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Autore: Doomsday_    15/03/2015    3 recensioni
Quando i Selvaggi iniziarono ad invadere i Regni, il mondo fino ad allora conosciuto cadde nel terrore.
Solo un guerriero ha il potere di fermare questa imminente distruzione. Caligola ha una missione: trovare la gemma perduta di Magnusarula; e niente e nessuno riuscirà a fermare il suo viaggio.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La gemma perduta di Magnusarula







Dicono che quando l’anima di una persona si ammala, non vi è medicina esistente al mondo in grado di curarla. Dicono che ci si spegne, lentamente, molto lentamente. Ogni giorno si perde una piccola parte, fino a divenire estranei a sé stessi. 
- Siete malato? - gli chiese, l’ultimo giorno che lo vide. 
- Solo nello spirito - fu la sua risposta. Le parole non intaccarono quel sorriso pacifico, sempre esposto a rasserenare il suo volto. 
Ancora non poteva capire cosa intendesse, né cosa significassero quelle parole. Era un uomo melodrammatico, teatrale; lo era sempre stato e lui ne era troppo abituato perché quella frase, detta quasi con leggerezza, potesse preoccuparlo. 
Ora però Caligola capiva. Anche la sua anima era malata, ma quel che di lui c’era da strappare via, la vita aveva già preso. Non aveva più pezzi di sé da perdere, solo la vita gli restava. Ed era l’unica cosa che lui non voleva più avere. 
Per questo si trovava lì, sulla cima del monte più alto di quel regno caduto, su quello strapiombo che si affacciava sull’oceano Dormiente. 
Guardò giù e vide l’acqua livida abbattersi con violenza sugli scogli, aguzzi come fauci pronte ad inghiottirlo. 
Caligola si sfiorò il braccio sinistro, su cui per anni aveva portato il marchio di Sirio; le dita seguirono la cicatrice cava lasciata dal bulbo oculare cicatrizzato sul bicipite, come a voler accarezzare un ultimo ricordo di ciò che era stato. 
Poi si gettò, prima che il dolore per tutto ciò che aveva perduto lo portasse alla follia. E tutti dimenticarono il nome di Caligola, la belva di Re Sirio. Dimenticarono la sua forza, la sua bellezza, poiché nessuno sopravvisse quando il grande fuoco si accese. 
Tutti morirono, senza sapere né come e né perché. Un segreto terribile, una verità così abominevole che Re Sirio preferì la morte pur di non convivere con un simile peso. 
E Caligola aveva deciso di fare la stessa scelta: ciò che solo loro due sapevano, sarebbe morto con loro. 
Ebbe inizio con la venuta dei Selvaggi, dalle terre remote. Terre senza nome, in cui nessuno si avventurava, sconosciute e spaventose come lo era il fiore di una donna per un vergine. 
Sembravano cavallette che invadevano campi: erano intere legioni, distruggevano tutto ciò che incontravano nel loro cammino, stupravano, uccidevano, e non facevano mai prigionieri. 
I regni stavano cadendo come tessere del domino, uno dietro l’altro, troppo in fretta per firmare alleanze, unire eserciti contro il grande nemico comune. Troppo tardi giungevano i messaggeri di morte. 
I regni del nord agonizzavano sotto il pugno distruttivo delle animalesche legioni dei Selvaggi, mentre nei regni del sud si continuava a respirare un’ignara pace prossima a crollare. 
In quegli anni Caligola era il fiero e coraggioso comandante delle armate di Re Sirio. Un guerriero potente, protetto da incantesimi antichi e indistruttibili, quanto lo era il suo padrone. 
Sirio lo aveva creato, così il Re amava ricordargli. Gli aveva dato la forza, il potere di rovesciare regni ed eserciti: gli aveva donato il suo Marchio. 
Prima ancora che fosse Re, prima ancora che il continente si dividesse in regni e che sorgessero castelli e, intorno ad essi, si costruissero città, Sirio era la stella che nei Monti Elieri brillava fulgida: figlio della Dea dei Morti e di uno spirito di un uomo che da ella fu intrappolato. Crebbe nel ventre dei Monti, dove gli Inferi ribollivano e le anime gridavano, e lì rimase per secoli ammirando, dalla vetta più alta di quei Monti Elieri, il mondo cambiare assieme agli esseri che lo abitavano. Vide le battaglie, la sete di potere, uomini piegati sotto il giogo dei potenti, e tutto ciò gli piacque. 
