“Nonno, cos’è quella
corda che porti sempre al braccio?”
Il bambino si accoccola
sulle gambe del nonno e lo guarda, curioso e in attesa.
Sono sulla poltrona del
salotto, accanto al camino, di fronte alla finestra che dà sul loro giardino.
La neve scende
silenziosa, imbiancando tutto quello che trova e posandosi leggera e
immacolata.
Liam stringe il suo
nipotino a sé, mentre guarda fuori dalla finestra con uno sguardo malinconico
negli occhi.
E’ triste, lo è sempre,
ma cerca di non darlo mai a vedere perché ha una famiglia da mantenere. Un
nipotino che stravede per lui, una figlia sempre fuori per lavoro e i suoi due
migliori amici che non lo lasciano mai da solo.
Harry e Louis sono
abbracciati accanto al camino, Harry ha preparato il caffè e ha sistemato dei
biscotti per il bambino sul tavolino del salotto.
Louis guarda Liam e sa
perché, conosce il motivo di quello sguardo velato, ma rimane in silenzio e
appoggia la testa sulla spalla del suo Harry. Sono insieme da una vita, dopo
tante intemperie ce l’hanno fatta a coronare il loro sogno e a sposarsi su una
spiaggia di Las Vegas, in un piccola cerimonia con pochi invitati.
Liam è stato il suo
testimone, e ricorda ancora, anche adesso che sono passati 30 anni, lo sguardo
di promesse che si sono scambiati, uno accanto all’altro sull’altare. Uno
sguardo che diceva ‘non ti lascerò mai’. Sono migliori amici da sempre.
“Luke, magari è meglio se
facciamo un bel gioco, che ne dici?” propone Harry al bambino, intuendo che per
Liam non è uno dei momenti migliori e che quella domanda ha fatto riaffiorare
in lui tanto, troppo dolore.
“No, Harry, va bene così”
sorride Liam, stanco. E’ stanco di fingere, di portarsi dentro tutti quei
ricordi e di avere paura a farli uscire. E’ stanco di sentirsi così vuoto e
ingrato per la sua famiglia che è sempre lì per lui, mentre lui pensa a una
persona che lì, con lui, non c’è. “Adesso ti racconterò una storia, Luke, che
viene da molto lontano ma così reale e vera che ti sembrerà di averla vissuta
anche tu”
Harry e Louis si
guardano, annuendo lievemente e andandosi a sedere sul divano di fronte a Liam.
Luke stringe ancora di più
il nonno, guardandolo con gli occhioni spalancati, e aspetta che cominci il suo
racconto.
Quando
avevo 18 anni e avevo appena finito la scuola, decisi di arruolarmi nell’esercito.
I
miei genitori lavoravano e io volevo dare una mano a mantenere la nostra
famiglia. Eravamo in tanti, a casa, 7 fratelli e due soli stipendi. La vita
nell’accademia militare sembrava allettante, un buon stipendio da mandare ai
miei una volta al mese e una nuova casa per me. Sarei stato lontano dalla mia
famiglia, ma l’avrei aiutata e avrei anche liberato un po’ di spazio dal mio
peso ingombrante. Un membro in meno in quella casa avrebbe dato un po’ di
respiro a tutti e un po’ di preoccupazioni in meno.
Mia
madre non voleva che lo facessi, era la fine degli anni 30 e tra la gente si
parlava dello scoppio di una nuova guerra. I disastri che la Grande Guerra
aveva lasciato erano già troppi, e una guerra imminente avrebbe di certo
provocato danni ancora più grandi.
Ma
io le diedi un bacio e decisi lo stesso di partire. Sentivo che era la cosa
giusta da fare. Avevo le spalle larghe e sapevo badare a me stesso.
Quando
partii, lasciai dietro di me i miei fratellini e mia madre in piedi sulla porta
che mi guardavano, gli occhi pieni di lacrime.
Mio
padre mi accompagnò in accademia e, prima di salutarci definitivamente, mi
diede una pacca sulla spalla e mi disse che era fiero di me, che ero il suo
uomo.
Entrai
in quell’edificio con un macigno sul cuore, con la sensazione di aver
abbandonato la mia famiglia e di essere un vigliacco, ma ricordai a me stesso
che era proprio per loro che lo facevo, e che nei fine settimana liberi sarei
riuscito a trovare un modo per andare a trovarli.
Cominciai
a camminare in quell’edificio enorme, pieno di ragazzi in divisa che
ridacchiavano e parlottavano tra loro e uno di loro si avvicinò a me,
chiedendomi se fossi quello nuovo.
Annuii
deciso e il ragazzo mi disse di seguirlo. Mi portò prima nell’ufficio del capo,
che mi spiegò gli orari e gli addestramenti che avrei dovuto seguire, e poi mi
mostrò la camera dove avrei dormito.
Più
che una camera, era una stanza lunga e stretta, sui cui lati c’erano file e
file di letti a castello. Verso metà stanza, il ragazzo si fermò e mi indicò un
letto a livello rialzato.
“Si
è liberato ieri, il soldato è passato di livello ed è stato trasferito. Buona
fortuna, saranno giorni duri, i primi” mi disse, e si allontanò.
Guardai
quel letto smesso con una divisa piegata poggiata sopra, che mi avrebbe
accompagnato per tanto, tantissimo tempo, ed emisi un sospiro.
“I
soldati non sospirano mai” disse una voce che proveniva dal letto sotto al mio.
“Come?”
mi piegai al livello del letto basso e cercai di capire a chi appartenesse
quella voce.
“Sei
qui per i tuoi motivi, tutti ne abbiamo uno, ma non si sospira mai. Sei un
soldato, ora, e devi essere un vero uomo. Quindi niente pianti e sospiri, esci
fuori le palle e combatti. Sarà una lotta dura” disse ancora quella voce, e
vidi una testa sbucare dall’ombra.
Quando
si alzò in piedi, vidi un ragazzo magro, poco più basso di me, che si
abbottonava la giacca della divisa.
Il
mio sguardo cadde sulle sue dita, lunghe e affusolate, e sulla parte di petto
che la scollatura lasciava intravedere.
“E
soprattutto, tieni per te la tua vita privata” mi disse con un tono duro mentre
si allontanava.
“Aspetta,
come ti chiami?” gli chiesi mentre già mi dava le spalle e si avviava verso la
porta d’uscita.
“Zayn.
Adesso muoviti a indossare la divisa e vieni a fare colazione” rispose,
sparendo dalla mia vista veloce e leggero, come una folata di vento.
Mi
sfilai la maglietta bianca, portandomela al viso e inspirando il profumo di
casa. Chiusi gli occhi per un attimo e mi si offuscarono. Ma cosa mi prendeva?
Un vero uomo non si sarebbe comportato così.
Infilai
la maglietta sotto al cuscino e mi cambiai, indossando la divisa velocemente e
correndo fuori da quella stanza, senza sapere bene dove andare.
Nel
corridoio tutti i ragazzi andavano verso una direzione e allora li seguii,
cercando tra la folla quel ragazzo che aveva detto di chiamarsi Zayn.
Quando
arrivammo nella sala mensa dell’accademia, tutti si affollarono a prendere il
poco cibo che ci era permesso. Dovevamo seguire una dieta ferrea ma per me non
era un gran problema, abituato da sempre a mangiare il minimo indispensabile e
a lasciare ciò che potevo per i miei fratelli.
Presi
un piatto con due fette biscottate e una tazza di latte e mi aggirai per quella
sala enorme, piena di ragazzi vestiti tutti uguali.
All’improvviso
sentii una mano sulla spalla e mi voltai, sussultando, ma notai con un po’ di
delusione che non era Zayn, ma un altro soldato con la barba incolta e due
occhi azzurri come il mare.
“Sei
quello nuovo, vero? Vieni con me” mi sorrise gentilmente e mi condusse verso
una panca appartata, dove ci sedemmo e mangiammo insieme la colazione.
“Stai
tranquillo, tra poco questo senso di smarrimento scomparirà e ti sentirai
finalmente al tuo posto” mi rassicurò mentre prendeva i piatti ormai vuoti e li
portava nel contenitore dei piatti sporchi.
