiamarsi Zayn.

Quando arrivammo nella sala mensa dell’accademia, tutti si affollarono a prendere il poco cibo che ci era permesso. Dovevamo seguire una dieta ferrea ma per me non era un gran problema, abituato da sempre a mangiare il minimo indispensabile e a lasciare ciò che potevo per i miei fratelli.

Presi un piatto con due fette biscottate e una tazza di latte e mi aggirai per quella sala enorme, piena di ragazzi vestiti tutti uguali.

All’improvviso sentii una mano sulla spalla e mi voltai, sussultando, ma notai con un po’ di delusione che non era Zayn, ma un altro soldato con la barba incolta e due occhi azzurri come il mare.

“Sei quello nuovo, vero? Vieni con me” mi sorrise gentilmente e mi condusse verso una panca appartata, dove ci sedemmo e mangiammo insieme la colazione.

“Stai tranquillo, tra poco questo senso di smarrimento scomparirà e ti sentirai finalmente al tuo posto” mi rassicurò mentre prendeva i piatti ormai vuoti e li portava nel contenitore dei piatti sporchi.
“Grazie, lo so … io … non sono nemmeno sicuro di aver fatto la cosa giusta … voglio solo …” cominciai a balbettare, in preda allo sconforto e a quel senso di ansia alla bocca dello stomaco che non voleva lasciarmi.

“Vuoi solo dare una mano alla tua famiglia, lo so, te lo leggo negli occhi. Tu segui le istruzioni, impegnati duramente e andrà tutto bene” mi sorrise quel ragazzo, mentre il suono di una campanella ci trapanò le orecchie e tutti si alzarono di scatto e cominciarono a correre.

“Cosa succede?” urlai per sovrastare quel fracasso.
“Addestramento. Segui la massa e corri, veloce!” mi urlò il ragazzo mentre lo perdevo di vista.

“Ci vediamo dopo?” gli chiesi, cominciando già a sentirmi perso e frastornato, mentre la massa di ragazzi mi travolgeva.

“Se non mi trovi, chiedi di Louis, mi conoscono tutti qui. Buona fortuna bello” mi urlò lui mentre spariva, inghiottito dalla folla.

Lasciai che la forza di inerzia mi trasportasse e mi ritrovai fuori, all’aria aperta, in un cortile grande e pieno di ostacoli di vario tipo.

Strattonato da una parte all’altra vidi il comandante che fischiava e tutti i soldati che si mettevano in ordine in fila. Li imitai e tutti prendemmo posto, dritti l’uno accanto all’altro.

Ascoltai attentamente tutte le istruzioni che il comandante ci stava dando e cominciammo il nostro addestramento.

A fine giornata, stanchi e infangati, potemmo tornare nelle nostre camere e io mi aggirai per il cortile alla ricerca di Louis.

Quando lo vidi, stava parlando proprio con Zayn.

“Ehi, pivellino, allora, com’è andata?” mi sorrise Louis, seduto per terra, mentre si toglieva qualche filo d’erba incastrato tra i capelli.

“Lo conosci?” chiese Zayn, mentre io mi avvicinavo a loro e lo osservavo più da vicino.

Quella mattina era scappato via così in fretta che non avevo avuto il tempo di capire bene che aspetto avesse.

La prima cosa che mi colpì di lui fu la sua espressione, il suo sguardo perennemente di sfida e la linea dura della mascella. Aveva due occhi marroni e penetranti, e il viso perfetto da duro.

“Io sono Louis, io conosco tutti” affermò Louis deciso mentre si alzava in piedi. “Perché, lo conosci anche tu?”

“Sta nel letto sotto il mio. Stamattina piagnucolava come una femminuccia” rispose Zayn mentre si voltava a guardarmi dall’alto verso il basso, con tono sprezzante e con astio nello sguardo.

“Direi che è andata bene, Louis, ero agitato ma ho seguito tutto quello che ci hanno detto di fare e ho ottenuto anche un buon punteggio. Mi … mi chiamo Liam, comunque” sussurrai io, lo sguardo basso. Mi comportavo come un bambino, ma quel Zayn mi metteva in soggezione e mi sentivo solo, fuori posto. Volevo tornare a casa mia.

“E’ una buona notizia, Liam” disse Louis accentuando il tono di voce sul mio nome, divertito. “Ci divertiremo insieme, vedrai! Vatti a lavare e ci vediamo in sala mensa alle 21” e sparì.

Io e Zayn rimanemmo uno di fronte all’altro e io non feci in tempo a pronunciare una sola parola che il ragazzo si incamminò svelto, le mani strette intorno al petto per ripararsi dal freddo e lo sguardo dritto davanti a sé.

Accelerai il passo per camminargli di fianco e gli sorrisi, ma lui continuava a ignorarmi e a procedere spedito.

“Non mi piacciono le femminucce, Liam. Quindi o cambi atteggiamento o non pensare di rivolgermi la parola” mi disse sprezzante, mentre io rimasi ammutolito.

“Vorrei solo esserti amico, Zayn, qui siamo tutti soli …” gli dissi titubante.
“Io non ho amici.”

Entrammo nel dormitorio e prendemmo le divise di riserva per andarci a cambiare, ma Zayn era sparito.

Chiesi ad un ragazzo dove fosse il bagno e mi indicò la strada.

Il bagno era un’enorme stanza piena di docce aperte, senza porte, lavandini e gabinetti in fila. Tutti vedevano tutto, lì, non c’era spazio per la riservatezza o per la vergogna. Eravamo tutti uguali.

Andai nella prima doccia libera che riuscii a trovare e lasciai che il getto caldo dell’acqua mi investisse, pulendomi dal fango e dai miei pensieri.

Mentre mi sciacquavo, sentii una melodia provenire da una doccia alla mia destra e sbirciai con la coda dell’occhio. Vidi Zayn, i capelli corti secondo le regole bagnati e incollati al collo, che si lavava e canticchiava, gli occhi chiusi. Non potei fare a meno di fissarlo, era così bello e misterioso, avvolto dal vapore caldo dell’acqua e perso nei suoi pensieri. Lo sguardo mi cadde sul suo fisico scolpito, sul suo sedere sodo e alto e sui suoi addominali. Scesi a guardare la peluria pubica e distolsi lo sguardo, arrossendo per la vergogna. Ma che mi stava prendendo?

Mi asciugai e rivestii in fretta e uscii dal bagno, dirigendomi verso la sala mensa e cercando Louis.

Lo trovai appoggiato a una colonna, una gamba sollevata e lo sguardo allegro. Sorrideva sempre, anche se sapevo che, come tutti noi, avrebbe preferito trovarsi ovunque tranne che lì dove era.

“Allora, ti ho preso la carne e un bicchiere d’acqua. Se occupi una panca ci possiamo sedere e mangiare” mi disse porgendomi un piatto, e ci sedemmo vicini.

“Dov’è Zayn?” mi chiese, e io arrossii violentemente, mentre me lo immaginavo nudo nella doccia.

“Era in bagno e poi l’ho perso di vista” gli risposi schiarendomi la voce, mentre cercavo di concentrarmi solo sulla carne e non su quel corpo abbronzato e perfetto.

