Fanfic su artisti musicali > 30 Seconds to Mars
Ricorda la storia  |      
Autore: S_EntreLesLines    14/03/2015    2 recensioni
-Ti vorrei qui- aveva poggiato la testa sulle ginocchia soffocando un singhiozzo- ti vorrei qui per chiederti cosa devo fare-
Aveva atteso in silenzio, un silenzio che faceva male, una risposta. Un segno. Un qualcosa.
Niente.
Aveva messo dall’inizio la canzone ed aveva aspettato, pensando al nulla, fissando il vuoto, chiedendosi cosa diamine stesse aspettando.
Non è facile. Non lo sarà mai.
-Lo so, sarà sempre peggio. Ma ho bisogno di te-
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jared Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic

 
Era da due giorni che le veniva da vomitare, sentiva quella sensazione all’altezza dello sterno che le chiudeva l’epiglottide e le impediva di lasciare scendere l’aria nei polmoni: la opprimeva al punto tale da occluderle la trachea. Non riusciva a respirare. Non riusciva a liberare la mente intrisa di anidride carbonica, non riusciva ad ossigenare i pensieri, anche se apriva le finestre arieggiando la casa nella speranza che l’aria fresca ripulisse il catrame che la stava soffocando.

Soffocava.

Si sentiva come se avesse perso tutto: gli amici, la famiglia, la speranza, la vita, il sorriso. Se stessa.

Dov’era finita? Ma soprattutto: chi era?

Nessuna risposta: troppe volte se lo era chiesta negli ultimi mesi, conscia di voler ottenere una conferma, ma forse troppo impaurita di scoprire quale fosse e quale fosse il suo posto in questo mondo. C’è chi dice che quello che desideriamo per noi stessi non sia ciò di cui abbiamo bisogno. La sua paura era quella: e se non meritasse ciò che desiderava? Poteva almeno desiderarlo? Forse il solo fatto di farlo era un’ostentazione troppo grande, era un volare troppo in alto fino a perdere le ali. Dov’erano le sue ali? Com’erano? Forse non le aveva mai avute, forse il suo sogno più grande era proprio quello di spiccare il volo, e la consapevolezza di non avere ali o di non averne di troppo grandi abbastanza per volare lontano era ciò che più la spaventava.

Credi in te stessa, sii forte, non mollare, andrà tutto bene.

Quelle parole che si ripeteva e si sentiva ripetere come un mantra erano diventate inefficaci contro il peso che la opprimeva dall’interno, contro quelle cose che troppe volte aveva trattenuto dentro illudendosi che un respiro profondo l’avrebbe risollevata: ormai era diventata immune all’autoconvincimento. Era diventata immune ad ogni forma di sostegno autoinflitto e ad ogni tentativo di esternare come si sentisse. Il sollievo arrivava quando il dolore fisico diventava più forte del senso di soffocamento, quando per soffocare i singhiozzi e i conati di vomito affondava le unghie nella pelle fino a farsi male. Perché del male che sentiva dentro all’esterno non vi era alcuna traccia: lei stava bene.

Come stai?
-Bene-

Forse quei segni rossi sulle mani, così innocenti e casuali, sarebbero passati inosservati e non avrebbero attirato l’attenzione. Forse le cicatrici che nascondeva non le aveva davvero mai viste nessuno.

Forse un giorno sarebbero scomparse.

Perché chi sapeva le aveva dimenticate.

O forse non sarebbero mai sfumate abbastanza da lasciarle dimenticare il motivo per cui erano lì.

La soluzione era farsi male, fino a dimenticare come si sentisse e fino a soffrire per la pelle che bruciava: quei segni rossi, ancora freschi per i graffi che si procurava con le unghie, erano l’unica certezza della sua capacità di poter controllare quella situazione. Quel disagio. Quella condizione. Se stessa. Finchè avesse avuto la lucidità di affondare le unghie significava che aveva ancora il potere di rimettersi in piedi: era un controsenso, erano discorsi folli, ma lei capiva e preferiva farsi male in modo superficiale piuttosto che autodistruggersi affogando in qualcosa di effimero le proprie emozioni. Se c’erano, andavano vissute: nasconderle non avrebbe avuto alcun beneficio, simulare sorrisi ebbri l’avrebbe solo portata a perdersi e a confondere quello che aveva raccolto con pazienza di se stessa.
Anche se c’erano momenti in cui l’aria era talmente rarefatta che avrebbe voluto gridare così forte da farsi sanguinare la gola. Anche se odiava sentirsi annaspare, boccheggiando alla ricerca di aria. Anche se odiava scoppiare a piangere. Anche se odiava che gli altri sapessero. Anche se odiava che lei stessa sapesse. Così infilava le cuffie, alzava il volume al massimo e boccheggiava in silenzio: era come se le lacrime che le offuscavano la vista non fossero le sue. Era più facile sopportare quel cedimento. Era più facile nasconderlo. Era come se non ci fosse mai stato.
Ma lei non era debole, perché le sue cicatrici parlavano di chi era sopravvissuto alla guerra e ne era uscito vincitore: non era stata sconfitta, aveva scalpitato fino a farsi male per sentirsi viva. E se non lo fosse stata non avrebbe sofferto per quel peso allo sterno. Non avrebbe sentito il mal di testa ridondante per una mattinata trascorsa a versare litri di lacrime nascoste da una canzone a tutto volume. Lei era sopravvissuta, ma non aveva vissuto. Aveva sopravvissuto, non aveva mai vissuto. E il suo male era quello: lei voleva vivere e spiegare quelle ali forse troppo piccole o forse troppo grandi che non erano adatte a volare. Lei voleva imparare ad usarle per trovare quell’ossigeno che era sempre più rarefatto nei suoi polmoni. Lei voleva scrollarsi di dosso le definizioni che dava di se stessa, lei voleva iniziare ad essere quella che non aveva mai potuto essere perché troppe condizioni esterne glielo avevano impedito.