“Grazie, lo so … io … non sono nemmeno sicuro di aver fatto la cosa giusta …
voglio solo …” cominciai a balbettare, in preda allo sconforto e a quel senso
di ansia alla bocca dello stomaco che non voleva lasciarmi.
“Vuoi
solo dare una mano alla tua famiglia, lo so, te lo leggo negli occhi. Tu segui
le istruzioni, impegnati duramente e andrà tutto bene” mi sorrise quel ragazzo,
mentre il suono di una campanella ci trapanò le orecchie e tutti si alzarono di
scatto e cominciarono a correre.
“Cosa
succede?” urlai per sovrastare quel fracasso.
“Addestramento. Segui la massa e corri, veloce!” mi urlò il ragazzo mentre lo
perdevo di vista.
“Ci
vediamo dopo?” gli chiesi, cominciando già a sentirmi perso e frastornato,
mentre la massa di ragazzi mi travolgeva.
“Se
non mi trovi, chiedi di Louis, mi conoscono tutti qui. Buona fortuna bello” mi
urlò lui mentre spariva, inghiottito dalla folla.
Lasciai
che la forza di inerzia mi trasportasse e mi ritrovai fuori, all’aria aperta,
in un cortile grande e pieno di ostacoli di vario tipo.
Strattonato
da una parte all’altra vidi il comandante che fischiava e tutti i soldati che
si mettevano in ordine in fila. Li imitai e tutti prendemmo posto, dritti l’uno
accanto all’altro.
Ascoltai
attentamente tutte le istruzioni che il comandante ci stava dando e cominciammo
il nostro addestramento.
A
fine giornata, stanchi e infangati, potemmo tornare nelle nostre camere e io mi
aggirai per il cortile alla ricerca di Louis.
Quando
lo vidi, stava parlando proprio con Zayn.
“Ehi,
pivellino, allora, com’è andata?” mi sorrise Louis, seduto per terra, mentre si
toglieva qualche filo d’erba incastrato tra i capelli.
“Lo
conosci?” chiese Zayn, mentre io mi avvicinavo a loro e lo osservavo più da
vicino.
Quella
mattina era scappato via così in fretta che non avevo avuto il tempo di capire
bene che aspetto avesse.
La
prima cosa che mi colpì di lui fu la sua espressione, il suo sguardo
perennemente di sfida e la linea dura della mascella. Aveva due occhi marroni e
penetranti, e il viso perfetto da duro.
“Io
sono Louis, io conosco tutti” affermò Louis deciso mentre si alzava in piedi. “Perché,
lo conosci anche tu?”
“Sta
nel letto sotto il mio. Stamattina piagnucolava come una femminuccia” rispose
Zayn mentre si voltava a guardarmi dall’alto verso il basso, con tono
sprezzante e con astio nello sguardo.
“Direi
che è andata bene, Louis, ero agitato ma ho seguito tutto quello che ci hanno
detto di fare e ho ottenuto anche un buon punteggio. Mi … mi chiamo Liam,
comunque” sussurrai io, lo sguardo basso. Mi comportavo come un bambino, ma
quel Zayn mi metteva in soggezione e mi sentivo solo, fuori posto. Volevo
tornare a casa mia.
“E’
una buona notizia, Liam” disse Louis accentuando il tono di voce sul mio nome,
divertito. “Ci divertiremo insieme, vedrai! Vatti a lavare e ci vediamo in sala
mensa alle 21” e sparì.
Io
e Zayn rimanemmo uno di fronte all’altro e io non feci in tempo a pronunciare
una sola parola che il ragazzo si incamminò svelto, le mani strette intorno al
petto per ripararsi dal freddo e lo sguardo dritto davanti a sé.
Accelerai
il passo per camminargli di fianco e gli sorrisi, ma lui continuava a ignorarmi
e a procedere spedito.
“Non
mi piacciono le femminucce, Liam. Quindi o cambi atteggiamento o non pensare di
rivolgermi la parola” mi disse sprezzante, mentre io rimasi ammutolito.
“Vorrei
solo esserti amico, Zayn, qui siamo tutti soli …” gli dissi titubante.
“Io non ho amici.”
Entrammo
nel dormitorio e prendemmo le divise di riserva per andarci a cambiare, ma Zayn
era sparito.
Chiesi
ad un ragazzo dove fosse il bagno e mi indicò la strada.
Il
bagno era un’enorme stanza piena di docce aperte, senza porte, lavandini e
gabinetti in fila. Tutti vedevano tutto, lì, non c’era spazio per la
riservatezza o per la vergogna. Eravamo tutti uguali.
Andai
nella prima doccia libera che riuscii a trovare e lasciai che il getto caldo
dell’acqua mi investisse, pulendomi dal fango e dai miei pensieri.
Mentre
mi sciacquavo, sentii una melodia provenire da una doccia alla mia destra e sbirciai
con la coda dell’occhio. Vidi Zayn, i capelli corti secondo le regole bagnati e
incollati al collo, che si lavava e canticchiava, gli occhi chiusi. Non potei
fare a meno di fissarlo, era così bello e misterioso, avvolto dal vapore caldo
dell’acqua e perso nei suoi pensieri. Lo sguardo mi cadde sul suo fisico
scolpito, sul suo sedere sodo e alto e sui suoi addominali. Scesi a guardare la
peluria pubica e distolsi lo sguardo, arrossendo per la vergogna. Ma che mi
stava prendendo?
Mi
asciugai e rivestii in fretta e uscii dal bagno, dirigendomi verso la sala
mensa e cercando Louis.
Lo
trovai appoggiato a una colonna, una gamba sollevata e lo sguardo allegro.
Sorrideva sempre, anche se sapevo che, come tutti noi, avrebbe preferito
trovarsi ovunque tranne che lì dove era.
“Allora,
ti ho preso la carne e un bicchiere d’acqua. Se occupi una panca ci possiamo
sedere e mangiare” mi disse porgendomi un piatto, e ci sedemmo vicini.
“Dov’è
Zayn?” mi chiese, e io arrossii violentemente, mentre me lo immaginavo nudo
nella doccia.
“Era
in bagno e poi l’ho perso di vista” gli risposi schiarendomi la voce, mentre
cercavo di concentrarmi solo sulla carne e non su quel corpo abbronzato e
perfetto.
“Arriverà
sicuramente in ritardo. Odia la cena. Non so se hai notato quanto è magro, non
mangia quasi più” sospirò Louis.
“Ehi, i soldati non sospirano mai” gli sorrisi io scherzando.
“Tipica
frase da Zayn. Si crede forte, sai, un duro, ma in realtà gli manca la sua
famiglia. I suoi vivono lontani da qui e lui aveva una casa con sua sorella. E’
preoccupato per lei, era malata quando lui è partito” mi spiegò Louis, e io
provai un’immediata fitta di dolore a pensare alla mia famiglia. Ricacciai
indietro le lacrime e mi feci forza da solo.
“E
tu, come stai? La tua famiglia?” chiesi a Louis mentre portavo alla bocca un
boccone di carne.
“I
miei sono morti quando ero piccolo, nella Grande Guerra. Sono cresciuto in un
orfanotrofio finchè non sono diventato maggiorenne e mi hanno trasferito qui.
Questa è la mia casa” mi sorrise lui, e io mi sentii immediatamente in colpa
perché quel ragazzo aveva perso tutto, mentre io avevo una famiglia, intera e
sana, e continuavo a lamentarmi.
“E
poi, la mia piccola famiglia ce l’ho. Si chiama Harry” mi sorrise Louis, gli
occhi azzurri che si illuminarono all’istante. Si portò una mano al petto e
sfilò una foto sgualcita dal taschino della giacca. Una foto in bianco e nero
che ritraeva un giovane ragazzo, con i capelli ricci e spettinati e un sorriso
dolce e grande.
“E’
tutto quello che ho, è il mio cuore.” mi disse sorridendo, mentre gli occhi si
riempivano di lacrime e rimaneva lì a guardare quella foto. “Non è stato
possibile arruolarsi, per lui, perché ha problemi alla vista. Lavora nella
panetteria vicina all'orfanotrofio. Quando sono partito, ha detto che mi aspetterà lì.
