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Autore: Sara Saliman    11/03/2015    9 recensioni
Dopo un lungo silenzio, la fronte di Zeus si spianò.
-Sta bene, Ade. A me la Superficie, a Poseidone il Mare. A te, qualunque sia il motivo, il Sottosuolo.-
Così si ebbe la divisione del Mondo, come ancora lo conoscono gli umani.
E così ebbe inizio la mia storia, sebbene allora io non fossi ancora nata.
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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L’Averno era rischiarato da una luce soffusa e livida.
Non riuscivo a individuarne la fonte precisa: sembrava trasudare dall’aria stessa al livello del suolo e irradiarsi verso l’alto per diversi metri, diluendo il buio che gravava sulle nostre teste senza dissiparlo.
Capii che stavo contemplando Erebo, la notte degli Inferi, l’oscurità che mai avrebbe visto il sorgere del Sole, e mi accostai a Nonio, poggiandole una mano sul fianco in cerca di conforto.
Ade mi precedeva di poco, guidando la giumenta per le redini. Avrebbe potuto procedere molto più spedito ma si adeguava al mio passo, e anch’io facevo il possibile per adeguarmi al suo, spaventata all’idea di restare indietro e perdermi nelle tenebre e nel lamento delle anime sopra le nostre teste. Il mantello di Ade era enorme: strofinava sul terreno e mi intralciava i movimenti, ma il suo calore e la sua pesantezza erano rassicuranti.
Man mano che procedevamo, l’Averno sembrava sempre più sterminato, e io mi chiesi se non fosse grande quanto la Superficie governata da mio padre.
Un fiume scorreva tumultuoso sotto di noi: dalle sue acque si levava una foschia sottile, daIl’odore stantio. Centinaia, forse migliaia di figure umane stavano in piedi lungo la riva: rimanevano con le braccia lungo i fianchi, completamente immobili e silenziose, lo sguardo puntato nella nebbia in direzione della sponda opposta del fiume. Mi tirai il mantello fin sotto gli occhi; la stoffa pesante conservava un profumo acre, vagamente agrumato, e io inalai a fondo cercandovi conforto.
-Chi sono quelle persone?-
Ade mi gettò uno sguardo da sopra la spalla.
-Sono le Ombre dei mortali defunti. Aspettano il loro turno di essere traghettate.-
Nell’oscurità sopra le nostre teste, il vento soffiava con un gemito lontano. Volsi lo sguardo verso l’alto, ma scorsi soltanto tenebra. Accelerai il passo, per portarmi al fianco del dio dell’Averno.
-Chi è che piange così?-
-Sono le Ombre degli insepolti.-
Il viso di Ade era bianco, quasi traslucido nella penombra: lo scrutai ansiosamente, cercandovi una traccia di emozione, di compassione. Qualunque cosa potesse lenire il mio smarrimento.
-Ma perché soffrono in questo modo?-
-Perché sono ormai bandite dalla Superficie, ma non hanno ancora accesso all’Averno. Viaggeranno nel Vortice per cento anni, a meno che qualcuno non paghi l’obolo al posto loro. Il fiume che vedi è l’Acheronte: circonda come un anello tutto l’Averno.-
-Il fiume dalle acque amare...- sussurrai.
Ade inarcò uno scurissimo sopracciglio: mi sentii a disagio sotto l’esame dei suoi occhi, ma il dio non mi chiese spiegazioni e io non ne fornii.
Alcune delle anime assiepate più lontano dalla riva cominciarono a voltarsi indietro verso di noi, fissandoci con occhi grandi e tondi, lucenti come monete d’argento.
-È giunto il momento di montare su Nonio.- disse Ade.
-Non mi piace l’idea che mi tocchi di nuovo!- sibilai indisponente.
Il dio chinò il capo di lato, socchiudendo appena gli occhi felini.
-Se volessi farti del male, lo avrei già fatto.- fece notare in un tono serico che non gli avevo mai sentito.
Avevo molto da obiettare su quella frase, ma ero troppo stanca, spossata e indolenzita per controbattere. Non mi fidavo di lui, ma la sua risposta seguiva –come sempre- una logica ferrea. Guardai la giumenta.
-Non sono mai salita sul dorso di un cavallo.- confessai nervosa.-Ho bisogno che mi aiuti.-
