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Autore: shimichan    13/03/2015    10 recensioni
Dal testo:
I sentimenti non sono mai complicati, sono le persone a renderli tali non accettandoli, reprimendoli, ammassandoli in qualche stanza del cuore.
Il cuore ha più stanze di un bordello, diceva, a ragione, un poeta, il cui talento risiede proprio nell’accettare che l’amore accade come un dono. Ma, siccome nella vita di tutti i giorni i poeti sono pochi e i regali riciclabili, quelle stanze si trasformano in ripostigli, dove i sentimenti si sfrangiano e ingarbugliano, creando poi quel caos che spaventa tutti.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo, Shiho Miyano/Shinichi Kudo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Angolo autrice
Salve, popolo di Epf!
Mi sposto qui sopra, in questa posizione insolita, perché ho voglia di presentare questa fanfiction, che nasce dallo sconforto personale e dalla rabbia verso Gosho (si, ultimamente mi sta facendo girare veramente gli zebbedei…!).
Il titolo è già tutto un programma e la struttura mi è stata ispirata da una vecchia fic che ho letto anni fa e che mi aveva colpito; purtroppo non ricordo il titolo, solo il fandom, che era Harry Potter (si, all’epoca tirava anche me) e forse è per questo che, all’inizio non volevo postarla, ma la mia prolungata assenza e una rilettura più accurata mi hanno convinta che il suo posto era questo e non un angolo ammuffito del mio pc.
Spero condividiate la mia opinione.
 
Ora vi lascio a questa lunga, lunga lettura.

 
 

 
Tokyo è sempre la stessa. Vive una frenesia che non muore nemmeno di notte.
Shiho si perde ad osservarla un secondo: da lì non vede le strade e le case e gli uomini, solo i palazzi, dita di vetro che sfiorano il cielo senza toccarlo davvero. Tutto quel tendersi inutile le fa male. A che scopo prodigarsi tanto per qualcosa impossibile da raggiungere?
Non ha risposta. Si tocca il volto e cerca negli occhi ciò che vi resta di vivo. Di vivo c’è lui.
Con le mani sprofonda nella carne, come se si potesse ascoltare un viso con le dita.
Forse si può. Le hanno detto che le rughe parlano, ma lei ha ancora la pelle giovane dei suoi ventisei anni e le domande aperte dei suoi diciotto. La media fa ventidue.
Non le piace quel numero perché le ricorda doppiamente che la vita va vissuta almeno in due e Shiho è un uno molto vicino allo zero.
Zero: il tempo che non ha più.
È in ritardo e ha un mucchio di faccende da sbrigare. Deve presentarsi in questura per convalidare il passaporto, finire una relazione sugl’impianti cellulari e passare da casa Kudo perché Yukiko è abbastanza indaffarata con i preparativi per la festa del suo anniversario; come se non bastasse Ran è a letto, sedata da un’insolita febbre alta, e le ha promesso una pillola che gliela faccia abbassare.
Si concentra su quest’ultimo pensiero. Sa che le parlerà di lui e di quanto le manca.
Shinichi è alle prese con uno spinoso caso a Tottori da una settimana. E Ran si lamenta anche se lo chiama in continuazione.
Vorrebbe dirle che manca anche lei. Troppo. Da troppo.
La giornata si prospetta intensa. Alla finestra la tenda scatta lasciando entrare lenti soffi di vento e qualche pappo, affaticato dal caldo e dalla nostalgia del suo ramo.
Vortica e si depone sul davanzale, vittima dei propri ricordi.
I ricordi sono sempre assassini che nessuno può arrestare, forse perché uccidono dolcemente.