Ha detto che sono il suo eroe”
Una
lacrima scivolò sulla guancia di quel ragazzo sempre sorridente e io non potei
fare a meno di abbracciarlo forte.
“Ehi,
ehi, ricordati dove siamo. Siamo soldati, e i soldati non sospirano mai” disse
Louis ridendo, imitando la voce di Zayn e asciugandosi in fretta le lacrime.
In
quel momento arrivò Zayn e mi resi conto che tutti, lì intorno, avevamo dei
problemi. Tutti avevamo una famiglia che ci aspettava a casa e tutti avevamo
qualcuno da cui tornare. Quindi dovevo smetterla di frignare e cominciare a
comportarmi da uomo.
“Zayn,
prometto che non sospirerò più. Siediti con noi, ti abbiamo tenuto da parte un
po’ di carne” gli dissi cercando di sembrare disinvolto e sicuro, e lui accennò
un sorriso mentre si sedeva accanto a noi.
I
giorni passarono veloci, tra addestramenti ed escursioni. Era dura, mangiavamo
poco e avevamo poco tempo per riposare. Riuscii a vedere la mia famiglia solo
una domenica d’estate, perché la giornata era talmente bella che papà aveva
portato tutta la famiglia in una ‘gita’ ed erano venuti a trovarmi.
Ci
avevano messo tre ore di viaggio. 6 figli, una roulotte presa in prestito dai
vicini e tanta pazienza. Ma ce l’avevano fatta e al loro arrivo i bambini si
erano lanciati di corsa lungo il cortile per venire a saltarmi in braccio. Ero
il loro fratellone più grande.
Quell’incontro
mi era stato molto d’aiuto per affrontare le settimane successive, e mi aveva
rincuorato vedere che stavano tutti bene. Presentai ai miei Louis, che non era
mai stato così sorridente come quella domenica, perché anche Harry era riuscito
a venire in accademia.
Camminavano
abbracciati mentre Louis gli mostrava tutte le entrate dell’edificio, gli
ostacoli dell’addestramento, la sala mensa e il dormitorio.
“Eravamo davvero così
sdolcinati?” chiede Harry con un sorriso, mentre Louis gli sposta un ricciolo
grigio-nero dagli occhi.
“Si che lo eravamo,
tesoro” gli risponde Lou contento, lo sguardo un po’ perso tra i ricordi.
“Smettetela!” scherza
Liam, sistemando un ciuffo sulla fronte di Luke e sorridendogli.
“E Zayn, nonno? La
sorella andò a trovarlo?”
E Liam riprese a
raccontare.
Zayn
rimase tutta la mattina in cortile, seduto da solo sulla panchina senza voler
parlare con nessuno.
Mi
dispiaceva vederlo così, avevo imparato un po’ a conoscerlo e mi sentivo in
dovere di aiutarlo. Eravamo tutti fratelli.
Mi
avvicinai a lui mentre la mia famiglia chiacchierava con Harry e Louis.
“Non
è venuta nemmeno oggi” mi disse Zayn, lo sguardo basso verso i suoi piedi e le
spalle abbassate in segno di sconforto. Avrei voluto abbracciarlo, come facevo
sempre con Louis quando qualcosa non andava, ma Zayn non era quel tipo di
persona.
Mi
andai a sedere affianco a lui senza dire nulla e posai una mano sulla sua
gamba, come per dirgli ‘io ci sono’. Rimanemmo così per un po’, il vento ci
scompigliava i capelli e in lontananza sentivamo le risate delle famiglie
felici riunite.
“Magari
è solo troppo stanca per viaggiare, Zayn, non puoi saperlo” sussurrai dopo un
po’.
“Potrebbe
almeno rispondere alle mie lettere, o è troppo stanca anche per questo?” mi
rispose lui amareggiato, mentre appoggiava una mano sulla mia e mi guardava.
“Andrà
tutto bene” gli dissi io, stringendo quelle dita lunghe tra le mie e accarezzando
il dorso della sua mano con il pollice.
“Non
lo so, Liam, non ci credo più …” sospirò lui, e io, d’istinto, esclamai “I
soldati non sospirano mai”
Mi
morsi subito il labbro per aver fatto una battuta in un momento come quello ma,
in un modo del tutto insolito per lui, Zayn mi guardò come non aveva mai fatto
prima e mi sorrise, per la prima volta da quando eravamo lì mi sorrise e portò
le nostre mani intrecciate al suo viso, chiudendo gli occhi.
Rimasi
pietrificato per non rovinare quel momento, considerando che rovinare i momenti
era la cosa che sapevo fare meglio, e restai fermo a godermi la sensazione
della mia mano nella sua e del contatto con la pelle del suo viso.
“Grazie”
disse raucamente dopo qualche minuto, alzandosi di scatto e lasciando la mia
mano, mentre si allontanava da me.
Rimasi
lì, su quella panca, immobile e trasognato per qualche altro minuto prima di
riprendermi e tornare alla realtà.
Dopo
quella domenica, le cose tra me, Zayn e Louis un po’ migliorarono. Facevamo
colazione insieme e ci ritrovavamo dopo gli addestramenti.
Nelle
docce io continuavo a sentire Zayn cantare, e avrei tanto voluto andargli
vicino e dirgli che era bravissimo, che aveva una voce così bella e che volevo
solo stringerlo a me, ma mi trattenevo. Non volevo che smettesse di cantare per
colpa mia e ascoltarlo mi bastava. La sua melodia rasserenava il mio cuore.
Spesso lo sbirciavo, tra il vapore della doccia e gli asciugamani che volavano
da una parte all’altra, e speravo che nessuno mi vedesse. Mi appoggiavo alla
doccia accanto alla sua e rimanevo fermo lì per un po’, imprimendomi nella
mente ogni aspetto del suo corpo, che non avevo mai sfiorato e che tuttavia
avevo imparato a conoscere così bene.
Un
sabato pomeriggio di 6 mesi dopo, il comandante del nostro gruppo ci concesse
un paio di ore libere fuori in città, e io e Louis corremmo a cambiarci e a
preparare tutto.
Mentre
sistemavo le magliette sotto al cuscino, sentii Zayn nel letto sotto il mio
muoversi.
“Ehi,
Zayn, oggi abbiamo le ore all’aria aperta. Sbrigati che usciamo” lo incitai
mentre mi piegavo verso di lui. Ma Zayn non mi rispondeva.
Mi
sedetti sul letto e aspettai. Ormai avevo capito che per farlo parlare non
dovevo dirgli niente, ma dovevo solo dimostrargli che ero lì con lui e lui
piano piano si sarebbe aperto da solo.
Sentii
la sua mano sulla mia e la sua voce sommessa dire “Mi manca”.
Allungai
le gambe in modo da stendermi accanto a lui e lo abbracciai da dietro, senza
toccarlo troppo ma facendogli sentire che ero lì, con lui. Che non lo lasciavo
solo.
“Mi
sembra di impazzire. Non so nemmeno se sia ancora viva, lei è tutto quello che
ho e non la sento da mesi. Impazzirò davvero” scoppiò a piangere Zayn,
aprendosi per la prima volta con me e tirando finalmente tutto fuori. Dolore,
frustrazione, ansia, angoscia, scorrevano lungo le sue guance sotto forma di
lacrime salate che gli inondavano il viso. “Darei qualsiasi cosa per sapere
come sta. Perché non risponde alle mie lettere?”
Cosa
potevo fare io? Mi sentivo così impotente, così appoggiai il mento nell’incavo
della sua spalla, il mio naso contro il suo collo e l’attaccatura dei capelli e
inspirai il suo profumo di pulito.
“Troveremo
un modo” gli sussurrai, mentre lui si accostava di più a me facendo combaciare
i nostri corpi alla perfezione.
Sentii
la porta del dormitorio schiudersi e dei passi venire verso di noi per poi
riallontanarsi. Era sicuramente Louis, che aveva capito tutto e ci aveva
lasciati al nostro piccolo momento.
Avrei
potuto avere due ore di aria in città, e io decisi di passarle nel posto in cui
più mi sentivo libero, con lui.
Ci
addormentammo abbracciati e Louis ci venne a svegliare due ore dopo, quando la
libertà era finita ed era arrivata l’ora di andare a cena.