“Arriverà sicuramente in ritardo. Odia la cena. Non so se hai notato quanto è magro, non mangia quasi più” sospirò Louis.
“Ehi, i soldati non sospirano mai” gli sorrisi io scherzando.

“Tipica frase da Zayn. Si crede forte, sai, un duro, ma in realtà gli manca la sua famiglia. I suoi vivono lontani da qui e lui aveva una casa con sua sorella. E’ preoccupato per lei, era malata quando lui è partito” mi spiegò Louis, e io provai un’immediata fitta di dolore a pensare alla mia famiglia. Ricacciai indietro le lacrime e mi feci forza da solo.

“E tu, come stai? La tua famiglia?” chiesi a Louis mentre portavo alla bocca un boccone di carne.

“I miei sono morti quando ero piccolo, nella Grande Guerra. Sono cresciuto in un orfanotrofio finchè non sono diventato maggiorenne e mi hanno trasferito qui. Questa è la mia casa” mi sorrise lui, e io mi sentii immediatamente in colpa perché quel ragazzo aveva perso tutto, mentre io avevo una famiglia, intera e sana, e continuavo a lamentarmi.

“E poi, la mia piccola famiglia ce l’ho. Si chiama Harry” mi sorrise Louis, gli occhi azzurri che si illuminarono all’istante. Si portò una mano al petto e sfilò una foto sgualcita dal taschino della giacca. Una foto in bianco e nero che ritraeva un giovane ragazzo, con i capelli ricci e spettinati e un sorriso dolce e grande.

“E’ tutto quello che ho, è il mio cuore.” mi disse sorridendo, mentre gli occhi si riempivano di lacrime e rimaneva lì a guardare quella foto. “Non è stato possibile arruolarsi, per lui, perché ha problemi alla vista. Lavora nella panetteria vicina all'orfanotrofio. Quando sono partito, ha detto che mi aspetterà lì. Ha detto che sono il suo eroe”

Una lacrima scivolò sulla guancia di quel ragazzo sempre sorridente e io non potei fare a meno di abbracciarlo forte.

“Ehi, ehi, ricordati dove siamo. Siamo soldati, e i soldati non sospirano mai” disse Louis ridendo, imitando la voce di Zayn e asciugandosi in fretta le lacrime.

In quel momento arrivò Zayn e mi resi conto che tutti, lì intorno, avevamo dei problemi. Tutti avevamo una famiglia che ci aspettava a casa e tutti avevamo qualcuno da cui tornare. Quindi dovevo smetterla di frignare e cominciare a comportarmi da uomo.

“Zayn, prometto che non sospirerò più. Siediti con noi, ti abbiamo tenuto da parte un po’ di carne” gli dissi cercando di sembrare disinvolto e sicuro, e lui accennò un sorriso mentre si sedeva accanto a noi.

I giorni passarono veloci, tra addestramenti ed escursioni. Era dura, mangiavamo poco e avevamo poco tempo per riposare. Riuscii a vedere la mia famiglia solo una domenica d’estate, perché la giornata era talmente bella che papà aveva portato tutta la famiglia in una ‘gita’ ed erano venuti a trovarmi.

Ci avevano messo tre ore di viaggio. 6 figli, una roulotte presa in prestito dai vicini e tanta pazienza. Ma ce l’avevano fatta e al loro arrivo i bambini si erano lanciati di corsa lungo il cortile per venire a saltarmi in braccio. Ero il loro fratellone più grande.

Quell’incontro mi era stato molto d’aiuto per affrontare le settimane successive, e mi aveva rincuorato vedere che stavano tutti bene. Presentai ai miei Louis, che non era mai stato così sorridente come quella domenica, perché anche Harry era riuscito a venire in accademia.

Camminavano abbracciati mentre Louis gli mostrava tutte le entrate dell’edificio, gli ostacoli dell’addestramento, la sala mensa e il dormitorio.

 

“Eravamo davvero così sdolcinati?” chiede Harry con un sorriso, mentre Louis gli sposta un ricciolo grigio-nero dagli occhi.

“Si che lo eravamo, tesoro” gli risponde Lou contento, lo sguardo un po’ perso tra i ricordi.

“Smettetela!” scherza Liam, sistemando un ciuffo sulla fronte di Luke e sorridendogli.

“E Zayn, nonno? La sorella andò a trovarlo?”

E Liam riprese a raccontare.

 

Zayn rimase tutta la mattina in cortile, seduto da solo sulla panchina senza voler parlare con nessuno.

Mi dispiaceva vederlo così, avevo imparato un po’ a conoscerlo e mi sentivo in dovere di aiutarlo. Eravamo tutti fratelli.

Mi avvicinai a lui mentre la mia famiglia chiacchierava con Harry e Louis.

“Non è venuta nemmeno oggi” mi disse Zayn, lo sguardo basso verso i suoi piedi e le spalle abbassate in segno di sconforto. Avrei voluto abbracciarlo, come facevo sempre con Louis quando qualcosa non andava, ma Zayn non era quel tipo di persona.

Mi andai a sedere affianco a lui senza dire nulla e posai una mano sulla sua gamba, come per dirgli ‘io ci sono’. Rimanemmo così per un po’, il vento ci scompigliava i capelli e in lontananza sentivamo le risate delle famiglie felici riunite.

“Magari è solo troppo stanca per viaggiare, Zayn, non puoi saperlo” sussurrai dopo un po’.

“Potrebbe almeno rispondere alle mie lettere, o è troppo stanca anche per questo?” mi rispose lui amareggiato, mentre appoggiava una mano sulla mia e mi guardava.

“Andrà tutto bene” gli dissi io, stringendo quelle dita lunghe tra le mie e accarezzando il dorso della sua mano con il pollice.

“Non lo so, Liam, non ci credo più …” sospirò lui, e io, d’istinto, esclamai “I soldati non sospirano mai”

Mi morsi subito il labbro per aver fatto una battuta in un momento come quello ma, in un modo del tutto insolito per lui, Zayn mi guardò come non aveva mai fatto prima e mi sorrise, per la prima volta da quando eravamo lì mi sorrise e portò le nostre mani intrecciate al suo viso, chiudendo gli occhi.

Rimasi pietrificato per non rovinare quel momento, considerando che rovinare i momenti era la cosa che sapevo fare meglio, e restai fermo a godermi la sensazione della mia mano nella sua e del contatto con la pelle del suo viso.

“Grazie” disse raucamente dopo qualche minuto, alzandosi di scatto e lasciando la mia mano, mentre si allontanava da me.

Rimasi lì, su quella panca, immobile e trasognato per qualche altro minuto prima di riprendermi e tornare alla realtà.

Dopo quella domenica, le cose tra me, Zayn e Louis un po’ migliorarono. Facevamo colazione insieme e ci ritrovavamo dopo gli addestramenti.