 
 
«Io ti ho chiesto aiuto e credo di aver saldato il mio debito» precisò, mentre il sole abbracciava la loro passeggiata lungo il sentiero che attraversava il parco.
«Cerca di sfruttare meglio il tuo tempo, ora che ce l’hai. Recuperare».
Erano soli, camminavano tranquilli, ma dovevano parlare, nonostante Shiho avesse cercato di ammazzare fin da subito la conversazione.
C’erano questioni irrisolte e, per deformazione professionale, Shinichi non amava lasciare mai niente d’insoluto.
«Certe cose non si possono recuperare, semplicemente perché non le si hanno avute» replicò, in modo significativamente sibillino.
E lì, per l’ennesima volta, Shiho ebbe l’impressione che ci fosse un discorso già pronto ad attenderli al varco, assurdamente serio e pericolosamente necessario. A confermare quella sua idea contribuiva la dispotica sensazione che il suo stomaco si stesse preparando ad attorcigliarsi in se stesso per invitare il cuore ad triplo salto mortale.
«Kudo» voleva cambiare strada «ti ho mai detto che la retorica è ormai surclass-».
«Guardami!». Il silenzio per un attimo divenne complice dei rumori lontani della città.
No, non poteva. Non ne era più capace.
Si era resa conto troppo tardi che la loro amicizia aveva demarcato i limiti imposti dalla consueta famigliarità. E l’amicizia innocente tra uomo e donna non può mai culminare nella fine della famigliarità né stare in equilibrio sul filo del suo confine.
È destinata a cadere e quasi sempre nel lato sbagliato.
Shinichi aveva diciassette anni, un numero che non promette buona sorte.
Il sangue è caldo da adolescenti e quando preme forte sul petto bisogna decidere che farsene.
Si hanno tutte le domande, ma le risposte arriveranno troppo tardi per ricordarle. Diciassette è un errore di tempistica.
«Perché – cercava i suoi occhi, mentre parlava – quella notte non sei fuggita? Perché sei tornata? Perché…».
…se Gin voleva colpire te, ha sparato a me?

«Kudo…». Non voleva farlo continuare per paura di confessare l’inconfessabile.
Che Gin aveva un’ottima mira e aveva scelto semplicemente il punto in cui le avrebbe fatto più male.
«E poi...volevo…devo sapere perché…» si fermò, incerto. «…mi hai baciato?».
 
 
«Shiho, secondo te a Yukiko piacerà il regalo?».
La voce raffreddata di Ran la spossa, la infastidisce. Stava riportando alla mente il momento in cui aveva toccato il fondo e trovato la forza di darsi una spinta con i piedi per risalire in superficie, come una molla compressa.
«Credo di sì. Non ti preoccupare, per lei conta il gesto».
Si rende conto quasi subito della fallacità di quell’affermazione, ma ha troppa fretta di dileguarsi per trovarne una più convincente.
Teme, infatti, quello che le labbra strette di Ran stanno per pronunciare.
«Se solo Shinichi arrivasse in tempo! Per i suoi non ci sarebbe regalo migliore!» sospira, affranta dalla febbre. «E invece sembra che i casi vengano prima di tutto e tutti!».
Stavolta è la lontananza a parlare. Shiho la riconosce perché quel tono è lo stesso dei suoi pensieri.
Ran, rinvigorita dalla stizza, fa riemergere una mano dalle coperte e comincia contare i difetti del fidanzato, certa di trovare in lei un’alleata. «I ritardi, l’aria da sotuttoio…».
…la sete di giustizia, la gentilezza, la capacità di far sentire protetta qualsiasi persona ricerchi il suo aiuto, il sorriso.
Shiho continua l’elenco mentalmente e quando alza lo sguardo si scopre fissata.
«Ti senti bene? Sei pallida».
Istintivamente si tocca la guancia. Le sembra di avvertire il proprio colorito evaporare.

 
 
Il passo dall’angoscia al panico fu brevissimo.
Cercò respiro nei polmoni svuotati dalla paura ed evitò accuratamente i suoi occhi, perché le loro radici partono dal cuore e non poteva fargli capire che il suo, in quel momento, stava vacillando.
«Io» e «salvarti». Furono le sole parole che la voce incrinata gli permise di udire, le uniche che voleva.
Un nome con cui identificare le labbra che lo avevano riportato indietro e il loro scopo.
L’amore è salvare la vita dalla morte.
Quando si voltò, trovando il coraggio di incrociare il suo sguardo, Shiho vi lesse una guerra interiore, risolta per un attimo in un sorriso scappato dalle maglie della paura e dell’amarezza. In tutta la sua forza, in tutta la sua fragilità. «Ti ho sentita vicina» sussurrò.
«Dove vuoi arrivare?».
Gli occhi lucidi e di nuovo nascosti, le mani strette a pugno per trovare appoggio in se stessa.
Il cuore impara a volere quando ha già perso o sta per perdere. Si lancia in estasi continue, esce fuori di sé.
Questo desiderio infinito lo costringe a spezzarsi, se necessario. È il debito da pagare per continuare a vivere.
Il cuore vuole la vita e la vita non lo accontenta mai.
«Da te».
 
