Libri > Il Signore degli Anelli e altri
Segui la storia  |       
Autore: Silvar tales    14/03/2015    2 recensioni
Qui segue il racconto di Thranduil e Filigod.

Un piccolo tentativo di conciliare film e canone tolkieniano.
Genere: Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Cúranthaim








Il corno delle vedette suonò per tre volte tre suoni lunghi e melodiosi. I Silvani che dimoravano sui grandi faggi d'intorno alla Fortezza si sporsero dall'alto dei rami e allungarono il collo verso il basso, mentre alcuni scesero sulla strada. Un manipolo di soldati capitanati da Feren accorse alle Porte Blu, e per ultimo arrivò il Re, sprovvisto di corona e vestito con i colori della foresta, con spallacci di cuoio e scaglie verdi e oro di stoffa spessa. Due sottilissime trecce gli giravano attorno la testa per poi unirsi in una sola, sulla nuca. Sulle spalle portava un arco corto di nobilissima fattura, realizzato in legno scuro con incisioni dorate che correvano da un'estremità all'altra, e a giudicare dal suo aspetto intonso era stato usato rarissime volte, e mai in battaglia.
«Salute al Principe di Bosco Atro!» Gridò Lagorhen, la vedetta, che più di tutti vedeva lontano.
Dopo pochi attimi, un cavallo dal manto d'argento giunse al galoppo dal ramo settentrionale della Via, e dall'alto dei grandi faggi si levarono gioiose acclamazioni. La bestia fermò la sua corsa sul ponte di pietra, a pochi passi dal Re, e Legolas Verdefoglia ne scese con un veloce balzo.
Teneva alta la testa, e benché le sue vesti fossero provate da un viaggio non agevole, era vispo e fiero d'aspetto.
«Padre», lo salutò piegando la testa in segno di rispetto, ma nonostante si sforzasse di rimanere composto i suoi occhi brillavano di contentezza nel rivedere la sua Casa.
«Non appena ho saputo, mi sono affrettato verso le Porte. Legolas». Pronunciò il suo nome con orgoglio, e aprì le braccia come per accoglierlo una seconda volta alla vita.
«Padre», ripeté l'Elfo, di nuovo piegando la testa ma stavolta sfoggiando un ampio sorriso. «Ho forse interrotto qualcosa?» Domandò, notando le vesti per nulla eleganti che Thranduil indossava.
«Una memorabile battuta di caccia. Inseguivamo un cinghiale maschio grosso due volte un lupo, stavamo quasi per braccarlo quando sfortunatamente giunse l'araldo ad interromperci con la lieta notizia» disse, sorridendo di sbieco, e Legolas rise.
«Un vero peccato, avrei volentieri mangiato una fetta di quel cinghiale per cena».
«Se è questo che desideri, sarai accontentato! Le nostre cantine sono ricolme di ogni bene, e di carne di cinghiale ne abbiamo in abbondanza. Vieni, le Porte della Fortezza paiono spalancarsi di propria volontà al tuo passaggio. Da troppo tempo il loro Principe più non le varca».