Allora giunse il giorno in cui scese da quegli antichi Monti fatti di morte, e si impose nel mondo degli uomini, dando alla luce il più grande impero su cui quegli occhi mortali ebbero mai posato lo sguardo. 
E regnò, come un Dio, conquistando ogni singola parte di quel suo grande potere, finché le guerre e le stragi di sangue non gli vennero a noia e si preoccupò invece di far fiorire quel che già possedeva, lasciando i nemici tremare nell’attesa che si risvegliasse in Sirio la sete di sangue. 
- Non c’è gusto nel sottomettere ogni cosa. Avere dei nemici potenti ti rende vigile. Il desiderio di ciò che non hai ti mantiene vivo - aveva detto, in una delle tante notti che Caligola trascorse nelle stanze del Re. 
Forse quelle notti furono le uniche spettatrici ignare di quell'umanità che Sirio nascondeva sotto le coperte del letto condiviso con il suo guerriero.
Era lui l'unico a cui l'aveva mostrata. Era sempre stato l'unico.
Trovò Caligola nella casa del piacere de “Il Salone dei Sospiri”, tra i bambini votati alla prostituzione di Luma Selena, un donnone drappeggiato da tanti scialli di vario colore da sembrare un morbido bignè ricoperto di zuccherini. 
Madama Selena aveva sempre un forte odore di vaniglia, tanto dolce da dare la nausea; ma sapeva truccarsi in modo tanto sublime da far sembrare quel suo faccione flaccido un calco marmoreo attraente, tale che - se non si dava considerazione al resto del suo colossale corpo - si sarebbe potuta considerare una donna piena di fascino. 
La prima cosa che insegnava ai propri bambini era difatti il trucco, il quale doveva essere preciso e privo di alcuna imperfezione; dando così vita a strani esseri dai volti di incantevoli fanciulle fissate su piccoli corpi di bambini e bambine. 
Annualmente il Re ordinava una retata nel Salone dei Sospiri, perché non si dicesse che approvasse simili perversioni. I bambini, salvati dalla casa del piacere, divenivano servitori al castello, e coloro i quali si dimostravano abbastanza forti da superare faticosi addestramenti andavano ad ingrossare le file dei soldati e delle guardie del Re. 
Caligola, in origine, faceva parte di quel mondo. Era stato comprato da Luma Selena, assieme ad altri venti bambini nel mercato degli schiavi in terre senza Sovrano. Era stato educato nell’arte del piacere e della seduzione, finché i grossi e nerboruti soldati della guardia del Re l’avevano trascinato via da quell’incubo di sete, sospiri e umiliazioni. 
Iniziò come sguattero nelle cucine, continuò come servitore nella sala da pranzo e, infine, arrivò ad occuparsi della cura degli appartamenti privati del Re. 
Il giovane, dal viso incredibilmente delicato e femmineo, si dimostrò sin da subito rapido e meticoloso nei lavori assegnatogli. Nonostante il fisico esile, si rivelò piuttosto forte per superare i lavori più duri e, contrariamente agli altri bambini sottratti alle grinfie di Madama Selena, non ebbe mai quell’aria sperduta, spaventata e confusa di chi veniva sradicato dal proprio bozzolo sicuro. Espressione che aleggiava spesso per anni sui volti innocenti di quasi tutti quei bambini. Ma quel ragazzo no, lui era sempre concentrato, pronto ad assolvere ai suoi doveri.
Re Sirio lo notò facilmente, quand’egli iniziò ad aggirarsi nelle camere del Re, discreto come un’ombra, esatto e rapido nel riordinare. 
Fu come ammirare un diamante allo stato grezzo gettato in mezzo allo sterco. Ogni cosa in quel ragazzo richiamava l’attenzione del Re, e Sirio lo osservava con insistenza disarmante.
Iniziò a parlargli, non direttamente ma come se parlasse a se stesso. Il ragazzo ascoltava, in silenzio, e presto prese l’abitudine di attendere che il Re lo congedasse, invece che defilarsi velocemente con la sola intenzione di non far notare la sua presenza. 
- Dimmi il tuo nome - fu la prima frase che gli rivolse intenzionalmente. 