Mi
alzai per primo, stropicciandomi gli occhi e incrociando lo sguardo divertito
di Louis, che ci disse di sbrigarci e si avviò in mensa.
“Andiamo
a cena” porsi la mano a Zayn per aiutarlo ad alzarsi e ci avviammo verso la
mensa.
Il
giorno dopo era la domenica delle visite, ma io sapevo che i miei non sarebbero
potuti venire e così aspettai con Louis che arrivasse Harry.
“Dobbiamo
fare qualcosa per Zayn” sbottai, quando eravamo tutti e tre insieme.
“Felice
di vederti anch’io!” sorrise amorevole Harry, abbracciandomi. Abbracciava tutti,
quel ragazzo.
“Hai
ragione, Liam, ma cosa?” mi rispose Louis mentre si aggrappava al suo
fidanzato, stringendolo a sé e scompigliandoli i capelli ricci.
“Parlerò
con il generale e gli chiederò di informarsi. Zayn non può aspettare nella
speranza di rivedere sua sorella che probabilmente è morta. Gli scrive delle
lettere, ne spedisce almeno una al giorno, e lei non risponde mai. Perché?”
spiegai io mentre già mi avviavo verso l’ufficio del capo a passo spedito.
Quando
ne uscii, avrei preferito non esserci mai entrato.
La
sua faccia non mi aveva comunicato nulla di buono e aveva fatto chiamare
immediatamente Zayn, facendomi uscire dalla stanza perché quelle erano
informazioni riservate. Il capo disse a Zayn che era stato messo al corrente
solo poche ore prima che le condizioni di sua sorella erano gravi, talmente
gravi che non aveva più la forza di spostarsi dal letto ed era stata ricoverata
in un ospedale. I suoi genitori la stavano per raggiungere. Zayn avrebbe avuto
diritto a pochi giorni di libertà per andare a trovarla e darle l’ultimo
saluto.
Quando
Zayn me lo disse, tremava e aveva gli occhi sbarrati. Balbettava furioso che
non poteva essere, che sua sorella si sarebbe ripresa e che l’avrebbe portata
via da quell’ospedale. Mi chiese di andare con lui. Non ce l’avrebbe mai fatta
da solo e io ero l’unico che poteva sostenerlo, perché Louis usava i suoi
permessi per andare da Harry, mentre io non potevo mai vedere la mia famiglia
perché era troppo lontana. Ovviamente gli dissi di si ma non sapevo a cosa
avrebbe portato quel viaggio. Forse vederla morire lo avrebbe solo fatto stare
peggio, ma quello di cui ero certo era che io non potevo lasciarlo da solo.
Partimmo
due giorni dopo, zaino in spalla e cuori in subbuglio. L’ospedale dove era
stata ricoverata sua sorella era a poche ore dalla nostra caserma e ci
portarono lì in un furgone. Durante il tragitto Zayn era così agitato che non
smetteva di tremare, e io posai una mano sulla sua gamba per fermarlo. Lui posò
la sua sulla mia e mormorò un ‘grazie’ mentre cominciava a sudare. Quando
arrivammo all’ospedale dovette passare mezzora prima che riuscissimo a trovare
il reparto dove si trovava la sorella di Zayn. Era così in ansia che girava per
i corridoi dell’ospedale correndo, guardando in tutte le stanze e perdendosi
ogni dieci minuti. Alla fine fui io a parlare con un’infermiera che mi indicò
il reparto di terapia intensiva e riuscii a trascinare Zayn con me. Quando
arrivammo di fronte alla sua stanza, Zayn si precipitò dentro, inciampando nei
suoi stessi piedi, e non appena i due fratelli si guardarono negli occhi,
scoppiarono in lacrime. Zayn si lanciò sul letto della sorella abbracciandola e
baciandola e io mi appoggiai alla porta, cercando di lasciar loro più privacy
possibile. Avevano gli stessi occhi, le stesse mani, lo stesso modo di dirsi ‘mi
dispiace’ e lo stesso sorriso, poco accennato ma sincero. Lei lo accarezzava
facendo passare le sue dita tra i capelli di suo fratello come una mamma,
guardandolo orgogliosa.
“Almeno
hai ricevuto tutte le mie lettere? Te ne avrò spedite centinaia” le chiese Zayn
dopo aver momentaneamente smesso di piangere.
“Certo
cucciolo mio, le ho lette tutte e le ho conservate tutte lì, nel comodino”
rispose la ragazza, affaticata e con la voce debole “Ho provato a risponderti
così tante volte … così tante … non ho più forza, amore”
“Non
dire così, risolveremo tutto” Zayn si sollevò un po’, portandosi un fazzoletto
agli occhi e continuando a stringere una mano alla sorella. “Ti presento un mio
compagno di accademia, Liam. Liam, lei è mia sorella Doniya”
Mi
avvicinai al letto della ragazza e feci un piccolo inchino in segno di saluto.
Lei mi sorrise e mi invitò a sedermi accanto a loro.
Parlammo
per qualche ora, Doniya mi raccontò alcuni episodi di cose che aveva combinato
suo fratello quando erano piccoli e Zayn scoppiava a ridere e a piangere nello
stesso momento ogni dieci secondi. Cercai di rasserenarlo posando una mano
sulla sua gamba, come facevo sempre, ma lui la respinse bruscamente e si alzò
in piedi. La ragazza notò quei movimenti ma non disse nulla. Più passava il
tempo più lei era stanca, aveva bisogno di riposare ma cercava di rimanere
lucida per passare il poco tempo che aveva con Zayn.
“Doni,
forse è meglio se chiudi un po’ gli occhi per ora, che dici? Dài, non ti
affaticare” le disse il ragazzo piegandosi su di lei e sfiorandole la fronte
con le labbra. Lei lo guardò e gli disse con un lieve sorriso “Ma tu ricordati
di mettere gli occhiali”
“Sh,
Doni, cosa dici …“ Zayn impallidì e si girò a guardarmi. Io non dissi nulla e
aspettai che i due fratelli si salutassero prima che la ragazza si
addormentasse, e poi uscimmo dalla stanza. Mentre varcavo la soglia della porta
la ragazza mi chiamò, con un debole sussurro.
Io
mi avvicinai a lei e lei mi disse nell’orecchio “Se voi due vi volete bene, per
me non c’è alcun tipo di problema. Però, prenditi cura di lui, è l’unica cosa
che ti chiedo. E ricordagli di mettersi gli occhiali la sera, perché rischia di
provocare danni, miope com’è”
“Mi
prenderò cura di lui, te lo prometto” le sorrisi mentre le palpebre le si
abbassavano e il respiro diventava regolare.
Rimanemmo
fuori dalla sua stanza per tutto il pomeriggio, lei dormiva e Zayn non voleva
disturbarla, né voleva allontanarsi da lei, e ogni tanto faceva capolino nella
sua stanza per guardarla dormire.
“Cos’è
questa storia degli occhiali, Zayn?” gli chiesi perplesso.
“Sono
miope, Liam, ma ho dovuto fingere di non esserlo alla visita medica per potermi
arruolare. Questo lavoro mi serviva e mi serve tutt’ora, per mantenere in vita
la mia Doni. Poveri com’eravamo, non potevamo permetterci nemmeno una notte qui
all’ospedale. Non ti azzardare a parlare di questa storia con nessuno o io ti
ammazzo, Liam. Sono serio” mi rispose bruscamente Zayn, lo sguardo duro e
deciso.
“Perché
mai dovrei parlarne con qualcuno? Puoi smetterla di trattarmi così ora? Cosa ti
ho fatto di male perché tu mi debba respingere così bruscamente? Sono venuto
qui per te, per starti vicino. Dovresti solo esserne grato e lasciarti aiutare”
gli dissi liberandomi di un peso enorme che mi chiudeva lo stomaco.
Prima
mi aveva respinto in stanza davanti alla sorella, ora mi parlava come un
genitore arrabbiato parla a un bambino che ha combinato qualcosa. Non meritavo
il suo comportamento e volevo solo che capisse che eravamo insieme. Che
nonostante tutto, ce l’avremmo fatta.