Nelle sue stanze, le più arieggiate della Fortezza, Legolas trovò ristoro in un bagno caldo, e in una prima colazione ricca e abbondante servita a fianco di un braciere, dai cui mozziconi rossi e neri si gonfiavano e si diffondevano nell'ambiente i profumi agrodolci della foresta: profumo di pino, di resina, di muschio, e ancora di funghi e frutti di bosco. Ad aspettarlo sul letto vi erano piegate delle belle vesti da poco sfilatesi dalle svelte mani delle tessitrici elfiche. Non erano di eccessivo pregio, ma erano comunque comode e nobiliari al tempo stesso.
In quel mentre che Legolas ebbe finito di rifocillarsi, ed era indaffarato ad acconciare i capelli com'era sua maniera, il Re in persona bussò alla sua porta, ed entrò prima di ricevere permesso. Aveva dismesso gli abiti da caccia, e la corona era tornata a pesare sul suo capo.
«Tenti di viziarmi, padre».
«Non dire sciocchezze, sei appena tornato. Dammene il tempo», rispose prontamente Thranduil, con un sorriso ironico sulle labbra.
«Quando sarò là fuori, nelle contrade selvagge, miglia e miglia distante dall'ultimo focolare accogliente, non avrò pronta acqua calda per lavare via lo sporco del viaggio, e non troverò queste leccornie ad aspettarmi per colazione».
«Ma ora sei qui, e questa è la tua casa. Dimmi, intendi forse ripartire subito?»
«No, padre. Intendo ripartire, sì, ma non subito!»
«Lascia, continuo io», disse Thranduil, e venutogli appresso si mise a concludere le trecce che Legolas aveva iniziato da solo. Un grande peso era volato via dal suo cuore: erano sessant'anni e poco più che non vedeva suo figlio, non era pronto a dirgli di nuovo addio dopo pochi giorni.
«Non hai forse già affrontato i disagi che dici, in questi anni?»
«Talvolta sì, talvolta no. Talune volte sono stato ospite di Alti Signori, il più delle volte trovavo appoggio e ristoro presso la Casa di Elrond Mezzelfo».
«Dunque il mio nome apre ancora molte porte, lieto a saperlo. Mi è stato detto. Mi è stato anche detto che, in questi ultimi anni, ti eri affiliato a uno Stregone».
«A uno Stregone, e al più nobile dei Raminghi Dúnedain».
«Dunque l'hai conosciuto, Aragorn? E questo Stregone di cui parli, non è forse Mithrandir?»
«E chi altri potrebbe essere? Ma ora basta domande, ti prego. Ti dirò tutto per filo e per segno, stasera. Ora ho un gran bisogno di dormire».
Thranduil decise allora di non insistere, sebbene rare volte avesse visto Legolas provato dalla stanchezza; poteva solo immaginare quante notti insonni dovessero gravare sulle sue spalle, per averlo ridotto in una spossatezza tale da impedirgli di conversare. Gli annodò la treccia all'estremità, perché non si sbrogliasse, poi si congedò.
«Come vuoi. Ma stasera mi aspetto che sarai tu a venire da me, e non il contrario», disse, con tono ora più severo e meno dolce.
Legolas non fece null'altro che piegare il capo.

La sera, il Principe di Bosco Atro si presentò a cena puntuale. Alla lunga tavola vi sedevano il Re a capo, poi i suoi maggiori confidenti, tra cui Feren, Suilannen, e altri importanti veterani di guerra.
Ma tra loro Legolas notò una fanciulla che mai aveva visto, dai gonfi capelli castani, finissima e sottile di collo e di profilo, e con la timidezza radicata negli occhi grigi.
«Non ti ho mai incontrata prima d'oggi», le si rivolse Legolas, pensando che fosse inopportuno, da parte di un principe, ignorare chi sedesse al proprio desco. La giovane subito si imporporì sulle guance e aprì la bocca ma, prima che potesse dire alcunché, Thranduil la precedette. Poggiò le posate e, preso un gran sospiro, disse, tenendo gli occhi fissi sul proprio piatto: «Legolas, è Lomewen, figlia di Lendêr, il tale che le siede affianco. Almeno ti ricorderai di lui, e di tutte le volte che ha provato a insegnarti come estrarre il veleno dalle zanne dei ragni. O devo supporre che durante le tue impegnate peregrinazioni tu abbia anche preso un brutto colpo in testa? Suvvia non iniziare a farmi fare brutte figure».
I commensali risero di buon gusto, tranne Lendêr che era diventato di ghiaccio, e sempre si comportava a quel modo quando si discuteva della figlia, in qualunque modo se ne discutesse.
Legolas ammutolì; ricordava che, da bambino, temeva più i rimproveri di Lendêr che quelli del padre. Lendêr aveva grande conoscenza delle piante e delle erbe buone e cattive, e nessuno più di lui aveva dimestichezza con i ragni che infestavano Bosco Atro, dunque il suo sapere era prezioso, ma ciononostante il suo carattere era pessimo, e non esisteva precettore che fosse più severo e meno paziente.
La giovane chiamata Lomewen si affrettò a dire, con un gran sorriso: «non hai alcuna colpa, ero solo una bambina quando lasciasti il Reame. È naturale che non ti ricordi di me». Il suo candore la palesava per ciò che era: una giovanissima Eldar con qualche goccia di sangue Sindar nelle vene, tuttavia inesperta del mondo, e da poco aveva aperto gli occhi su di esso, e mai era uscita dai confini di Bosco Atro. La malignità del mondo di fuori non aveva ancora adombrato la sua mente, per lei esistevano solo gli splendori della fortezza di Re Thranduil.
Legolas le sorrise cortese, poi andò a sedersi a fianco del padre e più non le parlò.
Durante il banchetto si prese a discutere animatamente di cose futili e serissime al contempo: chi discorreva della cattiva annata del vino, chi dell'aggravarsi della malattia che ammorbava la foresta, un male che sembrava essere stato debellato sessanta anni prima ma che ora era ricomparso a Dol Guldur, un'Ombra che pareva di gran lunga più tenace ed infestante di quella precedente. E ancora ci si dilettava con i racconti delle ultime battute di caccia, e con i resoconti di come gli ultimi bimbi nati imparassero ad usare l'arco e le frecce con celerità, e al contempo si mormorava il nome di Sauron e del ritorno dei Tempi Oscuri.