Ade tese le mani affusolate e bianchissime e mi sfilò con delicatezza la cappa di dosso. Mi chiusi sul seno il corpino lacerato, tremando nel freddo del Sottosuolo. Il dio piegò in due il mantello, quindi me lo appoggiò di nuovo sulle spalle: lo girò due volte attorno alla mia figura, infine, senza sfiorare la mia pelle nemmeno per un istante, me lo annodò sotto il mento. Quella premura inaspettata mi spiazzò: cercai gli occhi di Ade e vi trovai uno scintillio che non seppi decifrare. Un istante dopo mi sentii sollevare per i fianchi e mi ritrovai su Nonio, seduta come un’amazzone. Il dorso dell’animale si mosse sotto di me come suolo in smottamento, e mi afferrai alla criniera.
Ade salì in groppa dietro di me e io mi puntellai immediatamente contro il suo petto, rigida ma stabile. Le labbra del dio mi sfiorarono la tempia.
-Rimani morbida, asseconda il movimento. Al resto penso io.-
Mi sentii arrossire, come se non stessimo parlando della mia goffaggine nel montare a cavallo ma di qualcosa di molto più intimo, la cui essenza mi sfuggiva.
Quando le braccia di Ade si tesero ad afferrare le redini, mi ritrovai circondata da lui da ogni parte: con la stessa risolutezza con cui mi aveva trascinata in quel luogo, avrebbe avuto cura di non farmi cadere. Mi parve una cosa terribile e rassicurante insieme.
Le Ombre si scostavano rispettose al nostro passaggio, lasciandoci avanzare e seguendoci da lontano con quei loro occhi d’argento. Ade cavalcava eretto, lo sguardo dritto davanti a sé. Alcune Ombre si inchinavano a lui così profondamente da sfiorare il suolo con la fronte diafana, e lui accettava quella deferenza con compostezza, svelando in risposta il proprio apprezzamento con un sobrio cenno del capo. Sull’Olimpo, non avevo mai conosciuto una divinità così schiva.
Gli occhi adoranti dei morti mi riempivano di costernazione, ma una sola volta ebbi paura: passando accanto all’Ombra di una bambina, questa tese le mani per toccarmi. Ade se ne accorse prima di me: si protese verso il basso e affondò le dita pallide nel petto dell’Ombra; essa si dileguò in fumo, riprendendo consistenza pochi metri più in là.
-Non ti faranno del male.- mi spiegò, raddrizzandosi di nuovo in sella. -Vorrebbero solo toccarti. Tu gli ricordi la luce del sole.-
Sollevai il viso verso di lui.
-Le Ombre ti temono?-
Mi guardò incerto, come se non capisse la domanda.
-Naturalmente.-
-Sembrerebbe piuttosto… - presi un respiro, calmando il tremito che mi scuoteva la voce –Sembrerebbe piuttosto che ti amino.-
Raggiungemmo la riva piena di ciottoli dell’Acheronte: un vecchio curvo e nodoso ci aspettava, in piedi su una grande barca a remi.
Ade smontò da cavallo, aiutandomi a scendere.
-Caronte.- lo salutò.
Il vecchio si inchinò con riverenza.
-Divino Ade.- I suoi occhi di diaspro rosso si posarono su di me.
Spostai il peso da un piede all’altro, incerta su come comportarmi.
-Buona sera.- dissi con voce sottile.
Il vecchio mi guardò dubbioso. Guardò Ade, poi di nuovo me. All’improvviso sgranò gli occhi, la fronte rugosa si spianò, come se avesse compreso qualcosa che a me, evidentemente, sfuggiva. Si profuse in un inchino pieno di emozione.
-Benvenuta, o divina! Benvenuta nell’Averno!-
Schiuse la bocca sdentata nel sorriso più brutto e più dolce che avessi mai visto, e al quale, nonostante la spossatezza, mi ritrovai istintivamente a rispondere.
Salimmo sulla barca insieme a Nonio. A prua scintillava la luce fredda e argentea di una lanterna, così pura da ricordare il volto splendente di Selene, la Luna. Fu lì che mi accoccolai, stremata, chiudendo gli occhi e affondando il naso nel profumo agrumato del mantello.
Con una spinta del lungo remo, la barca si staccò dalla riva, fendendo le acque nebbiose dell’Acheronte.
Sollevai lo sguardo una sola volta: Ade era seduto a poppa, le gambe leggermente divaricate e un gomito appoggiato su un ginocchio. Sotto la luce oscillante della lanterna, i capelli corvini erano spettinati e profonde ombre viola gli si allungavano sotto gli occhi. Mi fissava in silenzio, esausto ma composto: impossibile dire cosa stesse pensando.
In ogni caso ero troppo stanca per chiederglielo. Avvolta tra le pieghe del mantello, piegai un braccio sotto il capo e mi addormentai.
 