“Scusami,
Liam, ma ti avevo detto di lasciare la vita privata fuori dall’accademia. E ti
avevo avvertito anche che io non ho amici.” mi rispose lui, freddo e
distaccato, lo sguardo dritto di fronte a sé.
Non
feci in tempo a rispondere che sentimmo un gran frastuono provenire dalla
stanza di Doniya e alcune infermiere che correvano da una parte all’altra.
Provammo
ad aprire la porta ma le infermiere si erano chiuse dentro senza permetterci di
entrare.
Passò
un quarto d’ora, il quarto d’ora più lungo che io e Zayn avessimo mai vissuto e
la porta si aprì. Due infermiere uscirono e presero Zayn in disparte, mentre io
cercai di guardare dentro la stanza, ma nel cuore sapevo cosa era successo.
Un
urlo straziante, mi voltai e Zayn era lì, solo, il volto rosso dallo sforzo per
il gridare e le lacrime copiose che gli inondavano il volto. Sbatteva i pugni
sulla porta urlando di lasciarlo entrare e le due infermiere si tirarono
indietro, spaventate, ma la porta era ancora chiusa.
Corsi
verso di lui e fermai le sue braccia, prendendo i suoi pugni tra le mie mani e
spostandolo lontano da lì. Zayn era furioso, addolorato, piangeva e gridava e
lasciai che con i suoi pugni colpisse il mio petto, prima violentemente, poi
pian piano sempre più debolmente, finchè, esausto, appoggiò la testa sulla mia
spalla e si lasciò avvolgere dalle mie braccia. Sentivo i suoi singhiozzi
contro il mio petto, il suo corpo scosso. Era come se tutto il suo dolore si
stesse riversando su di me, e io avrei voluto prenderne un po’, di tutto quel
dolore, sollevarlo, renderlo meno pesante. Io ero più forte, avevo meno
problemi di lui. Io potevo aiutarlo.
“Zayn,
calmati, andrà tutto bene” gli sussurrai mentre lo accarezzavo dietro il collo,
cercando di farlo calmare un po’. “Lei lo sapeva, era serena. Era solo
preoccupata per te”
Zayn
continuò a piangere contro di me, appoggiato a me, stretto dal mio abbraccio
forte, e rimanemmo così fino alla sera, fino a quando, arrivati i suoi
genitori, poterono entrare nella stanza della sorella e darle un ultimo saluto.
Il
permesso che avevamo avuto dall’accademia era di 4 giorni quindi avevamo ancora
3 giorni liberi, e andammo a dormire con i suoi genitori in una locanda lì
vicino. Il funerale fu triste, breve e rispettoso. Poche persone e un dolore
immenso. Per tutta la durata della cerimonia Zayn mi strinse la mano, incurante
degli sguardi che ci lanciavano e dei mormorii.
Non
gli importava più nulla, di niente, ormai. Voleva essere sotto terra con sua
sorella, lo sapevo, e continuavo a dargli conforto con la mia mano tra la sua.
Ce
l’avremmo fatta. Ce l’avremmo fatta perché eravamo insieme.
Quando
tornammo in accademia, le cose tornarono come prima che ce ne fossimo andati.
Gli addestramenti seguivano le colazioni, le cene magre e le docce, e tutto si
susseguiva uguale a prima. Zayn, però, era diverso. I suoi occhi erano spenti e
si trascinava da una stanza all’altra con lo sguardo perso nel vuoto. Io e
Louis facevamo di tutto per stargli vicino e lui ce n’era grato, so che lo era,
anche se non ce lo disse mai. Era passato un anno, ormai, dal nostro arrivo lì,
e la vita sembrava essere trascorsa in un secondo. Tutta quella vita, quei
dolori e quelle mancanze, racchiusi lì, tra quelle mura di quell’edificio, e
noi tre, soli e forti, che cercavamo di affrontare la vita.
Le
escursioni si intensificarono, verso l’estate del 39, e i generali ci
addestravano con tecniche sempre più rigide e violente. Durante una di quelle
escursioni, i nostri comandanti ci concessero una pausa per mangiare e io e
Zayn ci andammo a sedere sotto un albero. Louis si trovava in un altro gruppo
quindi non lo vedemmo finchè non tornammo in accademia, la sera.
“Dicono
che presto scoppierà un’altra guerra, forte come quella che c’è stata 20 anni
fa o forse ancora più grande. Per questo stanno intensificando gli
addestramenti …” mormorò Zayn, giocando con una foglia che era caduta dall’albero.
“Ci
penseremo quando sarà iniziata, allora” risposi io distrattamente “Ma tu, puoi
spiegarmi come fai ad essere miope e a riuscire a correre da una parte all’altra
senza cadere ed evitando tutti gli ostacoli?”
“Shhh” Zayn mi lanciò una foglia addosso “Riesco perché non ho una miopia molto
elevata e perché sto attento quando i generali ci spiegano le mosse da fare”
“Ma
è rischioso comunque … insomma, se un domani ci fosse davvero questa guerra e
tu non riuscissi a vedere un nemico correrti incontro? O se cadessi in una
trappola?” incalzai io, lievemente agitato, e sentimmo un rumore di foglie che
scricchiolavano dietro di noi.
Ci
voltammo contemporaneamente e vedemmo un nostro compagno di spalle correre via.
“Merda,
Liam, avrà sentito tutto!” mi urlò Zayn arrabbiato, mentre si alzava in piedi.
“E
anche se fosse, Zayn? Non penso proprio che farà la spia, dai … non lo abbiamo
fatto apposta” gli risposi alzandomi anch’io. In una piccola parte del mio
cuore, in realtà speravo che quel soldato facesse la spia perché avrei voluto
salvare almeno Zayn dalla guerra, ora che nemmeno il lavoro gli serviva più di
tanto riguardo la questione dei soldi. Però rimasi in silenzio e mi addentrai
nel bosco dove ci trovavamo. I nostri compagni erano sparsi qua e là, stanchi
dalle mille corse ad ostacoli che facevamo.
Zayn
mi seguì accelerando il passo e mettendosi a camminare al mio fianco, entrambi
in silenzio.
“Voglio
insegnarti una cosa, così magari potrà esserti utile se andremo in guerra e io
non sarò vicino a te. Me l’aveva insegnata Doniya quando eravamo piccoli e
dovevamo aiutare papà a riparare le navi del suo negozio.” mi disse mentre
sfilava un pezzo di corda dalla tasca.
Ci
sedemmo nuovamente e cominciò a intrecciare la corda, muovendo velocemente le
sue dita sottili e creando una serie di nodi che mi spiegò servivano per
raddrizzare le vele delle navi in caso di burrasche o venti troppo forti e per
rafforzare i supporti della ancore.
Gli
chiesi se potessi provare anch’io e mi diede la corda, mentre posava le sue
dita sulle mie per guidarmi nei movimenti. Socchiusi leggermente gli occhi,
godendomi quel contatto con la sua pelle. Non riuscivo a farne a meno, vivevo
per quelle piccole cose, per quei gesti impercettibili, per quelle carezze
veloci e quegli attimi rubati. Accanto a lui mi sentivo così bene e allo stesso
tempo così triste. La voglia di stargli ancora più vicino, di poterlo stringere
e inspirare il suo profumo, di sentire il suo corpo contro il mio mi uccideva,
mi torturava giorno e notte. Ma lui sembrava non accorgersene e io non avevo il
coraggio di spingermi oltre, di fargli capire quello che provavo e di parlargli
liberamente. Mi bastavano quelle carezze fugaci e i sogni …
Era
una notte di agosto quando accadde. Entrarono nel dormitorio correndo,
sollevandoci le coperte di dosso e accendendo le luci.
“Ma
cosa diavolo sta succedendo?” sentii pronunciare da un soldato che dormiva di
fronte a me, e una schiera di generali e sovrintendenti che ci spingevano giù
dai letti e ci comunicavano che la guerra stava per scoppiare. Dovevamo tenerci
pronti e ci avrebbero diviso per gruppi, ogni truppa sarebbe stata inviata in
postazioni diverse come nelle esercitazioni e avevamo quell’ultima notte per
preparare tutto e dirci addio.