Finito che ebbero di cenare, Thranduil prese il figlio in disparte e lo invitò a passeggiare.
Uscirono nella foresta e presero a raccontarsi ciò che avevano di nuovo da dire, in quegli anni in cui erano stati lontani. Thranduil invero aveva ben poco da raccontare: chiuso nella sua fortezza, il mondo era rimasto pressappoco uguale, e sessant'anni davvero erano un nulla perché qualcosa, nel suo Regno, potesse cambiare alle radici.
Legolas gli raccontò dei suoi viaggi, di come aveva visto gli Orchi brulicare come formiche per gli Ered Mithrin e per le contrade di Rhûn, più svelti, più temerari e più disciplinati, ora che il loro Signore aveva fatto ritorno e tutti i loro generali non erano più canaglie slegate che agivano e razziavano per loro conto, ma ora essi rispondevano primariamente a Sauron, colui che era il loro padrone e creatore. E molte altre cose gli disse, assai poche liete e per la maggior parte infauste. Gli narrò di Gollum, una strisciante creatura maligna corrotta dall'Unico, e di come avesse passato gli ultimi otto anni a tentare di braccarla, assieme al fiuto del Ramingo e alla saggezza dello Stregone.
Thranduil non disse nulla a riguardo, forse perché questo Gollum gli pareva una faccenda di assai minore importanza rispetto al resto. Ciò che ingombrava la sua mente era il ritorno del Maligno, la ricostruzione della Torre Nera, e gli Orchi che là nel suo ventre venivano incubati.
Il Re si fermò su un balcone roccioso, e volse lo sguardo a Est. Da quella posizione elevata dominava una buona porzione di Foresta, tuttavia non riusciva a scorgerne la fine, e nemmeno vedeva il profilo della Montagna Solitaria, poiché ad Oriente, oltre il mare di abeti scuri, il cielo cambiava colore e volgeva al grigio. Era in arrivo il brutto tempo, e forse le nuvole avrebbero recato con sé le prime nevischiate autunnali.
«Questa che ci circonda è un'Ombra indelebile oramai. Io combattei sulle Piane di Gorgoroth, e a costo di molte vite vidi infine Sauron soccombere. Non molto tempo dopo eccolo annidarsi in Amon Lanc, e infettare la mia Foresta. Come tu sai i Saggi posero rimedio alla cosa, scacciando ancora una volta il Maligno, o così mi dissero, che Sauron si era rintanato in un anfratto remoto, ripudiato dagli Stregoni, ed era debole come un singhiozzo e spaventato sin dalla sua stessa ombra.
Ed ora, eccolo che rinasce nella sua antica dimora di ferro e fango. Non vi è alcun rimedio possibile contro di esso. Non è qualcosa che si possa combattere e sconfiggere. A tal punto si è radicato nel nostro mondo, che oramai ne è connaturato. Esso è tutto ciò che è di male al mondo. Riusciresti forse a togliere il male dal cuore degli Uomini? O riusciresti forse a far sì che la pioggia non muti in neve, l'inverno?» Le parole del Re erano meste, e prive di speranza, e laddove la speranza aveva lasciato un vuoto la rassegnazione, la sfiducia e la diffidenza erano andate a colmarlo.
«No, non vi riuscirei», rispose prontamente Legolas, «ma riuscirei ad accendere un fuoco, a trovare un riparo o a cucire una veste con le pelli degli animali. Noi dobbiamo combattere il male così come di consueto combattiamo il gelo. Forse non possiamo debellarlo, ma possiamo e dobbiamo difenderci da esso, se vogliamo sopravvivere».
Thranduil rimase un poco in silenzio, poi scese dallo sperone e riprese a calcare il sentiero, con Legolas al suo fianco. Le foglie secche scricchiolavano sotto i loro piedi.
«Sei diventato saggio, Legolas. Ma sono l'entusiasmo e la speranza della tua giovinezza a dettarti in cuore tali pensieri. Prego che tu possa averne ancora, di speranza, per i tempi che verranno. Ma prego anche che essa non ti porti alla rovina».