Nelle docce io continuavo a sentire Zayn cantare, e avrei tanto voluto andargli vicino e dirgli che era bravissimo, che aveva una voce così bella e che volevo solo stringerlo a me, ma mi trattenevo. Non volevo che smettesse di cantare per colpa mia e ascoltarlo mi bastava. La sua melodia rasserenava il mio cuore. Spesso lo sbirciavo, tra il vapore della doccia e gli asciugamani che volavano da una parte all’altra, e speravo che nessuno mi vedesse. Mi appoggiavo alla doccia accanto alla sua e rimanevo fermo lì per un po’, imprimendomi nella mente ogni aspetto del suo corpo, che non avevo mai sfiorato e che tuttavia avevo imparato a conoscere così bene.

Un sabato pomeriggio di 6 mesi dopo, il comandante del nostro gruppo ci concesse un paio di ore libere fuori in città, e io e Louis corremmo a cambiarci e a preparare tutto.

Mentre sistemavo le magliette sotto al cuscino, sentii Zayn nel letto sotto il mio muoversi.

“Ehi, Zayn, oggi abbiamo le ore all’aria aperta. Sbrigati che usciamo” lo incitai mentre mi piegavo verso di lui. Ma Zayn non mi rispondeva.

Mi sedetti sul letto e aspettai. Ormai avevo capito che per farlo parlare non dovevo dirgli niente, ma dovevo solo dimostrargli che ero lì con lui e lui piano piano si sarebbe aperto da solo.

Sentii la sua mano sulla mia e la sua voce sommessa dire “Mi manca”.

Allungai le gambe in modo da stendermi accanto a lui e lo abbracciai da dietro, senza toccarlo troppo ma facendogli sentire che ero lì, con lui. Che non lo lasciavo solo.

“Mi sembra di impazzire. Non so nemmeno se sia ancora viva, lei è tutto quello che ho e non la sento da mesi. Impazzirò davvero” scoppiò a piangere Zayn, aprendosi per la prima volta con me e tirando finalmente tutto fuori. Dolore, frustrazione, ansia, angoscia, scorrevano lungo le sue guance sotto forma di lacrime salate che gli inondavano il viso. “Darei qualsiasi cosa per sapere come sta. Perché non risponde alle mie lettere?”

Cosa potevo fare io? Mi sentivo così impotente, così appoggiai il mento nell’incavo della sua spalla, il mio naso contro il suo collo e l’attaccatura dei capelli e inspirai il suo profumo di pulito.

“Troveremo un modo” gli sussurrai, mentre lui si accostava di più a me facendo combaciare i nostri corpi alla perfezione.

Sentii la porta del dormitorio schiudersi e dei passi venire verso di noi per poi riallontanarsi. Era sicuramente Louis, che aveva capito tutto e ci aveva lasciati al nostro piccolo momento.

Avrei potuto avere due ore di aria in città, e io decisi di passarle nel posto in cui più mi sentivo libero, con lui.

Ci addormentammo abbracciati e Louis ci venne a svegliare due ore dopo, quando la libertà era finita ed era arrivata l’ora di andare a cena.

Mi alzai per primo, stropicciandomi gli occhi e incrociando lo sguardo divertito di Louis, che ci disse di sbrigarci e si avviò in mensa.

“Andiamo a cena” porsi la mano a Zayn per aiutarlo ad alzarsi e ci avviammo verso la mensa.

Il giorno dopo era la domenica delle visite, ma io sapevo che i miei non sarebbero potuti venire e così aspettai con Louis che arrivasse Harry.

“Dobbiamo fare qualcosa per Zayn” sbottai, quando eravamo tutti e tre insieme.

“Felice di vederti anch’io!” sorrise amorevole Harry, abbracciandomi. Abbracciava tutti, quel ragazzo.

“Hai ragione, Liam, ma cosa?” mi rispose Louis mentre si aggrappava al suo fidanzato, stringendolo a sé e scompigliandoli i capelli ricci.

“Parlerò con il generale e gli chiederò di informarsi. Zayn non può aspettare nella speranza di rivedere sua sorella che probabilmente è morta. Gli scrive delle lettere, ne spedisce almeno una al giorno, e lei non risponde mai. Perché?” spiegai io mentre già mi avviavo verso l’ufficio del capo a passo spedito.

Quando ne uscii, avrei preferito non esserci mai entrato.

La sua faccia non mi aveva comunicato nulla di buono e aveva fatto chiamare immediatamente Zayn, facendomi uscire dalla stanza perché quelle erano informazioni riservate. Il capo disse a Zayn che era stato messo al corrente solo poche ore prima che le condizioni di sua sorella erano gravi, talmente gravi che non aveva più la forza di spostarsi dal letto ed era stata ricoverata in un ospedale. I suoi genitori la stavano per raggiungere. Zayn avrebbe avuto diritto a pochi giorni di libertà per andare a trovarla e darle l’ultimo saluto.

Quando Zayn me lo disse, tremava e aveva gli occhi sbarrati. Balbettava furioso che non poteva essere, che sua sorella si sarebbe ripresa e che l’avrebbe portata via da quell’ospedale. Mi chiese di andare con lui. Non ce l’avrebbe mai fatta da solo e io ero l’unico che poteva sostenerlo, perché Louis usava i suoi permessi per andare da Harry, mentre io non potevo mai vedere la mia famiglia perché era troppo lontana. Ovviamente gli dissi di si ma non sapevo a cosa avrebbe portato quel viaggio. Forse vederla morire lo avrebbe solo fatto stare peggio, ma quello di cui ero certo era che io non potevo lasciarlo da solo.

Partimmo due giorni dopo, zaino in spalla e cuori in subbuglio. L’ospedale dove era stata ricoverata sua sorella era a poche ore dalla nostra caserma e ci portarono lì in un furgone. Durante il tragitto Zayn era così agitato che non smetteva di tremare, e io posai una mano sulla sua gamba per fermarlo. Lui posò la sua sulla mia e mormorò un ‘grazie’ mentre cominciava a sudare. Quando arrivammo all’ospedale dovette passare mezzora prima che riuscissimo a trovare il reparto dove si trovava la sorella di Zayn. Era così in ansia che girava per i corridoi dell’ospedale correndo, guardando in tutte le stanze e perdendosi ogni dieci minuti. Alla fine fui io a parlare con un’infermiera che mi indicò il reparto di terapia intensiva e riuscii a trascinare Zayn con me. Quando arrivammo di fronte alla sua stanza, Zayn si precipitò dentro, inciampando nei suoi stessi piedi, e non appena i due fratelli si guardarono negli occhi, scoppiarono in lacrime. Zayn si lanciò sul letto della sorella abbracciandola e baciandola e io mi appoggiai alla porta, cercando di lasciar loro più privacy possibile. Avevano gli stessi occhi, le stesse mani, lo stesso modo di dirsi ‘mi dispiace’ e lo stesso sorriso, poco accennato ma sincero. Lei lo accarezzava facendo passare le sue dita tra i capelli di suo fratello come una mamma, guardandolo orgogliosa.

“Almeno hai ricevuto tutte le mie lettere? Te ne avrò spedite centinaia” le chiese Zayn dopo aver momentaneamente smesso di piangere.