Stava
succedendo. Quel giorno era arrivato. La prima cosa a cui pensai furono gli
occhi di mia madre. La donna della mia vita. Lei che mi aveva sempre sostenuto,
che aveva sopportato tutte le mie lamentele nella quotidianità della vita, che
aveva sempre fatto affidamento su di me perché ero l’ometto di casa, che non
ero un figlio ma ero un suo alleato. Lei che senza di me sarebbe morta. Non la
vedevo da quella domenica in cui erano riusciti a venire a trovarmi e ora stavo
per partire senza dirle nemmeno addio. Decisi che ce l’avrei fatta solo per
lei, solo per poter tornare a casa e abbracciarla. E poi guardai Zayn, nel
letto sotto il mio. Lui che con quegli occhioni scuri e i suoi modi bruschi mi
era entrato così tanto nel cuore, e non ero nemmeno riuscito mai a dirgli ciò
che provavo per lui. Forse era il caso di farlo? Avrei potuto non vederlo più,
e morire con il rimpianto di non averglielo mai detto. E Louis, che in quell’anno
mi era stato accanto come un fratello, che aveva il suo Harry e non poteva
lasciarlo solo, che era diventato la mia famiglia e che contava più di tutto.
Come avrei fatto senza di loro? Pensavo a tutto questo mentre mi sfilavo il
pigiama e due dei generali si avvicinavano a Zayn e lo portavano via, tirandolo
per un braccio. Strabuzzai gli occhi, incredulo, e lui si voltò verso di me.
Uno sguardo carico di tensione e lo vidi allontanarsi. “Ti aspetto qui!“ gli
urlai dietro, mentre la porta si richiudeva dietro di lui.
La
notte passò velocemente, io e Louis preparammo gli zaini e aspettammo insieme,
seduti e in silenzio. Nessuna parola era di conforto in quel momento e ci
limitavamo a guardarci di tanto in tanto, pieni di ansia e terrore. Ciò che
stavamo per affrontare era troppo, troppo grande per noi, e non ci sentivamo
assolutamente, per niente pronti.
Zayn
tornò dopo molte ore. Indossava dei pantaloni e una camicia, non la solita
divisa, e trascinava una valigia. Si avvicinò a noi in silenzio e si piegò
sulle ginocchia. Mi guardò negli occhi e sussurrò “Lo sanno. Sanno tutto e non
mi permettono di partecipare alla guerra. Mi rimandano a casa. Non sono più un
soldato”
“Sanno
cosa?” chiese Louis, mentre Zayn posava la valigia a terra e abbassava lo
sguardo.
“Oh
merda, Zayn” dissi io mentre mi facevo coraggio e lo abbracciavo. Fu un
abbraccio duro, ruvido e senza passione. Un abbraccio tra fratelli, ma mi bastò
per fargli capire che ero lì con lui, per lui.
“Lascia
perdere, Louis, sono miope e lo hanno scoperto. Mi hanno cacciato e posso
tornare a casa. Dicono che è un bene, così non dovrò morire in guerra, ma dove
torno, se non ho più una casa? Dove vado, ora che Doniya non c’è più? Non
fatemi scherzi, ragazzi, che io vi aspetto qui, e farete meglio a farvi trovare
vivi, siamo intesi?” disse Zayn mentre abbracciava anche Louis, la voce roca e
gli occhi spenti.
“Aspettaci
qui” gli dissi io.
Un
bacio, ricordo che gli diedi un bacio sulle labbra così veloce e leggero che
gli altri intorno nemmeno se ne accorsero. Ma il mio cuore sì, il mio cuore lo
sentì e fece un salto. Tutto il mio corpo lo sentì e le mie labbra, a contatto
con le sue, mi bruciavano di una gioia nuova.
Ci
allontanammo da lui che rimase lì, seduto con accanto la valigia che ci
guardava.
“Vi
aspetto qui.”
Gli
anni della guerra furono tremendi. Persino parlarne mi fa male, ora. Sono
impressi tutti qui, nella memoria, come cicatrici indelebili. Furono anni dove
il sangue era una visione giornaliera. Anni dove tutte le futili preoccupazioni
della vita precedente sembravano così stupide e inutili. Anni dove si era una
squadra, ma ognuno pensava per sé. Anni di dolore, di perdite e di mancanze,
dove non ti rendevi nemmeno più conto di essere un uomo ma solo un animale
disperato che pensava ogni giorno alla sopravvivenza. Anni così vuoti e
disperati, così disumani e pieni d’angoscia che la vita vera sembrava un
miraggio troppo, troppo lontano. Rimasi in guerra per 3 anni. Riuscii a
mettermi in contatto con Louis, qualche volta, tramite capi che si spostavano
dalla mia alla sua fazione, e più di una volta mi tornò utile annodare la corda
come mi aveva insegnato Zayn, quando delle barche alleate arrivavano ai nostri
porti e dovevamo soccorrerle. Le notti che passavamo nascosti nelle fosse
comuni erano interminabili, e io mi ritrovavo a stringere tra le mani quel
pezzetto di corda che Zayn mi aveva dato e che avevamo tenuto in mano insieme.
Mi dava un po’ di forza, mentre ero lì, rannicchiato per ripararmi dal freddo,
accanto a compagni doloranti che dormivano e con i morti vicino a noi. I loro
corpi gonfi per il freddo emanavano il tipico odore dei cadaveri in rovina e
noi non li guardavamo, perché dovevamo pensare a chi era ancora vivo e a
salvarci. Ogni giorno era una nuova sfida e un nuovo interrogativo. Ogni
giorno, ci salutavamo senza sapere se ci saremmo rivisti la sera.
Dopo
quasi tre anni di guerra, che sembrava impossibile e senza fine, durante una
corsa sfrenata in una sparatoria, inciampai in una pietra e caddi. Caddi così
violentemente e in maniera così disumana che nemmeno mi resi conto di quello
che stava succedendo, pensavo solo a ripararmi dai proiettili nemici e a tenere
ben saldo il fucile tra le mani. Ruzzolai per un bel po’ di terreno, finchè
strisciando non riuscii a nascondermi dietro un masso di pietra e a ripararmi
dai nemici.
La
gamba sinistra mi faceva un male lancinante e non riuscivo né a stenderla né a
piegarla. Un mio compagno mi vide e si avvicinò furtivamente a me, intimandomi
di rimanere fermo lì e di aspettare che calasse il coprifuoco. Ma la gamba mi
faceva così male che dovevo fare qualcosa, e provai a sollevarmi in piedi. La
fitta di dolore fu così forte da togliermi il fiato e mi rimisi seduto, mentre
intorno a me i miei compagni correvano e cadevano e lottavano per la propria
vita. In quei momenti, non pensi più a cosa sia giusto o sbagliato, a difendere
l’onore della tua patria e i tuoi ideali. In quei momenti, la speranza di
rimanere in vita è un’ancora così potente che pensi solo a salvarti e a tornare
dalla tua famiglia.
Quando
calò il buio sentii due braccia che mi trascinavano e altre due strette intorno
ai miei piedi, e quando aprii gli occhi mi ritrovai in un letto. Un medico mi
spiegò che ero svenuto in campo e che mi ero rotto una gamba dall’anca fino
alla caviglia. Guardai verso il basso e vidi la mia gamba sinistra
completamente avvolta da gesso e garze, e un tutore sotto che me la teneva
sollevata. Mi dissero che ero stato esonerato dalla guerra, che potevo tornare
a casa dopo che mi fossi ripreso e che mi aspettava un lungo periodo di
riabilitazione. La mia famiglia era stata avvertita e mi chiese se avessi
bisogno di qualcun altro da contattare. Zayn, il mio pensiero andò subito a
lui. Chissà come stava, dov’era, cosa faceva, se lavorava, se aveva trovato
qualcun altro. “Zayn, chiamatemi lui”
I
primi giorni in ospedale furono strani. Per una strana ragione, non mi sentivo
sollevato dal non essere più in guerra. Avevo abbandonato i miei compagni,
Louis, ero scappato senza lottare grazie a una scorciatoia, pur non volontaria,
ma sempre di scorciatoia si trattava, mentre tutti i miei fratelli erano ancora
lì, tra la polvere e il freddo, a combattere per arrivare vivi a fine giornata.
