Asciugando case allagate
*Premessa: ha piovuto parecchio dalle mie parti, sapete? Oggi a dire la verità il cielo non si è fatto
scappare una singola goccia, ma la cosa non durerà a lungo, lo dicono le
previsioni del tempo e lo dice il taglio cesareo di mia madre che tira, ergo
siate cauti quando uscite di casa e prendete l’ombrello.
A parte questo spero che questo raccontino, per
quanto banale possa essere, vi regali qualcosa, nel bene e nel male.
Vi auguro buona lettura.
Isi.
Ah, e non dimenticate l’ombrello!*
Ha le lacrime di quando aveva tre anni ed i suoi genitori non c’erano.
“Se mamma e
papà non andassero a lavoro chi potrebbe comprarti tutti questi bei
giocattoli, eh sciocchino?” gli
aveva chiesto un giorno la sua badante, mentre s’ingozzava con i
cioccolatini preferiti di sua madre.
E lui davvero, come convinto
da quelle parole, aveva cercato e cercato, ma pur tra tutti quei balocchi non
era riuscito a trovarne neppure uno che somigliasse
anche lontanamente a quell’uomo sempre in giacca e cravatta che vedeva solo
per le feste comandate, né uno che avesse l’immagine di quella
donna in continua sospensione su quei suoi trampoli che chiamava tacchi a
spillo.
E al bambino che s’alzava
in punta di piedi protendendo ad essa le manine
paffute venivano quasi le vertigini.
Non semplicemente alta, ma irraggiungibile,
il che è diverso.
Custodisce con gran riguardo
le lacrime che non versò mai il giorno del suo settimo compleanno,
quando suo nonno decise di regalargli quello che allora era un computer di
ultima generazione, la punta di diamante della tecnologia moderna.
Poi la maestra ridendo gli aveva spiegato che gli
abbracci non si vendono nei negozi di elettronica, né
in quelli di automobili, né, tantomeno, nei supermercati o nei discount,
non si vendono e basta.
Aveva lasciato che il
salvadanaio che teneva sul comodino si riempisse di ragnatele: in fondo a che
serviva fargli custodire monetine che non potevano comprare abbracci?
Si è già
dimenticato delle lacrime che trattenne, quando, ad
undici anni, si ritrovò contro le mani pesanti del bullo della scuola
che, forse invidioso dei suoi voti, lo prendeva a calci chiamandolo secchione.
Avrebbe anche potuto
tollerarli i calci, ma l’odio con il quale gli ripeteva quelle parole,
quel secchione di merda che lo perseguitava come un
fantasma perseguita il suo assassino per tanto tempo e che lo avrebbe
perseguitato ancora per molto tempo, quello l’aveva davvero fatto star
male.
Toccare i lividi come avrebbe
toccato qualsiasi altra parte sana del suo corpo era quasi divertente se
paragonato al solo pensare che spesso l’odio di coloro
che dominano finisce per diventare l’odio delle masse: non c’era
più solo il bullo che l’aveva pestato ad infastidirlo, ma anche i
suoi amici e gli amici dei suoi amici e tutti coloro che lo conoscevano se non
volevano vedersi crocefissi al suo posto.
I capri espiatori hanno
sempre fatto comodo, innocenti o meno che fossero.
Non ha mai mostrato a
nessuno le lacrime che è costretto a ricacciare
indietro ogni qualvolta non riesce ad ignorare chi lo insulta a bassa voce
senza avere il coraggio d’infamarlo a quattr’occhi,
senza usare mezzi termini, dandogli dell’idiota, del bastardo, dello
stronzo o del figlio di puttana.
Sull’ultima cosa, credo,
che potrebbe anche trovarsi d’accordo se solo qualcuno avesse le palle di
sputargli in faccia tutta la propria ripugnanza, tutta
la propria ignoranza.
Perché nessuno in fondo lo conosce, perché nessuno
sa chi sia in realtà, neppure lui che dice d’essere se stesso -o
forse sono gli altri a dirlo? Ora non ricordo bene- sa davvero chi è.
Conosce il proprio nome.
Conosce il proprio cognome.
Conosce la propria
età, gli anni che possiede per mezzo della memoria e anche quelli che
sono scivolati giù nello scarico del tempo, ingoiati come secondi dalla
vita di un Dio immortale.
E poi? Cos’altro
conosce di se stesso?
Oh, che stupida, cos’altro
potrebbe conoscere se non quelle lacrime che non ha mai voluto mostrare a
nessuno preferendo ingoiarle a forza, seppellendole nella sua anima e
lasciandole lì a cristallizzare in frammenti di fragilità
conficcati nella carne viva come schegge di vetro invisibili a tutti gli occhi
altrui fuorché ai suoi?
Davvero ci fu qualcuno in grado di vedere aldilà, sapete?
Qualcuno cui non
bastò l’apparenza, che non seppe o forse che non volle,
accontentarsi di un riflesso incorporeo, di un’idea sbagliata, di un
pettegolezzo, scavalcando l’odiosità di una visione tanto semplice
da dare il voltastomaco.
Seppe dunque quel tal
qualcuno insinuarsi in luoghi ancora inesplorati in cui nessuno prima di allora
aveva avuto il coraggio di addentrarsi e si era ritrovato ai piedi di una
miniera di lacrime, come un profondo cretto che il tempo, il disinteresse e l’indifferenza
avevano colmato di paura.
E costei, costoro, o forse
costui -vogliate perdonare questa mia memoria
ballerina la quale, sin troppe volte, dimentica i passi che dovrebbe eseguire e
fa di testa sua con l’immaginazione che le dice quale strada seguire- si
rimboccò le maniche cominciando ad asciugare quel pianto con tutta la
propria buona volontà e con tutto il proprio bene, come si farebbe con
secchio e straccio in una casa allagata, inginocchiandosi nell’acqua gelida
con il capo chino a fissare il proprio riflesso, quasi si stesse aspettando un
ulteriore battesimo, un’ennesima conferma di perdono.
E stile
salate erano scivolate via a guisa di pioggia e aveva piovuto e piovuto
e piovuto fino a che la casa non era stata di nuovo asciutta -asciutta, non
arida- lo straccio pulito, il secchio vuoto e quel cretto là, quello
nell’anima chiuso, come riparato, rabboccato d’amore.