Dopo quella discussione frantumata, aveva scelto di fuggire, di non affrontarlo più.
Aveva cercato di incrociarlo da sola il meno possibile, esibendo uno sguardo di ghiaccio per impedirgli di proseguire con quel discorso così imprudente, letale per entrambi.
Eppure lui non fingeva che nulla fosse accaduto. Scherzava, le gravitava attorno, era sempre lo stesso Shinichi. Con la sicurezza che può infondere il ricevere delle risposte, con lo sguardo attento e fisso quel secondo in più che basta al desiderio per manifestarsi, con sorrisi che abbassano le difese e sembrano voler dire a chi sono rivolti: se vuoi ferirmi, è questo il punto da colpire.
Vivevano come vivono gli astri: attorno allo stesso asse, in orbite sempre più stette, destinati prima o poi a coalescere a causa del loro magnetismo.
Perché Shinichi era attratto da lei, come mai gli era accaduto con Ran.
Ran era la ragazza di cui era innamorato e con lei stava bene.
Ma con Shiho tremava. Il lieve vibrare dei vasi  comunicanti che si scambiano il rispettivo contenuto per trovare un equilibrio prima impensabile. Equilibrio, non perfezione. Sul filo della vita, in fondo, conta più l’armonia dei passi che l’eccellenza del piede.
 
 
«Sono solo un po’ stanca» risponde.
Ran la studia attentamente. Non è sicura di averla persuasa, ma nel suo volto scorge comunque la luce di chi sa alleviare le sofferenze altrui anche se non ne conosce l’origine.
«Lo immagino. Anzi, ora chiamo mia madre e le chiedo se può vedersela lei con Yukiko. Così puoi tornartene a casa e riposare in vista di stasera».
«Saresti gentile. Grazie».
«Grazie a te».
Shiho esce e la consapevolezza che quella parola non ha lo stesso significato per entrambe le sconquassa il petto.
 
Sceglie la metropolitana per muoversi.
La metropolitana ha la velocità giusta per chi non può permettersi di fissare persone e fatti al ritmo adeguato. Il suo cuore incrostato non lo reggerebbe.
Scende comunque due fermate prima della sua, svincolandosi tra le vie della città, tra i grattacieli con le basi di cemento impiastricciate di vernice spray. L’amore che non vivi, ti consuma dentro, recita una scritta.
Shiho si chiede se anche i grattacieli, che spasimano il cielo, possono logorarsi e, mentre osserva le vetrine, un abito magenta la colpisce.
Le piace, ma forse è troppo appariscente.
Una volta Shinichi le aveva detto «il rosso ti dona» e lei aveva ribattuto piccata che era magenta, mentre la sua vanità di donna esultava in quel corpo di bambina, stretto nel cappotto. Forse erano già senza via d’uscita e nemmeno lo capivano.
Quando raggiunge l’incrocio che collega il quartiere di Beika al centro, si ferma sul ciglio, esattamente nel punto in cui Conan l’aspettava ogni mattina, a respirare l’odore del traffico, a ricordare. È il rito che compie sempre il viaggiatore in partenza.

 
 