E poi pensavo ai nemici, alle persone che avevo ucciso e agli occhi vuoti e
aperti dei cadaveri che avevo sorpassato senza prestare attenzione. Alle corse
per salvarmi e ripararmi, ai fucili che
avevo ricaricato, ai colpi che avevo assestato e alle mani gonfie per il freddo
e le ferite. Non riuscivo a piangere, a sfogarmi, ed ero costretto a starmene lì,
in quel letto, disteso e inerme, senza più alcuno scopo o utilità.
Venne
a trovarmi mio padre. Fu la prima volta che lo vidi piangere e ci abbracciammo
come non avevamo mai fatto.
“Tua
madre sta bene e anche i tuoi fratelli. Ti aspettiamo tutti a casa non appena ti riprendi. Siamo così
sollevati”
Loro
erano sollevati e io no. Zayn non arrivava e la mia agitazione cresceva. Non
poteva raggiungermi? O non voleva? Stava bene? Con chi viveva? Lavorava? Mi
tormentavo con questi interrogativi mentre mangiavo, mentre parlavo con i
soldati malati nei letti accanto al mio, mentre le infermiere mi cambiavano le
bende e mentre camminavo avanti e dietro per la riabilitazione. Passarono
settimane, settimane in cui migliorai i movimenti, in cui piano piano riuscivo
a camminare sorretto da una stampella e in cui riuscii a ricevere notizie dal
fronte di Louis. Era ancora vivo. Scrissi ad Harry per avvertirlo e Zayn non
arrivava.
Dopo
circa un mese di lettere tra me, Harry, la mia famiglia e il fronte di Louis,
mentre ero di spalle alla finestra a guardare le nuvole che si spostavano
spinte dal vento, sentii una voce, una voce così familiare che l’avrei
riconosciuta tra mille. Una voce così bella e calda che mi fece sentire subito
a casa.
“Te
l’avevo detto che ti avrei aspettato!” mi voltai e vidi Zayn, bello come
sempre, in piedi sulla porta. Si era fatto crescere i capelli, non essendo più
costretto a portarli rasati come in accademia, e lunghi e neri gli
incorniciavano il volto da angelo cattivo, la mascella dura e la barba incolta.
Gli occhi erano rimasti gli stessi, intensi e profondi, e il suo sorriso
sghembo era ancora affascinante e temerario come tre anni prima.
“Oddio
Zayn” urlai io e cercai di corrergli incontro, ma lui mi precedette e si fiondò
verso di me, sorreggendomi e facendomi cadere la stampella dalle mani.
Mi
abbracciò, uno dei nostri abbracci goffi e duri, e io affondai la testa nel suo
collo, inspirando quell’odore che mi era così mancato e che non avevo mai
dimenticato.
“Come
stai? Dove vivi? Lavori?” gli chiesi impaziente mentre mi aiutava a sedermi sul
letto.
“Lavoro
con Harry nella panetteria, viviamo insieme e con noi c’è anche la sua
sorellina. Mi chiama papà, pensa un po’. Mi sono affezionato tanto a lei e io e
Harry le parliamo sempre di te e di Louis. Harry è così triste e preoccupato,
ed è una fortuna che ci siamo io e la bambina ad aiutarlo … Quando ha saputo
che tu eri salvo è scoppiato a piangere perché da Louis non ha ancora ricevuto
notizie e non ce la fa più … L’ultima lettera risale a qualche mese fa …” mi
spiegò Zayn mentre si sedeva accanto a me.
“Louis
se la caverà, ne sono sicuro. La guerra sta per finire e avrei voluto portarlo
qui con me, ma se la caverà perché ce lo siamo promessi prima di partire. Lo
aspettiamo insieme!” gli risposi io sospirando lievemente, tanto che ci
guardammo all’istante e pronunciammo insieme ‘I soldati non sospirano mai’.
Mi
sorrise e mi strinse la mano, e io guardai nei suoi occhi. Mi era mancato così
tanto farlo e allo stesso mi sembrò così naturale, come se non avessi mai
smesso e non ci vedessimo solamente dal giorno prima, che non potei fare a meno
di provare uno strano senso di felicità dentro di me e una nuova forza
crescermi nel cuore. Mi stava per scoppiare, e lo avrebbe fatto davvero, se non
avessi fatto qualcosa in quel momento, e così feci quello che più desideravo e
che più mi sembrava giusto, lo baciai. Appoggiai le mie labbra sulle sue all’inizio
timidamente, e sentii che lui si protrasse un po’ indietro. Sbirciai con la
coda dell’occhio intorno alla stanza ma dormivano tutti o comunque stavano
troppo male per pensare a noi, e gli sorrisi, naso contro naso. A questo punto
Zayn si rilassò un po’ e mi baciò, questa volta non timidamente, non
leggermente come prima, ma più forte, più passionale. Le sue labbra aderivano
alle mie senza volersi più staccare, come se aspettassero solo quello da una
vita, e il bacio fu come tornare a casa. Intorno a noi, era sparito tutto. Non
c’era più la guerra, non esisteva il dolore, non c’era più sofferenza e non c’erano
preoccupazioni. C’eravamo solo noi due, le nostre labbra e i nostri respiri
mescolati, i nostri cuori che cominciavano ad andare allo stesso ritmo e le sue
mani tra i miei capelli. C’era solo il mio corpo che ansimava, le mie mani
attorno ai suoi fianchi che esploravano col tatto quel fisico che conoscevano
solo i miei occhi, c’era solo il suo profumo che mi era entrato in ogni vena e
il mio cuore che pompava felicità.
Quando
ci staccammo, Zayn era rosso e non mi guardava.
“Forse
è stato uno sbaglio … io devo andare!” e corse via.
Rimasi
seduto sul letto tutto il pomeriggio, immobile, incredulo per quello che era
successo e contento e deluso allo stesso tempo. Zayn non accettava il fatto che
fossimo due ragazzi, lo avevo capito da subito, da quando lo avevo sfiorato
davanti a sua sorella in quella camera d’ospedale. Ma sapeva quello che c’era
tra di noi, lo sapeva ed era per questo che ne era così spaventato. Non gli
avrei messo fretta e lo capivo, ma ero deciso a fargli cambiare idea e a
portare il nostro rapporto avanti, ora che eravamo liberi e potevamo vivere la
vita che volevamo.
Rimasi
in quell’ospedale per due mesi, tra riabilitazione, bendaggi e controlli vari,
ed Harry e la sorellina mi vennero a trovare una volta alla settimana. La
bambina mi si affezionò subito, si sentiva tanto sola e vedeva in me e Zayn due
figure di papà che l’avrebbero protetta. Zayn non tornò più, ma Harry mi
portava sempre dei biscotti che aveva fatto per me in panetteria. Diceva ad
Harry che me li avrebbe fatti trovare quando sarei tornato dall’ospedale, ma
Harry me li portava lo stesso perché sapeva che era quello che Zayn voleva. Mi
diceva che parlava spesso di me, che gli mancavo e che non veniva a trovarmi
perché aveva paura. Non voleva avere una relazione con me, e questo mi feriva,
ma erano gli anni 40 e nessuno avrebbe capito.
Quando
tornai a casa, lo trovai sulla poltrona dove ora siamo seduti io e te, Luke,
che guardava fuori dalla finestra.
La
bambina ed Harry ci lasciarono soli, e io, zoppicando, trascinai una sedia e mi
sedetti accanto a lui.
Mi
guardò, guardò la mia gamba e gli occhi gli si riempirono di lacrime.
“Scusami
se ti ho lasciato da solo” scoppiò a piangere, e io lo abbracciai. Lo sapevo
che gli avrebbe potuto dare fastidio, ma lo abbracciai lo stesso, forte, come
avevo fatto tre anni prima all’ospedale e come avrei voluto continuare a fare
sempre. E Zayn non si staccò da me, anzi, si abbandonò tra le mie braccia
mentre continuava a ripetermi ‘scusami’, ‘mi dispiace’, tra i singhiozzi e io
mi sentii in pace con me stesso, così sereno e al mio posto che niente mi
avrebbe più potuto fare male.
Andammo
tutti e quattro a casa dalla mia famiglia, e quando mia madre mi vide, vidi nei
suoi occhi un sollievo autentico, come se avesse appena ripreso a respirare. E
tutti i miei fratellini che mi saltavano addosso e papà che cercava di
trattenere le lacrime di felicità.