- Non ho un nome, mio signore - rispose senza esitazione, come non lo intimorisse quel Re senza età, considerato un mostro più che un dio tra i mortali. 
Quell'essere che non invecchiava, potente e sanguinario, capace di incantesimi spaventosi e terribili. Per lui non era altri che colui che l’aveva tratto in salvo e lo aveva accolto sotto la propria ala protettiva. 
Sirio, sdraiato sul letto colossale di piume d’oca, continuò a guardare quel ragazzo - ritto e immobile addosso alla parete - così particolare e affascinante. 
- E come ti chiama la gente quando ti si rivolge? 
- Non mi chiama, mio signore. Ma voi siete il mio padrone. Datemi voi un nome, se me ne volete affibbiare uno. 
Così Sirio gli diede il nome Caligola e ne fece il suo uomo più fidato. Non c’era momento in cui Caligola abbandonava il fianco del proprio Re. Sempre presente, sempre attento ad ogni suo bisogno. 
Persino la notte Caligola trovava posto nel talamo del suo Re, come altri uomini e donne l’avevano trovato prima di lui. Ma quel Re lussurioso, che contava milioni di amanti nel corso di tutta la sua esistenza, non vide altro corpo se non quello di Caligola nel suo letto al contrario degli anni che avevano preceduto il suo arrivo. Persino quando Sirio sposò una fanciulla per acquisire un piccolo regno, dal forte influsso e predominio sui mari dell’est, il suo letto continuò ad ospitare Caligola - ormai fatto uomo - con la stessa frequenza. 
Caligola venne addestrato nell’arte delle armi e divenne un ottimo combattente, agile e sfuggente al pari d'un soffio d’aria. 
Poi la furia degli dei si abbatté sui regni di quell’immenso continente e malaria, lebbra e peste si portarono via svariate legioni di uomini. 
Sirio, dall’alto del suo imponente castello guardava impotente la punizione abbattersi sui suoi sudditi stremati. Il regno di Sirio si rialzò a fatica da quelle terribili infezioni, ma fu uno dei pochi a tornare fiorente al pari di prima.
Eppure Sirio avrebbe sacrificato ogni più innocente vita di quel mondo quando, con orrore, si rese conto che anche il suo delicato ed incantevole Caligola aveva contratto una delle mortali malattie, e che si apprestava a spegnersi sotto attacchi di tosse tanto violenti da fargli sputare fiotti di sangue.
Per la prima volta Sirio si rese davvero conto di quanto fosse breve ed effimera la vita umana, lì seduto al capezzale mentre si disperava in quel suo modo così teatrale che riusciva a far sorridere Caligola anche tra il sangue e la morte. 
Fu per questo che Sirio fece ciò che mai prima di allora aveva osato: donò parte di sé per quell’umano da cui era sempre stato così dannatamente coinvolto. 
Si strappò l’occhio destro e lo pose sul braccio sinistro di Caligola. Sulla pelle dell’uomo, attorno all’occhio, si diramarono articolati tratti voluttuosi. Il potere di Sirio aveva lasciato un segno indelebile sul corpo di Caligola, un tatuaggio sulla sua stessa anima. 
E non solo questo sconfisse la malattia che inesorabilmente lo stava strappando via dalle mani di Sirio, ma accrebbe la sua forza, e affinò i suoi riflessi. Nessun avversario poteva reggerne il confronto. 
L’occhio vedeva ed agiva per lui, muoveva il suo braccio, guidava i passi, e quando l’occhio agiva, il tatuaggio si accendeva di una calda luce accecante ed ogni colpo sferrato da Caligola diveniva colpo di fuoco. 
Allora Sirio lo pose a capo delle sue armate, e Caligola condusse ognuna delle tante guerre intraprese dal suo Re, in testa all’esercito, implacabile e terribile come una furia vestita di sangue con un occhio che vedeva la morte.
Nella memoria di Caligola, la parte migliore di quei lunghi ed estenuanti combattimenti veniva solo dopo quando, ancora sudicio di sudore, terra, sangue e budella, tornava vittorioso al castello e senza perder tempo si presentava nella camera del Re, e possedeva Sirio per tutta la notte con la forza di un animale.
Anche quando arrivarono i Selvaggi Caligola fu pronto a combattere. Forse lui era la sola occasione che quel mondo avesse per non crollare nell’oscurità dell’abisso. 