§§§§
 
Ricordo il resto del viaggio attraverso i veli di un sonno frammentato e insicuro.
Sognai il volto delicato di zia Estia: la sognai guardare nel fuoco e vedermi, e vedere che io la vedevo. Le fiamme  proiettavano riflessi rosseggianti sulla sua carnagione diafana; i suoi occhi di onice nera, profondamente espressivi, erano illuminati dall’interno da qualcosa che sembrava speranza e forse invece era solo sconcerto.
Sognai Leucippe: la sognai col volto nascosto tra le mani e le spalle scosse dai singhiozzi.
Leucippe! Leucippe! Non piangere, sono qui! Le corsi incontro, di nuovo bambina, per gettarle le braccia al collo e gridare: perdono!
Ma il corridoio era interminabile sotto i miei piedi nudi e la Notte era un lupo nero che aveva ingoiato il cielo fuori dalle finestre piombate. Il pavimento si sgretolò in una voragine e io precipitai.
Sognai la caduta: il fischio dell’aria nelle orecchie e i capelli che mi schiaffeggiavano il viso. Il terrore mi paralizzava il diaframma, impedendomi di respirare. Poi ci fu l’impatto, ma un petto saldo mi attutì la caduta.
Mi sentii circondare da un profumo acre, simile all’odore degli agrumi della mia amata Sicilia, ma meno luminoso nella sua essenza. Sentii braccia forti sollevarmi con cura e ricordo di aver sussultato, temendo di cadere di nuovo, in profondità ancora più scure.
Udii la voce di Ade, resa esitante dalla stanchezza: -Forse dovremmo svegliarla.-
Dovetti schiudere le palpebre, perché ricordo un volto liscio come quello di un fanciullo, circondato da due grandi ali nere, che si chinava su di me.
-Lasciala riposare: ne ha bisogno. In verità, ne avresti bisogno anche tu.-
Il dio fanciullo soffiò dolcemente sui miei occhi, e altre immagini presero a rimescolarsi nella mia mente.
Tre vecchie intente a filare sollevarono lo sguardo su di me, i volti solcati da rughe profondissime.
-Ah… sei tu! Finalmente sei arrivata!-
-Temevamo di esserci sbagliate, e che dopotutto non saresti giunta!-
- Non che una cosa del genere sia possibile...- precisò la terza vecchia in un sussurro.
Cominciai a battere i denti.
-Chi siete?-
-Siamo ciò che siamo.-
-Siamo ciò che rappresentiamo.-
-Siamo ciò che sappiamo di essere.-
Ero di nuovo bambina: una dea bambina che aveva forzato la soglia di una porta lasciata chiusa.
-Come fate a conoscermi? Io non sono mai stata qui!-
Ma, mentre lo dicevo, sentivo che non era vero. Quella tenebra era familiare come lo spazio in cui ero rannicchiata prima di nascere, come il brusio dei miei pensieri ancora privi di forme che potessero abitarli, come lo sciabordio dell’amnios nel ventre di mia madre.
Udii una voce femminile, dolce come un frutto maturo: riconobbi in essa la mia stessa voce, ma più pacata, più piena, come se un’altra me stessa si fosse voltata indietro da non so quale futuro e mi stesse parlando attraverso le nebbie del Tempo: -Prima ancora che i miei occhi si schiudessero sul Mondo, io già ero: avevo già un nome.-
Udii le grida disperate di mia madre levarsi verso il cielo: -Kore! Kore!-
E il sussurro di Ade, feroce e dolente, come se la parola gli facesse sanguinare la bocca, ma lui non si esimesse dal pronunciarla: -Persefone.-
 