Mi
trasferii a casa di Harry con Zayn, e aiutai Harry e Zayn con i lavori in
panetteria, e parte del mio stipendio lo mandavo alla mia famiglia. Mentre loro
si occupavano della cucina e della lavorazione del pane, io organizzavo i
trasporti, portavo il cibo a domicilio e riparavo qua e là i vari problemi.
Provai ripetutamente a mettermi in contatto con la fazione di Louis ma non
ricevevo mai risposta, e una sera d’estate del 45, un anno dopo, sentimmo una
notizia alla radio. La guerra stava finendo. I soldati inglesi venivano
rimandati a casa e forse Louis sarebbe tornato. Cominciammo ad agitarci, a non
dormire le notti. Harry passava le giornate a correre da una parte all’altra,
voleva andare da lui, fissava la porta in attesa di vederlo comparire e faceva
cadere tutto a terra. Non sapevamo se essere felici o preoccupati, e nel dubbio
eravamo entrambe le cose. Io e Zayn ci eravamo avvicinati molto, e ogni tanto
gli strappavo un bacio veloce sulle labbra, e lui sorrideva.
Quando
Louis tornò, era una sera di fine agosto. Avevamo appena chiuso la panetteria e
stavamo ripulendo le ultime cose, la bambina era già stata messa a letto e
Harry sistemava la cucina mentre io davo una spolverata un po’ ovunque.
Una
valigia, una porta che cigolava e lui era lì, sulla soglia della porta,
immobile e irriconoscibile. Una lunga cicatrice gli attraversava il mento, le
mani piene di graffi, calli e rigonfiature e la barba incolta. Ma gli occhi,
quegli occhi azzurri come il mare e sinceri come solo i suoi erano, erano
proprio gli occhi di Louis. Harry lanciò una teglia a terra e gli corse
incontro, piangendo. Si scontrarono in un abbraccio disperato mentre
cominciavano a baciarsi e io, non potendo trattenere la gioia di aver rivisto
il mio amico sano e salvo, corsi addosso a loro per abbracciarlo anch’io.
Quando
mi feci da parte per lasciarli un po’ da soli, Zayn mi stava aspettando nel
retro del negozio. Aveva lanciato uno sguardo a Louis pieno di affetto e
solidarietà, uno sguardo che gli diceva ‘grazie per essere tornato’ e ‘ci
vediamo dopo’, e mi aveva portato con sé in camera sua.
“Quello
che c’è tra Harry e Louis è qualcosa che sfida il tempo e le distanze. Si sono
aspettati per tanto tempo e ora ce l’hanno fatta, finalmente. Forse possiamo
avere anche noi il nostro lieto fine” mi disse mentre si avvicinava a me e
cominciava a sfilarmi la maglietta sudata.
“Forse,
anche noi meritiamo un’opportunità” mi sussurrò nell’orecchio mentre le sue mani
scivolavano veloci sui miei addominali e io, incredulo, lo afferravo e lo
stringevo a me.
“Lo
meritiamo anche noi” fu l’ultima cosa che dissi, prima di posare le mie labbra
sulle sue e fondermi con lui, in una notte che fu la più bella della nostra
vita e che avrei voluto non finisse mai.
Passarono
gli anni, Harry, Lou, Zayn e io vivevamo felici a lavoro in quella panetteria,
e Gemma, la sorellina di Harry, cresceva sempre più bella e felice. Per lei, io
e Zayn eravamo i suoi papà e noi ci sentivamo tali. La trattavamo come una
principessa e per noi era l’unica priorità. Cercavamo sempre di non farle
mancare nulla e tutti i sacrifici che facevamo, li facevamo solo per lei.
Quando si innamorò e ci presentò il suo ragazzo noi eravamo felici, e tutto
quello che volevamo era solo che lo fosse anche lei.
Col
passare del tempo le nostre schiene non erano più forti come una volta, e le nostre gambe non erano più tanto agili.
Il lavoro sembrava sempre più pesante ma eravamo felici, pechè eravamo tutti
insieme e perché quello che ci legava era così forte che insieme affrontavamo
qualsiasi cosa.
Amavo
Zayn sempre di più. Ogni giorno, con lui, era una scoperta nuova, e dietro quel
burbero aspetto da duro si nascondeva un uomo pieno di sogni, con un cuore
tenero e grande. Quando ero con lui, si manifestava la parte migliore di me.
Quando a 30 anni uscì il primo capello bianco, e ricordammo insieme quando in
accademia fummo costretti a rasarli a zero. Quando a 40 anni la gamba che mi
ero rotto in guerra ricominciava a farmi male, e alla stampella sostituimmo un
bastone che lui mi regalò. Quando ai 50 ci guardavamo entrambi allo specchio,
con qualche ruga intorno agli occhi e un po’ di pancia pronunciata, e io gli
sussurravo che per me era bello come quando avevamo diciottanni, mentre gli
sistemavo gli occhiali che dimenticava sempre. Quando ai 60 anni lui si ammalò,
e io gli rimasi vicino ogni giorno. Quando era così stanco da non riuscire ad
alzarsi dal letto, e io mi sedevo accanto a lui e gli accarezzavo la fronte, e
gli sistemavo i capelli grigi che gli cadevano spettinati dovunque. Quando
ricordavamo insieme i primi giorni in accademia, le paure e gli errori
commessi, i nostri abbracci e i baci che gli rubavo. Quando mi piegavo per
raggiungerlo nel letto e gli sfioravo le labbra con le mie, e sentivo che al
mondo nulla era più perfetto di quel momento. Quando gli mostrai quel pezzo di
corda che, molti anni prima, mi aveva insegnato ad annodare, e gli dissi che
per me era lui la mia ancora, e che mi avrebbe tenuto salvo per sempre. Quando
gli rivelai che lo avevo sentito cantare, e lo pregai di cantarmi qualcosa e
lui mi canticchiò una canzone che diceva ‘I have loved you since we were
eighteen’. Molto prima che provassimo entrambi le stesse cose, che capissimo
cosa vuol dire amare ed essere amati. E ci amammo sempre, ogni giorno della
nostra vita, ogni momento, ogni istante, durante ogni litigata e durante ogni
risata. Dentro ogni lacrima e in ogni sorriso, nella malattia e tra quei
capelli grigi. E io lo amai anche quando mi lasciò da solo. Quando la stretta
della sua mano intorno alla mia si fece più lenta, e le sue dita si aprirono da
sole. Quando chiuse gli occhi per sempre e se ne andò, io lo amai anche allora,
e gli promisi che, come 50 anni prima, lo avrei aspettato. E lui mi avrebbe
aspettato.
“Nonno, mi dispiace così
tanto” Luke asciuga una lacrima dalla guancia di Liam e si sporge per dargli un
bacio.
Harry e Louis si
abbracciano e guardano Liam con occhi pieni di affetto.
La porta d’ingresso si
apre.
“Amore, è ora di tornare
a casa. Fuori nevica e papà ci aspetta” Gemma aiuta Luke a infilarsi il
giubbotto e dà un bacio a Liam.
“Tutto bene, papà?” gli
sorride, leggermente preoccupata.
“Va tutto bene, vecchi
ricordi tesoro” le risponde Liam con un sorriso leggero, continuando a guardare
la neve che cade fuori e a toccarsi la cordicella legata al braccio.
“Ci vediamo domani dopo
la scuola, allora. A domani” sorride Gemma prendendo per mano il suo bambino, e
quando sono sulla porta Liam risponde “Certo cara, a domani” e sospira
lievemente.
“Nonno” esclama Luke con
un sorriso “ricordati che sei un soldato. E i soldati non sospirano mai.”
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Vi ringrazio se siete
arrivate fino a qui, spero che vi sia piaciuta questa storia perché è la mia
prima one shot sugli ziam e scriverla è stato molto difficile.
Se vi va, fatemi sapere
cosa ne pensate così posso migliorare la mia scrittura e se amate i Larry, e vi
va di leggere qualcosa su di loro, ho pubblicato '158 passi' in 11 capitoli.
Un bacione a tutti.