Eppure, a pochi giorni dall’arrivo dell’orda nemica, la sciocca regina di Re Sirio lo fece chiamare nella sala del trono. 
Lì vi trovò sia il Re che sua moglie, seduti sui rispettivi troni. Era da poco giunta la notizia delle barbarie che a grande velocità avanzavano verso quei luoghi di pace. 
Caligola si presentò al cospetto dei regnanti in armatura, l’elmo sotto al braccio e l’affilata spada al fianco. 
- Sono pronto a scendere in guerra, mio signore. I Selvaggi non avranno queste terre -, Caligola si rivolse unicamente al suo Re, ma fu la regina a rispondere. 
- Non sei stato chiamato qui per questo - disse la donna con espressione smorfiosa sul viso. - Re Sirio ha promesso alla sua sposa una gemma preziosa per ornarle i capelli. La gemma perduta di Magnusarula. La voglio, trovamela. - spiegò, giungendo le mani con quella sorta di aria paziente che adulti assumono nei riguardo di bambini un po’ stupidotti. 
Caligola pensò si trattasse di un’altra incoerente pretesa di una donna sciocca e infelice, per questo rispose ridendo - Ma allora i miei servigi saranno inutili, mia regina. La gemma chiaramente non si può trovare. 
La donna arricciò le labbra, indispettita - Cosa dite? Perché non potete trovarla? 
- L’avete detto voi stessa: la pietra è perduta. Ciò vuol dire che non è possibile recuperarla. 
- Basta così - Re Sirio li interruppe, infastidito da quegli inutili battibecchi. 
Caligola si rivolse sempre a Sirio, chiedendo spiegazioni. 
- La Gemma perduta di Magnusarula esiste, Caligola, e io so dove cercarla. Dovrai partire questa notte -. 
Il guerriero rimase per un attimo sconcertato, poi un fulgore d’ira serpeggiò nei suoi occhi dorati - I nemici sono alle porte, mio Re. E voi volete che vada a cercare un inutile gemma da agghindare su questa donna? -. 
La regina parve adirarsi, ma Sirio la tenne in silenzio ammonendola con un gesto della mano. 
- Avvicinati - gli ordinò il Re e Caligola provò a ricomporsi nell'accostarsi al suo padrone. 
- Mettiamo che io parta e che trovi il suddetto minerale. Seppure ci impiegassi una manciata di giorni, come minimo, non riuscirei mai a tornare indietro in tempo per difendervi - ora Caligola parlava rauco, il tono basso a stento udibile da altri se non dal Re. E Sirio gli rispondeva con voce d’amante, rassicurandolo con carezze leggere sul petto, nei punti dove il cuoio lasciava spazio alla pelle nuda. 
Ma la tensione era palpabile tra i due, il panico gravava sulle spalle di Caligola e a nulla servivano le vane rassicurazioni di Sirio. 
- So che non potrai tornare in tempo. Ti chiedo solo di tornare. Con la gemma - infine, esasperato, Sirio usò la voce del Re per farsi sentire dal suo guerriero. 
Vide il tormento farsi strada sul volto di Caligola, mentre egli comprendeva ciò che il suo padrone gli stava chiedendo. Si inginocchiò - Come voi ordinate. 
Quell'ultima notte - come ogni notte precedente - la trascorse nelle stanze di Re Sirio. Eppure fu una notte strana, il Re lo guardava come non l’aveva mai guardato prima e in Caligola un senso di oppressione sembrava bloccargli il respiro. 
- Parlatemi della gemma - gli chiese, lasciandosi carezzare dalle mani esperte del Re. In molti conoscevano la leggenda della gemma perduta di Magnusarula: la gemma incendiaria, in cui erano contenute le fiamme degli inferi. 
- Pensate che vi servirà per vincere questa impossibile guerra? - 
Sirio assunse quella sua aria melodrammatica da uomo perso e sconfitto - I Selvaggi stanno distruggendo il mio mondo. Non voglio vincere. Voglio distruggerli. 
Caligola gli posò la mano sul viso e baciò il suo Re. 
- Non mandarmi via proprio adesso -, lo pregò. 
- Il nostro regno, u’tpàh, è il più forte. Resisterà sino al tuo ritorno, e allora potrai sfogare la tua furia su chiunque minacci la mia vita. Come hai sempre fatto. 