§§§§
 
Mi svegliai perfettamente lucida, in un letto che non conoscevo.
Mi levai a sedere, premendomi le mani sulle braccia, sul torace, sul viso. Mentre dormivo, il mio corpo era stato svestito e lavato; mani abili avevano sciolto i nodi nei miei capelli, spazzolandoli fino a renderli soffici come seta. La mia pelle era di nuovo integra; era stata unta di oli profumati e avvolta in una preziosa camicia di bisso.
Dei graffi, dei lividi e della stanchezza era rimasto solo il mio ricordo. Scostai le coperte e mi alzai dal letto, andando verso lo specchio che sovrastava la toletta. Vi trovai, accuratamente allineati, tutti i fiori che avevo nei capelli al momento del rapimento. Adagiato su un manichino, c’era l’abito che avevo indossato: qualcuno aveva avuto cura di lavarlo e di ripararlo con minuscoli punti precisi, talmente curati che, tra le pieghe, era quasi impossibile indovinare gli strappi. Su una sedia era piegato persino il mantello in cui Ade mi aveva avvolta dopo avermi rapita.
La porta si aprì e mi voltai di scatto.
Entrò una ninfa con delle asciugamani in mano. Accorgendosi di me, si fermò sull’uscio e mi guardò sorpresa.
-Ti sei svegliata.- Un lampo passò nei suoi grandi occhi neri prima che chinasse il capo e si chiudesse la porta alle spalle. Venne avanti e appoggiò gli asciugamani su uno sgabello. -Mi chiamo Minta. Sono l’ancella che ti è stata assegnata.-
Mi strinsi le braccia intorno al corpo, sorpresa che non si fosse inchinata, né mi avesse rivolto un saluto.
-Persefone.- mi presentai.
-Certo, lo so.-
Scrutai il volto pallido di quella donna cercando in esso del calore, della simpatia, qualcosa che mi facesse sentire meno sola. Non ne trovai.
-Sei tu che mi hai curata mentre dormivo?-
-Naturalmente.- Senza neppure guardarmi, aveva iniziato a rifare il letto.
- Io… mi sento veramente bene. Vorrei ringraziarti.-
-Ho fatto ciò che mi è stato chiesto. Quanto alle tue ferite, è stata l’acqua dello Stige a guarirle.-
-L’acqua dello Stige…?-
La ninfa ebbe un gesto vago con la mano, che trovai scortese.
-Sei stata lavata con quella.-
-Grazie, allora, per aver assolto così bene il compito che ti è stato assegnato.-
Mi avvicinai alla finestra e scostai i tendaggi: l’Averno era avvolto in una luminosità opalina che feriva gli occhi. Capii che, nel Sottosuolo, quella doveva essere la luce del giorno.
-Per quanto tempo ho dormito?- domandai, richiudendo le tende.
Minta stava sprimacciando i cuscini.
-Nyx è salita in superficie tre volte, da quando ti hanno portata qui, e altrettante volte è tornata.-
-Tre giorni!- esclamai sgomenta.
Gettai uno sguardo all’abito minuziosamente ricucito, ai fiori ormai appassiti che giacevano sulla toletta: cosa mi aspettavo? Era chiaro che era passato del tempo dal mio arrivo lì.
Minta gettò all’indietro i lucenti boccoli scuri, guardandomi finalmente in faccia.
-Il nostro signore ha ordinato che ogni cosa tu avessi indosso quando sei arrivata, venisse riparata e custodita fino al tuo risveglio, e che fossi tu a decidere cosa farne.-
Quelle parole, “il nostro signore”, mi colpirono come uno schiaffo. Minta le aveva pronunciate come ne fosse orgogliosa e mi sfidasse a contraddirla: ancora una volta la sua ostilità mi ferì e mi confuse. Ero cresciuta con Leucippe, che piuttosto che lasciarmi dormire per giorni sarebbe saltata sul letto e mi avrebbe svegliata facendomi il solletico finchè non fossi rotolata sul pavimento scalciando e ridendo. Anche le altre ninfe, sebbene non fossi altrettanto legata a loro, sarebbero entrate in stanza sorridendo e cantando, portando mazzi di fiori freschi e frutti resi fragranti dal sole. Capivo che da quella donna non potevo aspettarmi gesti di familiarità, ma non comprendevo l’astio con cui mi trattava.
Avrei dovuto riflettere sulla cosa, ma non era il momento opportuno.
Sperando di non irritarla, modulai la voce nel tono più mite che riuscii.
-Per favore, Minta, mi serve dell’acqua. Acqua dello Stige.-
 