“Certo cucciolo mio, le ho lette tutte e le ho conservate tutte lì, nel comodino” rispose la ragazza, affaticata e con la voce debole “Ho provato a risponderti così tante volte … così tante … non ho più forza, amore”

“Non dire così, risolveremo tutto” Zayn si sollevò un po’, portandosi un fazzoletto agli occhi e continuando a stringere una mano alla sorella. “Ti presento un mio compagno di accademia, Liam. Liam, lei è mia sorella Doniya”

Mi avvicinai al letto della ragazza e feci un piccolo inchino in segno di saluto. Lei mi sorrise e mi invitò a sedermi accanto a loro.

Parlammo per qualche ora, Doniya mi raccontò alcuni episodi di cose che aveva combinato suo fratello quando erano piccoli e Zayn scoppiava a ridere e a piangere nello stesso momento ogni dieci secondi. Cercai di rasserenarlo posando una mano sulla sua gamba, come facevo sempre, ma lui la respinse bruscamente e si alzò in piedi. La ragazza notò quei movimenti ma non disse nulla. Più passava il tempo più lei era stanca, aveva bisogno di riposare ma cercava di rimanere lucida per passare il poco tempo che aveva con Zayn.

“Doni, forse è meglio se chiudi un po’ gli occhi per ora, che dici? Dài, non ti affaticare” le disse il ragazzo piegandosi su di lei e sfiorandole la fronte con le labbra. Lei lo guardò e gli disse con un lieve sorriso “Ma tu ricordati di mettere gli occhiali”

“Sh, Doni, cosa dici …“ Zayn impallidì e si girò a guardarmi. Io non dissi nulla e aspettai che i due fratelli si salutassero prima che la ragazza si addormentasse, e poi uscimmo dalla stanza. Mentre varcavo la soglia della porta la ragazza mi chiamò, con un debole sussurro.

Io mi avvicinai a lei e lei mi disse nell’orecchio “Se voi due vi volete bene, per me non c’è alcun tipo di problema. Però, prenditi cura di lui, è l’unica cosa che ti chiedo. E ricordagli di mettersi gli occhiali la sera, perché rischia di provocare danni, miope com’è”

“Mi prenderò cura di lui, te lo prometto” le sorrisi mentre le palpebre le si abbassavano e il respiro diventava regolare.

Rimanemmo fuori dalla sua stanza per tutto il pomeriggio, lei dormiva e Zayn non voleva disturbarla, né voleva allontanarsi da lei, e ogni tanto faceva capolino nella sua stanza per guardarla dormire.

“Cos’è questa storia degli occhiali, Zayn?” gli chiesi perplesso.

“Sono miope, Liam, ma ho dovuto fingere di non esserlo alla visita medica per potermi arruolare. Questo lavoro mi serviva e mi serve tutt’ora, per mantenere in vita la mia Doni. Poveri com’eravamo, non potevamo permetterci nemmeno una notte qui all’ospedale. Non ti azzardare a parlare di questa storia con nessuno o io ti ammazzo, Liam. Sono serio” mi rispose bruscamente Zayn, lo sguardo duro e deciso.

“Perché mai dovrei parlarne con qualcuno? Puoi smetterla di trattarmi così ora? Cosa ti ho fatto di male perché tu mi debba respingere così bruscamente? Sono venuto qui per te, per starti vicino. Dovresti solo esserne grato e lasciarti aiutare” gli dissi liberandomi di un peso enorme che mi chiudeva lo stomaco.

Prima mi aveva respinto in stanza davanti alla sorella, ora mi parlava come un genitore arrabbiato parla a un bambino che ha combinato qualcosa. Non meritavo il suo comportamento e volevo solo che capisse che eravamo insieme. Che nonostante tutto, ce l’avremmo fatta.

“Scusami, Liam, ma ti avevo detto di lasciare la vita privata fuori dall’accademia. E ti avevo avvertito anche che io non ho amici.” mi rispose lui, freddo e distaccato, lo sguardo dritto di fronte a sé.

Non feci in tempo a rispondere che sentimmo un gran frastuono provenire dalla stanza di Doniya e alcune infermiere che correvano da una parte all’altra.

Provammo ad aprire la porta ma le infermiere si erano chiuse dentro senza permetterci di entrare.

Passò un quarto d’ora, il quarto d’ora più lungo che io e Zayn avessimo mai vissuto e la porta si aprì. Due infermiere uscirono e presero Zayn in disparte, mentre io cercai di guardare dentro la stanza, ma nel cuore sapevo cosa era successo.

Un urlo straziante, mi voltai e Zayn era lì, solo, il volto rosso dallo sforzo per il gridare e le lacrime copiose che gli inondavano il volto. Sbatteva i pugni sulla porta urlando di lasciarlo entrare e le due infermiere si tirarono indietro, spaventate, ma la porta era ancora chiusa.

Corsi verso di lui e fermai le sue braccia, prendendo i suoi pugni tra le mie mani e spostandolo lontano da lì. Zayn era furioso, addolorato, piangeva e gridava e lasciai che con i suoi pugni colpisse il mio petto, prima violentemente, poi pian piano sempre più debolmente, finchè, esausto, appoggiò la testa sulla mia spalla e si lasciò avvolgere dalle mie braccia. Sentivo i suoi singhiozzi contro il mio petto, il suo corpo scosso. Era come se tutto il suo dolore si stesse riversando su di me, e io avrei voluto prenderne un po’, di tutto quel dolore, sollevarlo, renderlo meno pesante. Io ero più forte, avevo meno problemi di lui. Io potevo aiutarlo.

“Zayn, calmati, andrà tutto bene” gli sussurrai mentre lo accarezzavo dietro il collo, cercando di farlo calmare un po’. “Lei lo sapeva, era serena. Era solo preoccupata per te”

Zayn continuò a piangere contro di me, appoggiato a me, stretto dal mio abbraccio forte, e rimanemmo così fino alla sera, fino a quando, arrivati i suoi genitori, poterono entrare nella stanza della sorella e darle un ultimo saluto.

Il permesso che avevamo avuto dall’accademia era di 4 giorni quindi avevamo ancora 3 giorni liberi, e andammo a dormire con i suoi genitori in una locanda lì vicino. Il funerale fu triste, breve e rispettoso. Poche persone e un dolore immenso. Per tutta la durata della cerimonia Zayn mi strinse la mano, incurante degli sguardi che ci lanciavano e dei mormorii.

Non gli importava più nulla, di niente, ormai. Voleva essere sotto terra con sua sorella, lo sapevo, e continuavo a dargli conforto con la mia mano tra la sua.

Ce l’avremmo fatta. Ce l’avremmo fatta perché eravamo insieme.

Quando tornammo in accademia, le cose tornarono come prima che ce ne fossimo andati. Gli addestramenti seguivano le colazioni, le cene magre e le docce, e tutto si susseguiva uguale a prima. Zayn, però, era diverso. I suoi occhi erano spenti e si trascinava da una stanza all’altra con lo sguardo perso nel vuoto. Io e Louis facevamo di tutto per stargli vicino e lui ce n’era grato, so che lo era, anche se non ce lo disse mai. Era passato un anno, ormai, dal nostro arrivo lì, e la vita sembrava essere trascorsa in un secondo. Tutta quella vita, quei dolori e quelle mancanze, racchiusi lì, tra quelle mura di quell’edificio, e noi tre, soli e forti, che cercavamo di affrontare la vita.