Caligola chiuse gli occhi. U’tpàh. L’aveva chiamato così, prima di dargli quello che ora è il suo nome. Caligola non sapeva cosa significasse, era un sussurro insito nei recessi oscuri della sua memoria, dimenticato finché Sirio non l’aveva pronunciato nuovamente quella notte. Eppure nonostante quella parola gli fosse sconosciuta, Sirio la pronunciava con tale dolcezza che acquisiva un significato proprio e assodato nel cuore di Caligola. 
Ma, seppure dolce, neppure quella strana parola riuscì a rassicurarlo; non quando Sirio si comportava in modo tanto strano. 
Quell’uomo dall’aspetto giovane e bello, dagli occhi antichi in cui si poteva leggere una tristezza centenaria, sembrava sconfitto nell’anima. 
Osservava Caligola, famelico, come aveva fatto la prima volta che lo notò aggirarsi per le sue stanze. Lo toccava, ogni momento, in ogni parte del corpo. 
Sembrava spaventato e confuso da qualcosa che non sembrava aver mai conosciuto. Così Caligola lo tenne stretto a sé, perché quel leggendario Re sanguinario, che aveva piegato popoli al suo volere con poteri inimmaginabili e raffinata astuzia, in quell’istante aveva l’aspetto di un inutile vecchio, solo al mondo e stanco della vita, a cui stavano privando dell’unica cosa davvero significativa che gli rimanesse. 
E nel buio di quella grande stanza lussuosa e raffinata, Sirio si aggrappava a Caligola, come un poveraccio nudo si aggrappa all’unica coperta nel più rigido degli inverni. 
- Forse non lo sapete - bisbigliò il Re all’orecchio dell’amante - ma non ho mai amato in questa vita. Sono stato lussurioso, ho avuto donne, uomini e animali tra le mie braccia. Tanti, innumerevoli, eppure non ne ricordo più nessuno. Eppure continuo a volere voi. Sempre, ogni notte o giorno che sia. Perciò adesso amatemi, Caligola, perché chiaramente io non ne sono capace. Amatemi come se fosse l’ultima volta in cui avete la possibilità di farlo -. 
E Caligola ubbidì, come sempre faceva, al suo padrone a cui tanto doveva: salvezza, vita, nuova esistenza. Tutto ciò che era, tutto ciò che poteva essere, lo doveva solo al suo Re. 
Il giorno seguente partì prima che l’alba sorgesse. Un mantello d’ombra e di rimpianto che si allontanava dall’immenso castello, come una nuvola carica di tempesta. 
- Dirigiti verso i Monti Elieri - gli aveva detto Sirio. A quelle parole la fretta lo invase: i Monti distavano dieci giorni di cammino. 
Spronò il cavallo a grande velocità sulla strada sterrata, finché non si inoltrò nei boschi e lì non ebbe altra scelta che rallentare il passo. 
Di tanto in tanto una carovana colma di vettovaglie incrociava il suo cammino, diretta alla parte opposta della sua strada. I carri tiravano avanti, veloci il più possibile, poiché i boschi erano pieni di banditi e mercenari, e i commercianti alla vista di Caligola, da solo sul suo possente destriero nero, si calavano il cappuccio sul viso e mettevano mano alla spada finché il solitario guerriero passava oltre. 
Trascorsero così due giorni e una notte. Quando il tramonto calò per la seconda volta su quel viaggio, all’apparenza così insensato, Caligola trovò riparo sotto ad una quercia che distanziava considerevolmente dalla strada battuta. 
Accese un fuoco e scuoiò il coniglio catturato poche ore prima. Dopo aver mangiato, si assopì facilmente contro il tronco dell’albero. Non era certo il letto di Sirio, con cuscini di piume e coperte di seta, ma la più grande capacità di Caligola era sempre stata il sapersi adattare e per lui un posto valeva l’altro, anche quando i suoi sogni erano popolati da Sirio e nell’incoscienza del sonno allungava il braccio in cerca del suo corpo. 
Forse, in fondo, non sapeva adattarsi proprio a tutto. 
I lunghi mesi passati in guerra avevano affinato tanto l’udito di Caligola che, quando passi sconosciuti calpestarono ramoscelli e foglie secche, per lui non fu affatto difficile riaversi dal sonno. Rimase immobile, ma vigile, udendo i passi avvicinarsi. 