§§§§
 
Minta aveva occhi neri fin troppo espressivi, e lo sguardo che mi lanciò prima di uscire dalla stanza fu un misto di veleno e di sospetto. Non capii cosa avessi sbagliato nel modo di formulare la richiesta: ero stata gentile, chiedendo come fosse un favore qualcosa che mi spettava, e che lei aveva il dovere di fornirmi. Ancora una volta, cercai di mettere da parte l’inquietudine.
Passai con dolcezza una mano sull’abito rammendato: era ancora il mio vestito e l’idea di indossarlo mi tentava, ma dopo quanto accaduto non ero più in grado di portarlo.
Aprii l’armadio e cercai di capire cosa avessi a disposizione.
Ade aveva scelto personalmente i pezzi di quel guardaroba? Era un’idea a dir poco grottesca, eppure rimasi colpita da quanto fossero una versione leggermente più femminile e pregiata dei vestiti semplici e pratici che amavo indossare. Come faceva lui a saperlo? Qualcuno glielo aveva detto? Lo aveva indovinato da solo? O peggio, mi aveva spiata?
(Ma era stato davvero lui a sceglierli, allora?)
Alcuni erano molto scollati e sensuali: al pensiero che qualcuno potesse immaginarmi in quelle vesti arrossii.
Scelsi un abito bianco e accollato, semplicissimo nella foggia, dal corpino ornato con piccole perle di ardesia, e lo indossai in fretta.
La porta si dischiuse e Minta fece nuovamente il suo ingresso reggendo fra le mani un catino.
Parve sorpresa di trovarmi attiva e perfettamente vestita, ma non le diedi il tempo di replicare.
-Per favore, appoggialo sulla toletta.- dissi, richiudendo l’armadio.
Ancora una volta, la mia gentilezza parve indispettirla piuttosto che ben disporla.
-Nel tuo guardaroba ci sono delle scarpe.-
-Mi piace stare a piedi nudi,- spiegai in tono di scusa, e la disapprovazione che le lessi nello sguardo mi lasciò sconcertata.
Mi avvicinai al catino, immergendovi dentro i piccoli fiori della Superficie che erano stati pazientemente districati dai miei capelli. A contatto con l’acqua dello Stige, i petali cominciarono a inturgidirsi, riprendendo colore e vigore.
Sapevo che non sarebbe durata a lungo, ma in quel luogo estraneo, mentre il mio stesso futuro era incerto, avevo bisogno di tenere in vita il più possibile ciò che mi era caro e familiare. Quella piccola vittoria mi strappò un sorriso, che vacillò non appena incontrai lo sguardo ostile di Minta.
Mi asciugai in fretta le mani con uno dei panni che aveva portato.
-Per favore, conducimi da Ade.-
La ninfa parve sconcertata dalla mia richiesta, ma almeno quella era una reazione a cui ero abituata: anche in Superficie, nonostante mi sforzassi eroicamente di compiacere tutti, sembrava che qualcuno dovesse sempre sconcertarsi per qualcosa che facevo o dicevo.
O per qualcosa che sono, aggiunsi, pensando a Era e al suo perenne malcontento per la mia pura e semplice esistenza. Be’, nonostante la disapprovazione della zia, sembra che io sia cresciuta sana e forte lo stesso, no?
Minta arricciò le labbra in un sorriso di scherno:
-Mi spiace deluderti, ma il nostro signore ha molti impegni: non ti accorderà udienza con così breve preavviso!-
Il mio primo impulso fu quello di stringere le sue mani e spiegarle ansiosamente le mie ragioni.
Smetti di infierire, ti prego! Guardami: sono sola e spaventata e lontanissima da casa. Ho mille domande e Ade è l’unico che possa rispondere. Lui mi ha rapita e trascinata qui, in questo posto terrificante, e non ho idea di cosa ne sarà di me!
Mi bastò guardare la ninfa negli occhi per capire che da lei non avrei avuto alcuna comprensione.
Mi strinsi le braccia attorno al corpo: intuivo che dovevo essere io a infondermi coraggio, perché nessun altro lo avrebbe fatto.
-Ade è venuto di persona a prelevarmi in Superficie: mio malgrado, questo mi qualifica come il suo impegno più urgente. Portami da lui.-
E prima che Minta potesse obiettare, la precedetti fuori dalla stanza.
 
§§§§
 
Note dell’autrice (altrimenti dette: sto morendo di stanchezza e ho un solo neurone funzionante, quindi pietà di me, sarò ancor meno brillante del solito):
Vi ringrazio tutti tuttissimi per i commenti: siete la gioia di questa povera scribacchina!
Questo è in gran parte un capitolo di passaggio, ma spero di essere riuscita a non annoiarvi e a renderlo lo stesso coinvolgente.
Cosa succederà adesso?
La domanda non è affatto retorica, perché Ade e Persefone cominciano a fare di testa loro, sovvertendo la bella scaletta ordinata che avevo stilato nella mia testa. Che posso dirvi? Seguiamoli e scopriremo insieme dove ci porteranno!
Un abbraccio,
S.
   
 
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