*





L'autunno era una stagione molto amata dai Silvani, e non era un caso che proprio nella stagione delle vendemmie vi fossero più feste che in un anno intero. Le cantine si riempivano di cibo e di vini, e in vista dell'inverno venivano cumulate generose provviste di ogni sorta: castagne e funghi essiccati, marmellate di ogni tipo, miele e frutti di bosco secchi, farine, carne e pesce affumicati, burri e formaggi, e molte altre delizie provenienti dalla foresta stessa, da Esgaroth o addirittura dai Regni del Sud.
Per festeggiare il ritorno del Principe, il Re aveva ordinato una festa più grande del solito: vi erano più pietanze, più suonatori, e più tavoli che ospitassero più persone. La musica fluiva dolce e abbondante tra i commensali, così come il vino. I tavoli erano disposti in modo da formare un enorme rettangolo, e al centro vi erano i musicanti, ed essi si destreggiavano con arpe, liuti, flauti e sonagli, e le loro melodie parevano provenire dalle stelle tant'erano chiare e armoniose.
Thranduil sedeva a un capo della Sala, sul seggio più elevato, e suo figlio Legolas sedeva al capo opposto. Entrambi indossavano splendidi abiti, preziose stoffe d'argento ricamate con foglie rosse e dorate. Thranduil portava sulla testa la grande corona di foglie e bacche rosse, mentre un sottile diadema bianco cingeva il capo di Legolas.
Quella sera i pensieri e i discorsi furono lieti soltanto, e non si fece parola di Sauron nemmeno per prenderlo in burla. Eppure, benché il Re dei Silvani apparisse felice e partecipe della gaiezza generale, in verità era distante, e i suoi pensieri erano cupi.
Il calice riserbato alle prelibatezze del Dorwinion era piccolo, ma sempre vuoto. Thranduil si accorse di aver esagerato con il vino solo quando il servitore dovette andare a riempire nuovamente la caraffa, e nemmeno si era a metà della cena.
«Vostro figlio sembra più radioso che mai, mio Re», disse Feren, mentre si deliziava con un buon fagiano all'aceto.
«Radioso, sì, lo sembra. Pronto ad ereditare il peso della mia corona intendi».
«Non lo intendo, anzi mi auguro tu possa regnare ancora a lungo su Bosco Atro, almeno fin quando esso non tornerà a chiamarsi Boscoverde il Grande».
Thranduil si accigliò e abbassò gli occhi sul proprio piatto, pieno di pensieri.
«Invero mio buon Feren, io ti dico che Legolas non intende ereditare la mia corona, non intende ereditare proprio nulla del mio Regno. Non ne ha mai fatto parola, ma io l'ho compreso da tempo».
Legolas era rimasto seduto per tutta la cena al fianco di una giovane dai lunghi capelli dorati, una ragazza che Thranduil mai aveva visto prima, ma che Legolas sembrava conoscere. I due avevano riso e parlato per tutto il banchetto, con le guance arrossate dal calore dei focolari e con un soave e spiritoso motivo ad accompagnare i loro discorsi. A un certo punto, lei gli aveva detto qualcosa all'orecchio, poi con fare lezioso era corsa via. Legolas era scoppiato a ridere e subito le era corso dietro, e con tale foga si era alzato da tavola che la sua sedia si era rovesciata.
Thranduil lo guardò andarsene con un sentimento di malinconia che gli pesava sul cuore, del quale non riusciva a capacitarsi.
«Dimmi Feren, conosci quella ragazza? La giovane che è uscita or ora con mio figlio».
«Se non vado errando dovrebbe chiamarsi Amren, ed è figlia di Calener il Cacciatore».
«Se dovessero innamorarsi, o avere un figlio, dimmi sarebbe una buona compagna per Legolas?»
«Vi è sangue Sindar nelle sue vene, se è questo che vi state chiedendo mio Re».
«No, non è questo che mi chiedevo», rispose il Re, e tuttavia non disse altro, e si concentrò a finire il proprio fagiano.
Quand'ebbe pulito il piatto, colto da noia prese a vagare con lo sguardo per la sala e per i tavoli, e i suoi occhi caddero su Lomewen, e anch'ella aveva riso e scherzato per tutta la serata, come si confaceva alla sua gioventù. Pensò che era bella, assoluta da pensieri malvagi viveva in un mondo fatto di sola luce, come un bambino che ancora non conosce nulla all'infuori dei suoi giochi di fantasia. Ed ella era giocosa, con il riso sempre sulle labbra, e l'ingenuità a colorarle le gote di rosso.
«Principe Legolas non ha raccontato quasi nulla dei suoi viaggi. Spero almeno l'abbia fatto con voi». Feren ruppe di nuovo il silenzio, e d'altro canto a Thranduil non dispiacque assecondare almeno per un altro po' la sua insaziabile voglia di chiacchiere.
«È pieno di segreti, il ragazzo. Noi padri crediamo che i nostri figli ci raccontino filo per segno tutto ciò che accade loro, quando in realtà nessun figlio, nemmeno il più devoto e amorevole, lo fa».
«Ma quando si trovano nei guai lo fanno».
«Solo perché vi sono costretti».
Thranduil riempì nuovamente la sua coppa, e mentre beveva prese a giocherellare con la forchetta, rigirandosela tra le dita della mano destra; ma questa gli cadde a terra, e finì sotto il tavolo. Subito Feren, mosso da cortesia, si chinò e fece per raccoglierla, ma Thranduil lo fermò.
«Non è necessario, ho finito di mangiare».
«Ma... Mancano ancora due portate!»
«E sono certo che le gusterai a fondo», ribatté bruscamente il Re, e senza aggiungere altro si alzò da tavola e si congedò dalla chiassosa sala del banchetto, lasciando l'ampio mantello abbandonato sullo scranno.