Le escursioni si intensificarono, verso l’estate del 39, e i generali ci addestravano con tecniche sempre più rigide e violente. Durante una di quelle escursioni, i nostri comandanti ci concessero una pausa per mangiare e io e Zayn ci andammo a sedere sotto un albero. Louis si trovava in un altro gruppo quindi non lo vedemmo finchè non tornammo in accademia, la sera.

“Dicono che presto scoppierà un’altra guerra, forte come quella che c’è stata 20 anni fa o forse ancora più grande. Per questo stanno intensificando gli addestramenti …” mormorò Zayn, giocando con una foglia che era caduta dall’albero.

“Ci penseremo quando sarà iniziata, allora” risposi io distrattamente “Ma tu, puoi spiegarmi come fai ad essere miope e a riuscire a correre da una parte all’altra senza cadere ed evitando tutti gli ostacoli?”
“Shhh” Zayn mi lanciò una foglia addosso “Riesco perché non ho una miopia molto elevata e perché sto attento quando i generali ci spiegano le mosse da fare”

“Ma è rischioso comunque … insomma, se un domani ci fosse davvero questa guerra e tu non riuscissi a vedere un nemico correrti incontro? O se cadessi in una trappola?” incalzai io, lievemente agitato, e sentimmo un rumore di foglie che scricchiolavano dietro di noi.

Ci voltammo contemporaneamente e vedemmo un nostro compagno di spalle correre via.

“Merda, Liam, avrà sentito tutto!” mi urlò Zayn arrabbiato, mentre si alzava in piedi.

“E anche se fosse, Zayn? Non penso proprio che farà la spia, dai … non lo abbiamo fatto apposta” gli risposi alzandomi anch’io. In una piccola parte del mio cuore, in realtà speravo che quel soldato facesse la spia perché avrei voluto salvare almeno Zayn dalla guerra, ora che nemmeno il lavoro gli serviva più di tanto riguardo la questione dei soldi. Però rimasi in silenzio e mi addentrai nel bosco dove ci trovavamo. I nostri compagni erano sparsi qua e là, stanchi dalle mille corse ad ostacoli che facevamo.

Zayn mi seguì accelerando il passo e mettendosi a camminare al mio fianco, entrambi in silenzio.

“Voglio insegnarti una cosa, così magari potrà esserti utile se andremo in guerra e io non sarò vicino a te. Me l’aveva insegnata Doniya quando eravamo piccoli e dovevamo aiutare papà a riparare le navi del suo negozio.” mi disse mentre sfilava un pezzo di corda dalla tasca.

Ci sedemmo nuovamente e cominciò a intrecciare la corda, muovendo velocemente le sue dita sottili e creando una serie di nodi che mi spiegò servivano per raddrizzare le vele delle navi in caso di burrasche o venti troppo forti e per rafforzare i supporti della ancore.

Gli chiesi se potessi provare anch’io e mi diede la corda, mentre posava le sue dita sulle mie per guidarmi nei movimenti. Socchiusi leggermente gli occhi, godendomi quel contatto con la sua pelle. Non riuscivo a farne a meno, vivevo per quelle piccole cose, per quei gesti impercettibili, per quelle carezze veloci e quegli attimi rubati. Accanto a lui mi sentivo così bene e allo stesso tempo così triste. La voglia di stargli ancora più vicino, di poterlo stringere e inspirare il suo profumo, di sentire il suo corpo contro il mio mi uccideva, mi torturava giorno e notte. Ma lui sembrava non accorgersene e io non avevo il coraggio di spingermi oltre, di fargli capire quello che provavo e di parlargli liberamente. Mi bastavano quelle carezze fugaci e i sogni …

 

Era una notte di agosto quando accadde. Entrarono nel dormitorio correndo, sollevandoci le coperte di dosso e accendendo le luci.

“Ma cosa diavolo sta succedendo?” sentii pronunciare da un soldato che dormiva di fronte a me, e una schiera di generali e sovrintendenti che ci spingevano giù dai letti e ci comunicavano che la guerra stava per scoppiare. Dovevamo tenerci pronti e ci avrebbero diviso per gruppi, ogni truppa sarebbe stata inviata in postazioni diverse come nelle esercitazioni e avevamo quell’ultima notte per preparare tutto e dirci addio.

Stava succedendo. Quel giorno era arrivato. La prima cosa a cui pensai furono gli occhi di mia madre. La donna della mia vita. Lei che mi aveva sempre sostenuto, che aveva sopportato tutte le mie lamentele nella quotidianità della vita, che aveva sempre fatto affidamento su di me perché ero l’ometto di casa, che non ero un figlio ma ero un suo alleato. Lei che senza di me sarebbe morta. Non la vedevo da quella domenica in cui erano riusciti a venire a trovarmi e ora stavo per partire senza dirle nemmeno addio. Decisi che ce l’avrei fatta solo per lei, solo per poter tornare a casa e abbracciarla. E poi guardai Zayn, nel letto sotto il mio. Lui che con quegli occhioni scuri e i suoi modi bruschi mi era entrato così tanto nel cuore, e non ero nemmeno riuscito mai a dirgli ciò che provavo per lui. Forse era il caso di farlo? Avrei potuto non vederlo più, e morire con il rimpianto di non averglielo mai detto. E Louis, che in quell’anno mi era stato accanto come un fratello, che aveva il suo Harry e non poteva lasciarlo solo, che era diventato la mia famiglia e che contava più di tutto. Come avrei fatto senza di loro? Pensavo a tutto questo mentre mi sfilavo il pigiama e due dei generali si avvicinavano a Zayn e lo portavano via, tirandolo per un braccio. Strabuzzai gli occhi, incredulo, e lui si voltò verso di me. Uno sguardo carico di tensione e lo vidi allontanarsi. “Ti aspetto qui!“ gli urlai dietro, mentre la porta si richiudeva dietro di lui.

La notte passò velocemente, io e Louis preparammo gli zaini e aspettammo insieme, seduti e in silenzio. Nessuna parola era di conforto in quel momento e ci limitavamo a guardarci di tanto in tanto, pieni di ansia e terrore. Ciò che stavamo per affrontare era troppo, troppo grande per noi, e non ci sentivamo assolutamente, per niente pronti.

Zayn tornò dopo molte ore. Indossava dei pantaloni e una camicia, non la solita divisa, e trascinava una valigia. Si avvicinò a noi in silenzio e si piegò sulle ginocchia. Mi guardò negli occhi e sussurrò “Lo sanno. Sanno tutto e non mi permettono di partecipare alla guerra. Mi rimandano a casa. Non sono più un soldato”

“Sanno cosa?” chiese Louis, mentre Zayn posava la valigia a terra e abbassava lo sguardo.

“Oh merda, Zayn” dissi io mentre mi facevo coraggio e lo abbracciavo. Fu un abbraccio duro, ruvido e senza passione. Un abbraccio tra fratelli, ma mi bastò per fargli capire che ero lì con lui, per lui.