Durante la cena per i sessant’anni di Agasa non avevano smesso di osservarsi.
Lo sguardo di Shiho frugava nella sala, finendo inevitabilmente per incrociare gli occhi di Shinichi, che si fecero vicini, tutto d’un tratto.
«Vieni con me» soffiò e fu abile nel tranquillizzare i presenti dicendo che dovevano sistemare la «questione regalo» prima del suo rifiuto, già pronto sulle labbra. La sedia stridette.
Il passo svelto del detective equilibrava la trazione debole delle sue gambe, le dita legate al polso di lei emanavano una forza gentile e prepotente allo stesso tempo. Shiho era così concentrata sulla cedevolezza delle proprie di ginocchia da non accorgersi che si era fermato, finendo inevitabilmente per impattare contro la sua schiena. Sentì il suo respiro. Era pesante, affranto come quello che ti regalano otto anni distanze colmate in pochi secondi.
«Sei bella». Lo sussurrò, ma senza timidezza.
Si era fatto uomo, Shinichi, e lei si vergognò di essersene resa conto solo allora.
Aveva perso la cadenza incerta ed emotiva degli adolescenti, l’aria di chi ha una vita da inventare e persino la sua arroganza sembrava appannata. La presunzione non serve a niente se non si ottiene ciò che si desidera.
Lo sguardo di Shiho si fece diffidente, sospettoso sotto l’aggrottamento delle sopracciglia. Non le piaceva essere trascinata nell’atrio di una cucina e tantomeno la piega che avrebbe preso quel discorso.
«Era solo un semplice complimento».
«Niente è mai semplice se si tratta di me e di te».
«Immagino che tu abbia ragione. Siamo esseri complicati e gli esseri complicati s’innamorano sempre delle persone sbagliate».
La dolcezza dei suoi occhi era dono di una malinconia amara.
Diciassette è un errore di tempistica tra domanda e offerta, venticinque lo è di logica nella scelta.
Eppure gli uomini hanno trecento grammi di cervello in più delle donne; non perché siano più intelligenti, ma perché sono più razionali. Le donne, invece, hanno più cuore, per questo soffrono di più e rimangono vittime dei loro calcoli egoistici. Ma questa è fisica: nella realtà non funziona mai.
«Una volta mi rimproveravi di pensare solo a me stessa» rise, una risata cavernosa che rivelava tutta l'amarezza della sua condizione. «Ora sei tu quello da riprendere».
«Forse sì. Però sono pronto a tentare la strada dell’egoismo se significa arrivare da te».
Avrebbe voluto obiettare, ma Shinichi le poggiò un dito sulle labbra perché tacesse, poi lo spinse sulla guancia.
Shiho si bloccò sorpresa, e per un’istante adagiò il viso sul suo palmo. L’esperienza di una carezza può considerarsi egoismo?
All’improvviso un cameriere sgusciò dalla porta, spingendo un carrello con una torta illuminata di candeline.
«I signori intendono aspettare ancora?».
«No, la porti pure al tavolo» replicò scocciato, attendendo che sparisse dietro l’angolo prima di chiederle retoricamente «Dove eravamo rimasti?» e allungare la mano. Se l’avesse toccata di nuovo, l’avrebbe incatenata a sé per sempre.
«No. Dobbiamo uscire da questa situazione e, per riuscirci, dobbiamo stare lontani il più possibile, l’uno dall’altra».
Shinichi non rispose né lasciò trapelare i sintomi dell’abbandono che iniziarono a propagarglisi sotto la pelle. Ciò che gli sfuggì tra i denti sembrò tanto una supplica travestita da ordine.
«Allora vattene».

 
È passato un mese da quel giorno.
A volte sembra di più, a volte di meno, a volte rivedono la scena come se stesse accadendo in qualche angolo della loro testa.
La manomissione della percezione del tempo è il meraviglioso strumento con cui il cuore esplica i propri pensieri.