Era fattibile?

Era lecito desiderare di volare fino a toccare il cielo e potersi sentire viva per davvero, fino alla cellula più piccola del proprio corpo?

Lei voleva solo farcela, farcela fino a farsi male.

Vivere fino a farsi male.
Volare fino a farsi male.
Amare fino a farsi male.

Lei non sapeva amare. Non ne era capace. Amava nel modo sbagliato: dava troppo, dava così tanto da svuotarsi. Era arida, era incapace di accettare l’amore perché aveva paura.
Si lasciava amare, ma non ne coglieva i frutti.
Avrebbe voluto amare, ma non riusciva a farlo perché non amava se stessa.
Non amava se stessa perché aveva amato troppo e l’amore che aveva dato le era stato succhiato via in modo lento e logorante, seccandole il cuore. Lasciandole credere che non meritasse amore, e che lei non fosse abbastanza brava ad amare.

Si può essere bravi ad amare? Esiste un termine di paragone?

Non lo sapeva.

Sapeva solo che ogni forma di amore che avesse provato l’aveva resa più fragile, l’aveva ridotta ad essere una persona impaurita e chiusa in se stessa: perché per amore aveva giustificato troppe cose, per amore aveva preso in giro, per amore era diventata una persona che in realtà non era. Per amore si era persa.

-Ti vorrei qui- poggiò la testa sulle ginocchia soffocando un singhiozzo- ti vorrei qui per chiederti cosa devo fare-

Aveva atteso in silenzio, un silenzio che faceva male, una risposta. Un segno. Un qualcosa.

Niente.

Aveva messo dall’inizio la canzone ed aveva aspettato, pensando al nulla, fissando il vuoto, chiedendosi cosa diamine stesse aspettando.

Non è facile. Non lo sarà mai.

-Lo so, sarà sempre peggio. Ma ho bisogno di te-

Puoi farcela anche senza di me, lo sai.

Aveva tirato su col naso, annuendo. Lo sapeva. I suoi erano solo capricci.

Non sono capricci.

-Non l’ho detto-

Ma l’hai pensato.

-Vorrei solo un tuo abbraccio, vorrei che mi dicessi che ci sei e che non sono così sbagliata come penso di essere-

Silenzio.

E cos’è giusto?

-Tutto ciò che non sono io-

Questa cosa che hai detto non è giusta.

Silenzio.

Hey, smettila di soffrire per quella che sei e per quella che non sei. Tu sei capace di farti male per provare di esserci, per non accontentarti, per cogliere anche il soffio di vento più impercettibile che ti passi accanto. Smettila di farti male, smettila di farlo perché hai paura che siano gli altri a fartelo. Smettila di farlo perché hai paura che sia la vita a farlo. Smettila.

-Quando mi convinco che sarà bello, che ce la farò, quando credo nelle tue parole e rammendo i brandelli di speranza che tengo stropicciati dentro la borsa, poi succede qualcosa che mi fa sentire come se fossi sbeffeggiata ad averci creduto-

E allora? Quanta gente mi prende in giro per come mi vesto, per i miei capelli e per le mie sopracciglia…per il fatto che ballo come un demente? Tu per prima. Io me ne frego. Non sarà mai facile. Ma dovrai credere in te stessa fino a farti male.

Vorrei davvero che fossi qui.

Sono qui.

-Vorrei che ci fossi per davvero-

Fino a quando continuerai a crederci, io ci sarò. Fino a quando desidererai spiccare il volo, e quando salterai e toccherai il cielo. Io sarò qui.
-E dopo? Non voglio perdere anche questa cosa, questo poterti parlare quando ho più bisogno di te-

Non smettere di sognare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > 30 Seconds to Mars / Vai alla pagina dell'autore: S_EntreLesLines