“Lascia perdere, Louis, sono miope e lo hanno scoperto. Mi hanno cacciato e posso tornare a casa. Dicono che è un bene, così non dovrò morire in guerra, ma dove torno, se non ho più una casa? Dove vado, ora che Doniya non c’è più? Non fatemi scherzi, ragazzi, che io vi aspetto qui, e farete meglio a farvi trovare vivi, siamo intesi?” disse Zayn mentre abbracciava anche Louis, la voce roca e gli occhi spenti.

“Aspettaci qui” gli dissi io.

Un bacio, ricordo che gli diedi un bacio sulle labbra così veloce e leggero che gli altri intorno nemmeno se ne accorsero. Ma il mio cuore sì, il mio cuore lo sentì e fece un salto. Tutto il mio corpo lo sentì e le mie labbra, a contatto con le sue, mi bruciavano di una gioia nuova.

Ci allontanammo da lui che rimase lì, seduto con accanto la valigia che ci guardava.

“Vi aspetto qui.”

 

Gli anni della guerra furono tremendi. Persino parlarne mi fa male, ora. Sono impressi tutti qui, nella memoria, come cicatrici indelebili. Furono anni dove il sangue era una visione giornaliera. Anni dove tutte le futili preoccupazioni della vita precedente sembravano così stupide e inutili. Anni dove si era una squadra, ma ognuno pensava per sé. Anni di dolore, di perdite e di mancanze, dove non ti rendevi nemmeno più conto di essere un uomo ma solo un animale disperato che pensava ogni giorno alla sopravvivenza. Anni così vuoti e disperati, così disumani e pieni d’angoscia che la vita vera sembrava un miraggio troppo, troppo lontano. Rimasi in guerra per 3 anni. Riuscii a mettermi in contatto con Louis, qualche volta, tramite capi che si spostavano dalla mia alla sua fazione, e più di una volta mi tornò utile annodare la corda come mi aveva insegnato Zayn, quando delle barche alleate arrivavano ai nostri porti e dovevamo soccorrerle. Le notti che passavamo nascosti nelle fosse comuni erano interminabili, e io mi ritrovavo a stringere tra le mani quel pezzetto di corda che Zayn mi aveva dato e che avevamo tenuto in mano insieme. Mi dava un po’ di forza, mentre ero lì, rannicchiato per ripararmi dal freddo, accanto a compagni doloranti che dormivano e con i morti vicino a noi. I loro corpi gonfi per il freddo emanavano il tipico odore dei cadaveri in rovina e noi non li guardavamo, perché dovevamo pensare a chi era ancora vivo e a salvarci. Ogni giorno era una nuova sfida e un nuovo interrogativo. Ogni giorno, ci salutavamo senza sapere se ci saremmo rivisti la sera.

Dopo quasi tre anni di guerra, che sembrava impossibile e senza fine, durante una corsa sfrenata in una sparatoria, inciampai in una pietra e caddi. Caddi così violentemente e in maniera così disumana che nemmeno mi resi conto di quello che stava succedendo, pensavo solo a ripararmi dai proiettili nemici e a tenere ben saldo il fucile tra le mani. Ruzzolai per un bel po’ di terreno, finchè strisciando non riuscii a nascondermi dietro un masso di pietra e a ripararmi dai nemici.

La gamba sinistra mi faceva un male lancinante e non riuscivo né a stenderla né a piegarla. Un mio compagno mi vide e si avvicinò furtivamente a me, intimandomi di rimanere fermo lì e di aspettare che calasse il coprifuoco. Ma la gamba mi faceva così male che dovevo fare qualcosa, e provai a sollevarmi in piedi. La fitta di dolore fu così forte da togliermi il fiato e mi rimisi seduto, mentre intorno a me i miei compagni correvano e cadevano e lottavano per la propria vita. In quei momenti, non pensi più a cosa sia giusto o sbagliato, a difendere l’onore della tua patria e i tuoi ideali. In quei momenti, la speranza di rimanere in vita è un’ancora così potente che pensi solo a salvarti e a tornare dalla tua famiglia.

Quando calò il buio sentii due braccia che mi trascinavano e altre due strette intorno ai miei piedi, e quando aprii gli occhi mi ritrovai in un letto. Un medico mi spiegò che ero svenuto in campo e che mi ero rotto una gamba dall’anca fino alla caviglia. Guardai verso il basso e vidi la mia gamba sinistra completamente avvolta da gesso e garze, e un tutore sotto che me la teneva sollevata. Mi dissero che ero stato esonerato dalla guerra, che potevo tornare a casa dopo che mi fossi ripreso e che mi aspettava un lungo periodo di riabilitazione. La mia famiglia era stata avvertita e mi chiese se avessi bisogno di qualcun altro da contattare. Zayn, il mio pensiero andò subito a lui. Chissà come stava, dov’era, cosa faceva, se lavorava, se aveva trovato qualcun altro. “Zayn, chiamatemi lui”

I primi giorni in ospedale furono strani. Per una strana ragione, non mi sentivo sollevato dal non essere più in guerra. Avevo abbandonato i miei compagni, Louis, ero scappato senza lottare grazie a una scorciatoia, pur non volontaria, ma sempre di scorciatoia si trattava, mentre tutti i miei fratelli erano ancora lì, tra la polvere e il freddo, a combattere per arrivare vivi a fine giornata. E poi pensavo ai nemici, alle persone che avevo ucciso e agli occhi vuoti e aperti dei cadaveri che avevo sorpassato senza prestare attenzione. Alle corse per salvarmi e ripararmi, ai fucili che avevo ricaricato, ai colpi che avevo assestato e alle mani gonfie per il freddo e le ferite. Non riuscivo a piangere, a sfogarmi, ed ero costretto a starmene lì, in quel letto, disteso e inerme, senza più alcuno scopo o utilità.

Venne a trovarmi mio padre. Fu la prima volta che lo vidi piangere e ci abbracciammo come non avevamo mai fatto.

“Tua madre sta bene e anche i tuoi fratelli. Ti aspettiamo tutti a casa non appena ti riprendi. Siamo così sollevati”

Loro erano sollevati e io no. Zayn non arrivava e la mia agitazione cresceva. Non poteva raggiungermi? O non voleva? Stava bene? Con chi viveva? Lavorava? Mi tormentavo con questi interrogativi mentre mangiavo, mentre parlavo con i soldati malati nei letti accanto al mio, mentre le infermiere mi cambiavano le bende e mentre camminavo avanti e dietro per la riabilitazione. Passarono settimane, settimane in cui migliorai i movimenti, in cui piano piano riuscivo a camminare sorretto da una stampella e in cui riuscii a ricevere notizie dal fronte di Louis. Era ancora vivo. Scrissi ad Harry per avvertirlo e Zayn non arrivava.

Dopo circa un mese di lettere tra me, Harry, la mia famiglia e il fronte di Louis, mentre ero di spalle alla finestra a guardare le nuvole che si spostavano spinte dal vento, sentii una voce, una voce così familiare che l’avrei riconosciuta tra mille. Una voce così bella e calda che mi fece sentire subito a casa.