Shiho rientra a casa e posa una busta sul tavolo, estraendola dalla borsa. Dentro c’è la sua via di fuga.
Tra pochi giorni sarà in America e la linea dell’orizzonte le sembrerà l’ultima riga di un libro. Magari, di tanto in tanto, desidererà andare oltre, ma oltre c’è solo la copertina.
Sospira, si siede, attende. È come se fosse già in aeroporto, quando il momento dei saluti è già passato, quello di partire deve ancora arrivare e l’unica compagnia è un libro dalla trama scontata di cui ha già intuito il finale.
Din. Don. Qualcuno suona alla porta, rapendola dall'
anarchico flusso  dei suoi pensieri.
Probabilmente è il professore che si è dimenticato le chiavi. Non ha voglia di vedere nessuno, ma è costretta ad alzarsi mollemente dal divano, trascinarsi all’ingresso e accogliere il seccatore. Ecco, il cuore sobbalza.
Shinichi.
«Credevo fossi ancora in viaggio!».
«Lo credono tutti» risponde, indugiando sulla soglia. La guarda ed è…diverso.
I suoi occhi sono diversi, sembrano invecchiati in anticipo, infrangendo le leggi della natura.
«Che ci fai qui? Cosa….» vuoi? La sua voce instabile muore prima di concludere la domanda e forse è meglio così.
«Voglio parlare. Una volte per tutte. Non si risolvono i problemi ignorandoli o scavalcandoli».
«Credevo avessimo chiarito al ristorante» puntualizza nervosa, fissando l’alone sul pomello, prodotto della sua mano sudata.
«Già, il ristorante» esclama, la gola seccata da una rabbia delusa. «Se non fosse arrivato quel cameriere…».
Il silenzio si prende la fine di quella frase dall’eco così sibillino.
È agitato, lo conosce. Esplode solo quando ha accumulato tanti pensieri e tanti timori, quando il dolore per la perdita di una persona che ama diventa insopportabile.
Si fissano per un lunghissimo momento, pupille nelle pupille, e Shiho avverte tutto il peso delle sue debolezze. Sembrano avere consistenza alcolica, perché le regalano un fastidioso senso di vertigine. Scuote la testa.
«Ormai non importa. Io sto per partire e lasciarmi tutto alle spalle. Ti consiglio di fare lo stesso».
Basterebbe chiudere la porta, ora, e ricominciare la replica degli atteggiamenti distanti dell’ultimo periodo. Invece Shinichi non si arrende.
«Vuoi sapere qual è la verità sul tuo conto? Sei una fifona, non hai un briciolo di coraggio, neanche quello semplice e istintivo di riconoscere che a questo mondo ci s’innamora, che si deve appartenere a qualcuno, perché questa è la sola maniera di poter essere felici. Temi che qualcuno voglia rinchiuderti in una gabbia. E sai che ti dico? Che la gabbia te la sei già costruita con le tue mani ed è una gabbia dalla quale non uscirai, in qualunque parte del mondo tu cerchi di fuggire, perché non importa dove tu corra, finirai sempre per imbatterti in te stessa*», poi, senza fiato, aggiunge: «Akemi capirebbe».
Akemi che ha vissuto poco, ma intensamente. Che ha creduto fino alla fine in un amore già condannato. Sì, lei capirebbe. Ma gli altri?
Ran non merita questo. E i Kudo? La considerano come una seconda figlia; Agasa, poi, ha sempre raffigurato quella famiglia che non ha mai avuto, si è etichettato come punto di riferimento fondamentale nel suo mondo, neanche lui saprebbe sostenerla se…
«Io non posso» cerca di farlo ragionare invano, stremata dalle crisi di coscienza che si alternano a momenti di sano egoismo. «Pensa a…a lei. Hai ciò che hai sempre voluto. La nostra è solo un’alchimia passeggera, è un qualcosa che affascina solo perché proibito; ma ti assicuro che, col tempo, se evitiamo di…».
«Passeggera?» ride ironico. «Otto anni. Sono trascorsi otto anni e tu mi vieni a parlare di una cotta passeggera?».
È stanco, Shinichi. Però è voluto tornare da lei.
Si morde il labbro inferiore, tentenna. Ha un nodo in gola e trattiene a stento le lacrime.
«…tutto così complicato…» sussurra.
«Allora semplificalo!». Avanza e la stringe.
È una sensazione strana, insolita, avvolgente. Non sa come reagire. Dovrebbe?
Sapeva che affrontandosi sarebbero capitolati, perciò aveva sempre evitato un simile momento.
Si scioglie tra le sue braccia, nasconde il volto, si lascia stringere ancora. Più forte. E l'abbraccio, nato a senso unico, diviene ricambiato.
Improvvisamente le sfiora il mento e con delicatezza le fa ruotare la testa. È solo un’ombra quella che vede protendersi verso di sé. D’istinto chiude gli occhi e poi sente la bocca calda di Shinichi sopra la sua, le sue dita sulle guance, così leggere, che le accarezzano il viso e riafferrano i suoi timori imprigionandoli tutti lì, nello spazio che ora manca tra loro.
Quel bacio è la misura colma dell’attesa, delle parole e della loro conclamata inutilità.
«Perdonami. Io-».
«Ti prego. Stai zitta».
Chiude la porta con un calcio, non vuole lasciarla nemmeno un istante. Le afferra i fianchi, sollevandola e permettendole di incrociare le gambe attorno alla sua vita, mentre le labbra continuano a cercare un contatto per creare un respiro più grande, che soddisfi entrambi.
Ma i polmoni bruciano e sono costretti a separarsi con riluttanza.
Si guardano, tradendo le ferite degli anni difficili, appartenenti ormai al passato, e quelle più recenti di chi è travolto dagli eventi. Eppure non si sono mai sentiti tanto in salvo.