La Sala delle feste era stata scavata in una delle parti più alte delle Gallerie, dove molti condotti sbucavano all'esterno e l'aria non era così pesante come nei sotterranei. I corridoi non erano aperti e sospesi come quelli che traversavano i livelli inferiori, ma stretti e rettangolari, chiusi di sopra e di fianco e sempre illuminati da bellissime luci che brillavano racchiuse in crisalidi di vetro. Ogni tanto i muri erano interrotti da angusti pulpiti di pietra che si sporgevano su Bosco Atro, e questi talvolta venivano utilizzati dai giovani Elfi che volevano scambiarsi intime parole di amore e di affetto, lontano dalle orecchie dei festaioli.
Così Thranduil andava percorrendo uno di questi corridoi, desideroso di rifugiarsi nella quiete imperitura delle Cúranthaim, quando senza preavviso vide la giovane Lomewen venirgli incontro, che leggiadra e radiosa pareva impaziente di tornare ad occupare il proprio posto al tavolo della festa.
Non appena lo vide, la ragazza ritirò il sorriso dalle labbra e chinò le testa, seriosa. «Sire Thranduil», lo salutò con soggezione, senza guardarlo negli occhi. Le sue guance erano diventate rosse.
Fece per passare oltre, ma Thranduil la prese per un braccio e le impedì di andarsene. «Aspetta, Lomewen».
Con forza le prese il viso tra le mani e la baciò; la sua bocca e le sue guance erano bollenti come braci. Dalla gola della giovane sfuggì un singhiozzo di sorpresa. Il Re la spinse in un angolo buio, in un'appendice del corridoio che non portava da nessuna parte, e pertanto non era illuminata, né vi passava alcuno. La cinse per la vita e, con l'aiuto della debole luce che penetrava dal camminamento principale, la guardò negli occhi, perché se vi avesse trovato paura o disgusto l'avrebbe lasciata in pace, ma vi trovò solo un pallore di insicurezza, e sulle sue belle labbra un piccolo sorriso.
E allora di nuovo la baciò, si slacciò le vesti del minimo necessario e le alzò la gonna sino alla vita, scoprendo le sue cosce calde e morbide. La condusse ancora più nel profondo del vicolo cieco, ove il buio quasi copriva ogni cosa, e lì la possedette.