“Te l’avevo detto che ti avrei aspettato!” mi voltai e vidi Zayn, bello come sempre, in piedi sulla porta. Si era fatto crescere i capelli, non essendo più costretto a portarli rasati come in accademia, e lunghi e neri gli incorniciavano il volto da angelo cattivo, la mascella dura e la barba incolta. Gli occhi erano rimasti gli stessi, intensi e profondi, e il suo sorriso sghembo era ancora affascinante e temerario come tre anni prima.

“Oddio Zayn” urlai io e cercai di corrergli incontro, ma lui mi precedette e si fiondò verso di me, sorreggendomi e facendomi cadere la stampella dalle mani.

Mi abbracciò, uno dei nostri abbracci goffi e duri, e io affondai la testa nel suo collo, inspirando quell’odore che mi era così mancato e che non avevo mai dimenticato.

“Come stai? Dove vivi? Lavori?” gli chiesi impaziente mentre mi aiutava a sedermi sul letto.

“Lavoro con Harry nella panetteria, viviamo insieme e con noi c’è anche la sua sorellina. Mi chiama papà, pensa un po’. Mi sono affezionato tanto a lei e io e Harry le parliamo sempre di te e di Louis. Harry è così triste e preoccupato, ed è una fortuna che ci siamo io e la bambina ad aiutarlo … Quando ha saputo che tu eri salvo è scoppiato a piangere perché da Louis non ha ancora ricevuto notizie e non ce la fa più … L’ultima lettera risale a qualche mese fa …” mi spiegò Zayn mentre si sedeva accanto a me.

“Louis se la caverà, ne sono sicuro. La guerra sta per finire e avrei voluto portarlo qui con me, ma se la caverà perché ce lo siamo promessi prima di partire. Lo aspettiamo insieme!” gli risposi io sospirando lievemente, tanto che ci guardammo all’istante e pronunciammo insieme ‘I soldati non sospirano mai’.

Mi sorrise e mi strinse la mano, e io guardai nei suoi occhi. Mi era mancato così tanto farlo e allo stesso mi sembrò così naturale, come se non avessi mai smesso e non ci vedessimo solamente dal giorno prima, che non potei fare a meno di provare uno strano senso di felicità dentro di me e una nuova forza crescermi nel cuore. Mi stava per scoppiare, e lo avrebbe fatto davvero, se non avessi fatto qualcosa in quel momento, e così feci quello che più desideravo e che più mi sembrava giusto, lo baciai. Appoggiai le mie labbra sulle sue all’inizio timidamente, e sentii che lui si protrasse un po’ indietro. Sbirciai con la coda dell’occhio intorno alla stanza ma dormivano tutti o comunque stavano troppo male per pensare a noi, e gli sorrisi, naso contro naso. A questo punto Zayn si rilassò un po’ e mi baciò, questa volta non timidamente, non leggermente come prima, ma più forte, più passionale. Le sue labbra aderivano alle mie senza volersi più staccare, come se aspettassero solo quello da una vita, e il bacio fu come tornare a casa. Intorno a noi, era sparito tutto. Non c’era più la guerra, non esisteva il dolore, non c’era più sofferenza e non c’erano preoccupazioni. C’eravamo solo noi due, le nostre labbra e i nostri respiri mescolati, i nostri cuori che cominciavano ad andare allo stesso ritmo e le sue mani tra i miei capelli. C’era solo il mio corpo che ansimava, le mie mani attorno ai suoi fianchi che esploravano col tatto quel fisico che conoscevano solo i miei occhi, c’era solo il suo profumo che mi era entrato in ogni vena e il mio cuore che pompava felicità.

Quando ci staccammo, Zayn era rosso e non mi guardava.

“Forse è stato uno sbaglio … io devo andare!” e corse via.

Rimasi seduto sul letto tutto il pomeriggio, immobile, incredulo per quello che era successo e contento e deluso allo stesso tempo. Zayn non accettava il fatto che fossimo due ragazzi, lo avevo capito da subito, da quando lo avevo sfiorato davanti a sua sorella in quella camera d’ospedale. Ma sapeva quello che c’era tra di noi, lo sapeva ed era per questo che ne era così spaventato. Non gli avrei messo fretta e lo capivo, ma ero deciso a fargli cambiare idea e a portare il nostro rapporto avanti, ora che eravamo liberi e potevamo vivere la vita che volevamo.

Rimasi in quell’ospedale per due mesi, tra riabilitazione, bendaggi e controlli vari, ed Harry e la sorellina mi vennero a trovare una volta alla settimana. La bambina mi si affezionò subito, si sentiva tanto sola e vedeva in me e Zayn due figure di papà che l’avrebbero protetta. Zayn non tornò più, ma Harry mi portava sempre dei biscotti che aveva fatto per me in panetteria. Diceva ad Harry che me li avrebbe fatti trovare quando sarei tornato dall’ospedale, ma Harry me li portava lo stesso perché sapeva che era quello che Zayn voleva. Mi diceva che parlava spesso di me, che gli mancavo e che non veniva a trovarmi perché aveva paura. Non voleva avere una relazione con me, e questo mi feriva, ma erano gli anni 40 e nessuno avrebbe capito.

Quando tornai a casa, lo trovai sulla poltrona dove ora siamo seduti io e te, Luke, che guardava fuori dalla finestra.

La bambina ed Harry ci lasciarono soli, e io, zoppicando, trascinai una sedia e mi sedetti accanto a lui.

Mi guardò, guardò la mia gamba e gli occhi gli si riempirono di lacrime.

“Scusami se ti ho lasciato da solo” scoppiò a piangere, e io lo abbracciai. Lo sapevo che gli avrebbe potuto dare fastidio, ma lo abbracciai lo stesso, forte, come avevo fatto tre anni prima all’ospedale e come avrei voluto continuare a fare sempre. E Zayn non si staccò da me, anzi, si abbandonò tra le mie braccia mentre continuava a ripetermi ‘scusami’, ‘mi dispiace’, tra i singhiozzi e io mi sentii in pace con me stesso, così sereno e al mio posto che niente mi avrebbe più potuto fare male.

Andammo tutti e quattro a casa dalla mia famiglia, e quando mia madre mi vide, vidi nei suoi occhi un sollievo autentico, come se avesse appena ripreso a respirare. E tutti i miei fratellini che mi saltavano addosso e papà che cercava di trattenere le lacrime di felicità.

Mi trasferii a casa di Harry con Zayn, e aiutai Harry e Zayn con i lavori in panetteria, e parte del mio stipendio lo mandavo alla mia famiglia. Mentre loro si occupavano della cucina e della lavorazione del pane, io organizzavo i trasporti, portavo il cibo a domicilio e riparavo qua e là i vari problemi. Provai ripetutamente a mettermi in contatto con la fazione di Louis ma non ricevevo mai risposta, e una sera d’estate del 45, un anno dopo, sentimmo una notizia alla radio. La guerra stava finendo. I soldati inglesi venivano rimandati a casa e forse Louis sarebbe tornato. Cominciammo ad agitarci, a non dormire le notti. Harry passava le giornate a correre da una parte all’altra, voleva andare da lui, fissava la porta in attesa di vederlo comparire e faceva cadere tutto a terra. Non sapevamo se essere felici o preoccupati, e nel dubbio eravamo entrambe le cose. Io e Zayn ci eravamo avvicinati molto, e ogni tanto gli strappavo un bacio veloce sulle labbra, e lui sorrideva.