La scala è troppo distante, perciò arranca verso il divano, adagiandola tra i cuscini e Shiho lo costringe a seguirla, tenendolo avvinghiato, senza dargli modo di togliersi la giacca. E quindi un bacio e un altro e un altro ancora finché le labbra non raggiungono un’estasi abbastanza duratura da accettare l’abbandono. Shinichi scende al collo, all’incavo dei seni, al ventre.
C’è ancora uno strato di stoffa che gli impedisce di toccarsi davvero, ma il sangue ha cominciato ad agitarsi sotto la pelle, infiammandosi nei punti in cui la stringe, la pizzica, l’accarezza.
La piega del ginocchio è la prima a lasciarsi sedurre, poi il suo tocco, ansioso, si dedica alla gamba, alle anche.
All’orlo della canotta che scosta per scoprirle l’ombelico.
Se non vuole rimanere un mistero per se stessa deve accogliere le sue mani fin dentro al cuore, nonostante le colpe, nonostante i rimorsi. La manomissione dell’anima è il prezzo da pagare se si accetta l’amore.
Si scontrano nel mezzo, quelle mani e le sue, impegnate ad aprirgli la camicia. Quando, finalmente, gli sfiora l’addome bollente, Shiho sente sotto le unghie il contrarsi dei suoi muscoli. Scende ancora. Incontra il bordo dei suoi pantaloni, rigido e teso.
Il bottone affondato nel tessuto fatica a slacciarsi, ma alla fine cede, svelando l’elastico scuro dei boxer. Li abbassa un poco per insinuarvisi dentro.
Shinichi emette un verso arrocchito, la fronte corrugata per l’intensità del proprio desiderio. Fa quasi male provarlo tutto insieme.
La osserva. Ha la bocca dischiusa alla ricerca di quell’aria che il respiro, fermo in qualche risacca tra gola e polmoni, più non garantisce, finché le sue dita non s’intrufolano sotto l’intimo spingendolo fuori in un sussulto, di cui s’impossessa con prepotenza.
Non vuole più aspettare, Shiho.
Non c’è tempo per conoscere le parti dell’altro ancora mezze vestite né per vivere appieno l’anticamera del vero piacere, ma verrà.
Inarca la schiena, gli morde il mento, lo supplica con un movimento sinuoso quanto lento del bacino. E Shinichi l’accontenta.
Scivola dolcemente in lei, lasciandole il tempo di adattarsi alla sua presenza e di abituarsi lui stesso al caldo abbraccio delle sue carni.
Non riescono a stare fermi a lungo. Cominciano a muoversi, in sintonia, prima adagio e poi sempre più velocemente.
Insieme rincorrono tutti i «no» che gli hanno tenuti separati, scavando un baratro che ora cercano disperatamente di colmare. Ogni spinta diventa metafora di tutti gli schiaffi e di tutte le carezze che ha trattenuto e che avrebbe voluto dare a lei e a se stesso.
Dolceamaro è il piacere dell’amore, che può essere descritto solo dall’ossimoro, la figura retorica di coloro che sentono una cosa e fanno l’opposto, degli astri che si attraggono e respingono.
Shiho ansima, avrebbe accettato sia gli schiaffi sia le carezze perché sarebbero venuti da Shinichi.
Si aggrappa alle sue spalle, alla sua schiena, per non lasciarlo andare mai. Il suo corpo piange di gioia a questa rivelazione, si ricopre di uno strato di sudore, che gli permette di lenire lo sfregamento delle loro pelli e la fa rassomigliare ad una perla.
Nessuna perla è uguale all’altra; ognuna ha dei segni, delle imperfezioni, che la rendono unica.
E lei non è più stanca della sua unicità ora che ha trovato a chi donarla.
Continuano con urgenza e bisogno, dentro, più affondo, e fuori, senza allontanarsi troppo. Si perdono e si ritrovano e stavolta è tutto facile.
I sentimenti non sono mai complicati, sono le persone a renderli tali non accettandoli, reprimendoli, ammassandoli in qualche stanza del cuore.
Il cuore ha più stanze di un bordello, diceva, a ragione, un poeta*, il cui talento risiede proprio nell’accettare che l’amore accade come un dono. Ma, siccome nella vita di tutti i giorni i poeti sono pochi e i regali riciclabili, quelle stanze si trasformano in ripostigli, dove i sentimenti si sfrangiano e ingarbugliano, creando poi quel caos che spaventa tutti.
Shiho lo fissa, e sa che i suoi grovigli rimarranno sempre dove sono e che lui li ama e li amerà, senza la pretesa di scioglierli a tutti i costi.
Quando le loro bocche tornano a separarsi, Shinichi si ritrae, abbandonandosi finalmente a un sorriso che, per quanto affaticato, lei giudica bellissimo.
I respiri si annodano, gli sguardi si allacciano, carichi e seri, il ritmo si spezza in movimenti più dolci e fluidi.
Riesce appena a scorgere nel suo volto la scintilla del viaggiatore che finalmente ritorna e un attimo dopo lo sa, è lei la sua casa.
L’estasi li coglie così, piena di rivelazioni, in un abbraccio atteso otto anni.
«Lasciami venire con te».
È la richiesta che Shinichi mormora al suo seno; Shiho, però, non risponde, piange.
Le sue lacrime hanno un sapore nuovo, forse perché scorgano dalla stanza del cuore dove abita la felicità e lei non l’ha mai aperta prima.
Si sente stordita e troppo piccola per contenerla tutta.
«Lo considero un » scherza, le bacia la fronte, la stringe come se potesse circoscrivere la vita dentro un cerchio in cui proteggerla da ogni attacco e fallimento. E poi ride, mentre racconta dell’appartamento all’attico di un palazzo che sembra già aspettarli, con le finestre alte fino al soffitto e la vista da togliere il fiato. È così tipico di lui.
Shiho vede la luce che filtra nella crepa, ma Shinihci vede il sole da cui essa si sprigiona e, per quanto la sua natura la porti a tenere i piedi ben saldi a terra, le loro dita intrecciate la spingono a seguirlo in una contagiosa risata.
 