*





Nelle Sale della Luna vi era quiete sempiterna.
Anche se il mondo di fuori si fosse sgretolato, lì, nelle Aule di Cúran, non sarebbe giunto neppure l'odore delle ceneri.
Due mesi erano ormai trascorsi da quando Legolas aveva fatto ritorno al Reame, e ancora egli non aveva fatto visita a quello che, nella sua fanciullezza, era stato il luogo da lui più amato, un luogo dove le storie che il padre gli raccontava divenivano reali.
Quella notte vi fece ritorno, e trovò ogni cosa immutata, uguale in ogni ruga dei tronchi e in ogni balzo dei ruscelli a come l'aveva lasciata sessant'anni addietro: laggiù, il tempo non pareva essere trascorso. Carezzò la corteccia rossa di un abete come fosse un suo vecchio amico, e prese a intonare le parole di una vecchia filastrocca. Parlava dell'arrivo dell'autunno e delle lontane arene ghiacciate oltre Forlindon e oltre Forodwaith, là dove pochissime genti osavano avventurarsi. Tra queste, vi fu Rinwe dei Ghiacci, un antico Sindar che...


Quando il vento da Nord spirava,
E l'autunno rosse faceva le foglie,
Rinwe dei Ghiacci a Nord andava,
E del Lindon lasciava le soglie.

A Nord andava e trovava altre doglie,
Che il viaggio era lungo e poco sicuro,
Ma là ritornava tutte le volte,
Là dove il sole per mesi era scuro.

Quando l'inverno giunse maturo,
Nessuno nel Lindon lo vide tornare,
Pensaron' si fosse perduto nel nero,
E più nessuno osò domandare.

Ma i propri occhi aveva perduto,
Rinwe soltanto nell'ammirare,
Nel cielo freddo di stelle intessuto,
I colori dell'Aurora Boreale.




«Era una vecchia storia. Te la raccontai così come la ricordavo, quando mia madre a sua volta la cantava a me. Ma temo di non aver riportato fedelmente ogni sua parola».
Legolas sobbalzò: non si era accorto che suo padre era entrato nelle Sale, e tuttavia egli sapeva essere silenzioso come una lince nel passo.
«Padre, non mi ero accorto… perdonami», gli si rivolse Legolas con rispetto, per poi ribattere audace: «che sia vecchia o infedele non importa, poiché parla di luoghi remoti rimane una bella storia».
Re Thranduil alzò lo sguardo nel cielo, dove la luna brillava tonda e libera da foschie; ed essa brillava anche giù, in basso, nell'acqua limpida di fonte. Un tenue spirito di vento si intrufolava dalle aperture sul soffitto, per poi incanalarsi nel Passaggio di Nimrynd, delle Grotte Bianche. Seppur non spirasse forte, era vento d'inverno che soffiava da Nord, da oltre i picchi degli Ered Mithrin, e pertanto recava con sé un freddo tenace.
«Queste Sale sono ciò che rimane nella mia mente delle Foreste che furono ad Ovest, e se vi entri in silenzio e con il cuore aperto riportano alla mente luoghi remoti, luoghi che per disgrazia o per fortuna tu non ebbi modo di conoscere. E forse questo è un bene, perché ora non li puoi rimpiangere».
«Sbagli. Avrei voluto condividere con te i radiosi ricordi delle terre d'occidente, le stesse che vivono nelle parole di tanti racconti sempiterni».
Legolas fece qualche passo nella radura, ascoltando il fruscio e lo scricchiolio degli abeti che dondolavano al vento, e il sommesso gorgogliare dei ruscelli, come se in quei suoni volesse distinguervi delle voci.
«È in questo luogo che sei stato concepito», disse d'improvviso Thranduil, e subito Legolas si volse a guardarlo, serio in volto. Thranduil rifuggì il suo sguardo e si sedette su una panca di pietra grigia, sotto le ampie braccia di un larice, con una mano invitando Legolas a fare lo stesso. I suoi piedi quasi erano lambiti dalle acque dello stagno, che placide si tendevano fino a solleticare le radici del grande albero.
«Padre», cominciò Legolas, sedendosi al suo fianco, «so che ti reca molto dolore parlare di lei, ma non immagini quanto ne ha recato a me, in tutti questi anni, il restarne all'oscuro. Parlamene, ti prego, e per te sarà solo un momento, per me invece i giorni da qui in avanti saranno un poco più sereni».
Il vento si fece più forte, e il Passaggio di Nimrynd prese ad ululare.
Thranduil abbassò lo sguardo a terra, e i capelli caddero a nascondergli il viso. E questo fu un bene, perché Legolas non riuscì a vedere le lacrime che lo solcavano. Ma dopo alcuni minuti tornò padrone di sé, alzò il capo e sul suo volto non vi era più traccia di lacrime, ma al loro posto vi erano forza e consapevolezza.
Raccontò a Legolas ogni cosa, cosa accadde filo e per segno in quei tre nefasti giorni; gli narrò dei sensi di colpa che da allora lo tormentavano, e ancora si diede la colpa più volte, quasi invocando il perdono del figlio, perché, disse, se non avesse avuto così tanta paura di perdere Filigod, ella sarebbe ancora in vita. Perché, disse, era ingiusto ch'egli avesse trascorso due Ere in sua compagnia, e Legolas nemmeno un anno. Perché, ancora disse, gli aveva negato una sorella o un fratello, oltre che una madre.
«Ti prego, ora basta», invocò Legolas piangendo, «più non attribuirti colpe che non hai! Se le cose furono come dici, mia madre andò incontro al suo destino, e lo fece per proteggere le cose che amava. Non esiste un modo migliore per andare incontro alla fine. Qualunque cosa tu avessi fatto non avresti potuto cambiare gli avvenimenti del mondo. È folle e arrogante anche solo pensarlo!»