Quando Louis tornò, era una sera di fine agosto. Avevamo appena chiuso la panetteria e stavamo ripulendo le ultime cose, la bambina era già stata messa a letto e Harry sistemava la cucina mentre io davo una spolverata un po’ ovunque.

Una valigia, una porta che cigolava e lui era lì, sulla soglia della porta, immobile e irriconoscibile. Una lunga cicatrice gli attraversava il mento, le mani piene di graffi, calli e rigonfiature e la barba incolta. Ma gli occhi, quegli occhi azzurri come il mare e sinceri come solo i suoi erano, erano proprio gli occhi di Louis. Harry lanciò una teglia a terra e gli corse incontro, piangendo. Si scontrarono in un abbraccio disperato mentre cominciavano a baciarsi e io, non potendo trattenere la gioia di aver rivisto il mio amico sano e salvo, corsi addosso a loro per abbracciarlo anch’io.

Quando mi feci da parte per lasciarli un po’ da soli, Zayn mi stava aspettando nel retro del negozio. Aveva lanciato uno sguardo a Louis pieno di affetto e solidarietà, uno sguardo che gli diceva ‘grazie per essere tornato’ e ‘ci vediamo dopo’, e mi aveva portato con sé in camera sua.

“Quello che c’è tra Harry e Louis è qualcosa che sfida il tempo e le distanze. Si sono aspettati per tanto tempo e ora ce l’hanno fatta, finalmente. Forse possiamo avere anche noi il nostro lieto fine” mi disse mentre si avvicinava a me e cominciava a sfilarmi la maglietta sudata.

“Forse, anche noi meritiamo un’opportunità” mi sussurrò nell’orecchio mentre le sue mani scivolavano veloci sui miei addominali e io, incredulo, lo afferravo e lo stringevo a me.

“Lo meritiamo anche noi” fu l’ultima cosa che dissi, prima di posare le mie labbra sulle sue e fondermi con lui, in una notte che fu la più bella della nostra vita e che avrei voluto non finisse mai.

 

Passarono gli anni, Harry, Lou, Zayn e io vivevamo felici a lavoro in quella panetteria, e Gemma, la sorellina di Harry, cresceva sempre più bella e felice. Per lei, io e Zayn eravamo i suoi papà e noi ci sentivamo tali. La trattavamo come una principessa e per noi era l’unica priorità. Cercavamo sempre di non farle mancare nulla e tutti i sacrifici che facevamo, li facevamo solo per lei. Quando si innamorò e ci presentò il suo ragazzo noi eravamo felici, e tutto quello che volevamo era solo che lo fosse anche lei.

Col passare del tempo le nostre schiene non erano più forti come una volta, e le nostre gambe non erano più tanto agili. Il lavoro sembrava sempre più pesante ma eravamo felici, pechè eravamo tutti insieme e perché quello che ci legava era così forte che insieme affrontavamo qualsiasi cosa.

Amavo Zayn sempre di più. Ogni giorno, con lui, era una scoperta nuova, e dietro quel burbero aspetto da duro si nascondeva un uomo pieno di sogni, con un cuore tenero e grande. Quando ero con lui, si manifestava la parte migliore di me. Quando a 30 anni uscì il primo capello bianco, e ricordammo insieme quando in accademia fummo costretti a rasarli a zero. Quando a 40 anni la gamba che mi ero rotto in guerra ricominciava a farmi male, e alla stampella sostituimmo un bastone che lui mi regalò. Quando ai 50 ci guardavamo entrambi allo specchio, con qualche ruga intorno agli occhi e un po’ di pancia pronunciata, e io gli sussurravo che per me era bello come quando avevamo diciottanni, mentre gli sistemavo gli occhiali che dimenticava sempre. Quando ai 60 anni lui si ammalò, e io gli rimasi vicino ogni giorno. Quando era così stanco da non riuscire ad alzarsi dal letto, e io mi sedevo accanto a lui e gli accarezzavo la fronte, e gli sistemavo i capelli grigi che gli cadevano spettinati dovunque. Quando ricordavamo insieme i primi giorni in accademia, le paure e gli errori commessi, i nostri abbracci e i baci che gli rubavo. Quando mi piegavo per raggiungerlo nel letto e gli sfioravo le labbra con le mie, e sentivo che al mondo nulla era più perfetto di quel momento. Quando gli mostrai quel pezzo di corda che, molti anni prima, mi aveva insegnato ad annodare, e gli dissi che per me era lui la mia ancora, e che mi avrebbe tenuto salvo per sempre. Quando gli rivelai che lo avevo sentito cantare, e lo pregai di cantarmi qualcosa e lui mi canticchiò una canzone che diceva ‘I have loved you since we were eighteen’. Molto prima che provassimo entrambi le stesse cose, che capissimo cosa vuol dire amare ed essere amati. E ci amammo sempre, ogni giorno della nostra vita, ogni momento, ogni istante, durante ogni litigata e durante ogni risata. Dentro ogni lacrima e in ogni sorriso, nella malattia e tra quei capelli grigi. E io lo amai anche quando mi lasciò da solo. Quando la stretta della sua mano intorno alla mia si fece più lenta, e le sue dita si aprirono da sole. Quando chiuse gli occhi per sempre e se ne andò, io lo amai anche allora, e gli promisi che, come 50 anni prima, lo avrei aspettato. E lui mi avrebbe aspettato.

 

“Nonno, mi dispiace così tanto” Luke asciuga una lacrima dalla guancia di Liam e si sporge per dargli un bacio.

Harry e Louis si abbracciano e guardano Liam con occhi pieni di affetto.

La porta d’ingresso si apre.

“Amore, è ora di tornare a casa. Fuori nevica e papà ci aspetta” Gemma aiuta Luke a infilarsi il giubbotto e dà un bacio a Liam.

“Tutto bene, papà?” gli sorride, leggermente preoccupata.

“Va tutto bene, vecchi ricordi tesoro” le risponde Liam con un sorriso leggero, continuando a guardare la neve che cade fuori e a toccarsi la cordicella legata al braccio.

“Ci vediamo domani dopo la scuola, allora. A domani” sorride Gemma prendendo per mano il suo bambino, e quando sono sulla porta Liam risponde “Certo cara, a domani” e sospira lievemente.

“Nonno” esclama Luke con un sorriso “ricordati che sei un soldato. E i soldati non sospirano mai.”

 

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Vi ringrazio se siete arrivate fino a qui, spero che vi sia piaciuta questa storia perché è la mia prima one shot sugli ziam e scriverla è stato molto difficile.

Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate così posso migliorare la mia scrittura e se amate i Larry, e vi va di leggere qualcosa su di loro, ho pubblicato '158 passi' in 11 capitoli.

Un bacione a tutti.

   
 
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