La vita diventa un’equazione elementare se la si semplifica con il più dell’amore.
 
 

Si recano a villa Kudo in ritardo, forse per ottenere subito l’attenzione dei presenti.
I padroni di casa non si sono certo risparmiati, tracciando i confini del vialetto con lanterne di carta, dallo stile marcatamente orientale, che emanano una luce giallastra e conferiscono all’atmosfera del giardino un non so che d’irreale. Lo percorrono in silenzio.
Adesso viene la parte difficile, la parte più dura, devono affrontare Ran e il professore, e valutano già l’esito delle loro rivelazioni.
La sorpresa e la cognizione della sua parte di responsabilità nel tradimento sconquasseranno Agasa nell’immediato, ma avrà comunque una parola gentile. Ran, invece, non supererà il fatto che con la complicità dei mesi, e nel frattempo si abbandonerà al più doloroso dei rancori.
Almeno questo è quello che accadrà secondo Shiho, le cui angosce sono nascoste al sicuro, dentro la mano di lui. Aumenta la stretta prima di scioglierla. Ora ha bisogno di tutto il suo autocontrollo.
Il portone è spalancato e all’entrata li attendono i coniugi Kudo. Sembra quasi che gli vogliano parlare.
Hanno una novità e i loro occhi brillano di un’allegria trattenuta.
Quei loro sguardi amorevoli la fanno sentire ancora, per l’ultima volta, in colpa. Ma capiranno: è l’imposizione della mente al cuore.
«Tesoro!». Yukiko si getta tra le braccia del figlio, raggiante. «Sono così felice! Certo, ho pianto come una fontana all’inizio, quando me l’ha-».
«Cara, non spetta a te dirglielo».
Qualcosa non quadra. Il loro arrivo simultaneo non ha destato alcun sospetto, alcuna curiosità.
Cerca lo sguardo di Shinichi per capire se anche lui abbia notato tale stranezza, ma è puntato sulle scale, che Ran, Eri e Kogoro stanno scendendo in quel preciso momento. Lei è sorpresa di ritrovare il suo fidanzato e lo bacia, facendo storcere il naso al padre, che non ha mai realmente accettato la loro relazione.
È una scena cui ha assistito parecchie volte e non ne è infastidita perché sa che adesso le spezzeranno il cuore.
«Shinichi». Il suo sorriso ha qualcosa di diverso, meno ingenuo, più consapevole. Shiho avverte un angosciante presentimento concentrarsi di nuovo sui palmi, ma non ci sono altre dita con cui condividerlo.
«Shinichi è successa una cosa, ti stavo per chiamare e invece sei tornato!», l’emozione a colorarle la voce.
«Si, ho finalmente terminato le indagini e ho bisogno di parlarti in privato. È urgente» replica, pacato.
«No, tutti lo sanno» spiega, arrossendo prima di compiere un gesto dall’inequivocabile significato, portandogli le mani verso il ventre.
«Aspetto un bambino».