Infine, anche i singulti di Legolas si azzittirono. Il Principe prese un profondo respiro, e volse lo sguardo verso l'alto, verso la volta del cielo invernale, lasciando che il vento gli tagliasse le guance pallide.
Dopo un lungo periodo di silenzio, Thranduil ad un tratto gli venne più appresso, chiudendo le loro figure in un semicerchio. Ora, un ampio sorriso attraversava il suo bel volto.
«Su, asciuga quelle lacrime. Mi sovvengono alla mente cose ormai passate, ma sempre liete da rimembrare. Devi sapere che mio padre, all'inizio, tentava di preservarci. Quando gli presentai tua madre, sui monti del Lindon, lui ci alloggiò in appartamenti distinti, l'uno posto di fronte all'altro, e benché non fossero distanti a volo d'uccello in mezzo ad essi vi era una profonda valle. Puoi immaginarti quale tormento, vederla ogni mattina e ogni notte dalla mia finestra, alzarsi, pettinarsi, lavarsi, ridere e scherzare con i giovani Elfi che vivevano là con lei, senza poterla toccare. Ci era concesso solo un giardino, un angusto seppur incantevole spazio verde, dove potevamo passeggiare assieme una o due volte al giorno. Ora non ti dico le cose che accadevano, in quel giardino.
Mio padre continuava a rimandare le mie nozze, e noi due continuavamo a desiderare con tutte le nostre forze un letto che appartenesse a entrambi. Eravamo stanchi di fare tutto di nascosto, eravamo stanchi di stare assieme sull'erba o tra i rami degli alberi, eravamo stanchi di dire menzogne e architettare sotterfugi, benché tutto ciò ci donasse un certo brivido.
Quello che nessuno di noi due capiva, era che mio padre voleva semplicemente insegnarci un po' di pazienza. Sapeva che né io né Filigod avevamo saputo aspettare, ma non ci biasimava né ci disprezzava per questo, solamente cercava di farci capire che di pazienza e di ponderatezza un Re non dispone mai a sufficienza.
Pochi anni dopo celebrò le nostre nozze, e credimi se ti dico che nessuno, quel giorno, fu più felice di lui».
Thranduil terminò così il suo piccolo racconto, e guardò il figlio con benevolenza, sorridendo indulgente nel vedere le guance un poco arrossate di Legolas, segno che alcune allusioni erano state colte.
«Ebbene, si direbbe che io sia nato troppo tardi. Come avrei voluto conoscere tutti quanti, tuo padre, mia madre. Ma non importa, li sento vivere nelle tue parole, e ciò mi basta. Grazie, padre».
«Sono io a dirti grazie, perché ora so che lei continua a vivere in te, figlio mio. Ero triste, ma ora non lo sono più, perché mi rendo conto che siamo sempre stati in tre».








Il Ritorno del Principe

   
 
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Il Signore degli Anelli e altri / Vai alla pagina dell'autore: Silvar tales