Shiho li fissa e le sembra che il suo volto stia per staccarsi da un momento all’altro, tanto le pesa la maschera che impedisce di far vedere le proprie sconfitte. Incrocia gli occhi di Shinichi.
Sono spenti e accesi di qualcosa allo stesso tempo. È incapace di reagire, intontito dalla realtà dei fatti.
Avrà un figlio.
L’appartamento che li aspetta diventa all’improvviso troppo piccolo.
Avrà un figlio. Da Ran.
L’appartamento scompare.
Gli abbracci, le congratulazioni, le speranze che già attorniano la futura famiglia, invece, si moltiplicano. E consumano tutta l’aria della stanza. Quella felicità la soffoca.
Non perché non sappia contenerla, stavolta, ma perché la sta uccidendo.


«Un figlio cambia tutto. Il tuo posto è con loro, non con me».
«Potrei crescerlo anche stando con te».
«La lasceresti? No, non l’hai fatto finora e non lo farai adesso. E comunque non te lo permetterei. Mi è mancata troppo una vera famiglia unita per distruggere quella che tu stai costruendo».
«Non può essere finita».
«Non è mai iniziata, Shinichi. Guardala così. Io partirò dopodomani e non tornerò più».
«Io ti aspetterò comunque, sappilo».
Il vento disperde le parole di quella promessa e il suono dei suoi passi che si allontanano.
Sa che la manterrà o cercherà di farlo; poi diventerà padre e si perderà negli occhi di suo figlio, scavandovi dentro per trovare qualcosa di se stesso. Un figlio è sempre la sintesi di due persone, delle loro parti migliori, e magari Shinichi sarà capace di scorgervi il riflesso dell’amore custodito tra i banchi di scuola, quando spiava la sua migliore amica, anelandone i pensieri. E si rinnamorerà di lei, obbligando il suo cuore a dimenticare Shiho per evitare dolorosi paragoni, relegando quell’unica esperienza nella dimensione del sogno.
Sogni. L’America è la terra che può realizzarli tutti, ma Shiho si chiede cosa possa fare con quelli infranti.
Forse esiste una colla in grado di rimetterli insieme e riciclarli. Scuote la testa e chiude gli occhi per cancellare quell’idea così sciocca.
Quando li riapre, sono velati da lacrime che si riversano pigramente oltre i loro angoli e si mostrano solo al cielo.
In fondo, l’amore è un suo dono, perciò ha un obbligo piuttosto rilevante verso di lei.
Le stelle sembrano palesare tutto il vuoto che si portano dietro. Non c’è nulla lì che valga il suo pianto.
Dovevano essere Ran e Shinichi, erano sempre stati Ran e Shinichi.
È stato scritto così, questo libro scontato.
Ma, semmai le venisse voglia di riprenderlo, si concentrerà sullo spazio tra le righe, quello che non importa a nessuno perché solo le parole sono importanti. Quello sarà il loro spazio.
Lo spazio di Shiho e Shinichi.
Due grattacieli che hanno quasi afferrato il cielo.
 
 
 
 
 
(*) citazione tratta dal film Colazione da Tiffany
(*) citazione di Gabriel Garcia Marquez

 
 
 

 


 
 



 
  
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