Quattro persone, forse cinque. Lo stavano circondando, così pose mano al pugnale e attese. Sentiva l’occhio di Sirio fremere nel suo braccio e il potere inondargli vene e arterie. 
Uno dei forestieri fece l’errore di accostarsi a Caligola per assicurarsi che dormisse, ed egli - con un agile movimento - gli aprì la gola con la lama del pugnale. 
Con un calcio scansò il corpo, afflosciatoglisi addosso in un zampillio di sangue, e in un balzo fu in piedi. 
Premette la mano sul tatuaggio soprastante l’occhio di Sirio, quello che aveva la forma di un’elsa. Esso si incendiò di luce e, quando Caligola tolse la mano, con essa venne via anche un grosso spadone. 
I quattro forestieri rimasti lo fissarono, spaventati e tremanti, avvicinandosi l’uno all’altro come per farsi forza a vicenda. 
- Chi siete? Cosa volete? - 
- Soldi. Cibo. Qualsiasi cosa utile da poter rubare - rispose il più nerboruto dei quattro, lo sguardo fisso sul corpo dell’uomo sgozzato - Era mio fratello - aggiunse e il volto gli si fece scuro. 
- Vuoi fargli compagnia? - Caligola accennò un passo e i quattro si ritirarono. 
- Noi sappiamo chi siete. Il guerriero di Sirio, vi fate chiamare. Ma chiunque soldato amico o nemico che fosse, vi conosce come la belva di Sirio, il mostro senz’anima che sguinzaglia per vincere le sue guerre più dure. Ho combattuto nella guerra delle colline buie, belva. Ho visto con questi stessi occhi come combattete, la vostra brutalità e l’inferno che si cela in quel vostro occhio disumano. è unicamente a causa vostra se abbiamo lasciato la guardia reale. Meglio vivere da rinnegati che sotto il comando di una bestia come voi! 
- Disertori, quindi. Conoscete la pena per il vostro crimine - e così dicendo Caligola si avventò sul fratello della prima vittima, lo spadone lo trapassò da parte a parte. Gli altri tre, difronte ad uno scempio tale, fuggirono a gambe levate.
Caligola li lasciò andare. Estrasse la spada dal torace dell’uomo, mentre egli moriva, tra rigurgiti di sangue e bestemmie. Poggiò l’elsa dello spadone contro la spalla e d’un tratto la lama sparì come era apparsa, lasciando sulla pelle del guerriero solo il disegno. 
Agitato, quasi tormentato dalle parole di quello sconosciuto, raccattò le poche cose che si era portato dietro in quel viaggio, e ripartì. 
Nei lunghi anni passati al fianco di Sirio, non si era mai posto il dilemma se c’era morale in quel che faceva. Giusto, sbagliato? Che importanza aveva? Lo faceva per Sirio, perché lui voleva che lo facesse. Null’altro aveva rilevanza. 
Cavalcò a briglie sciolte, il vento gelido della notte che gli sferzava il viso. Cosa era diventato in quegli anni? Un umano allontanato dall’umanità. Una belva, così lo vedevano. 
Tranne Sirio, ma lui non era forse ciò che di meno umano esisteva in quel maledetto mondo? 
Cavalcò per altri tre giorni, consentendosi sempre solo brevi soste. Il paesaggio mutò. Caligola non si era mai allontanato tanto. 
La vegetazione iniziò a diradarsi, gli alberi divennero cespugli, i cespugli rovi, e l’erba scomparve lasciando solo terra arida dinanzi ai suoi occhi. 
Quando partì, Caligola non sapeva cosa aspettarsi da quel viaggio. L’unica cosa certa era non perdere mai la rotta, dirigersi sempre verso sud-ovest. 
Ma quella distesa arida sembrava non avere fine e lo sconforto si fece pesante in lui. Di giorno il caldo era insopportabile, di notte si gelava; e ovunque guardasse non c’era nessun punto per mettersi a riparo da tutto ciò. 
Passarono altri due giorni, aveva ormai esaurito l’acqua e di cibo non si trovava. La gola riarsa era il fastidio più insopportabile. Perse il conto dei giorni e, forse, per un lungo tratto perse anche la strada. 
Di tanto in tanto, durante i momenti che si concedeva per riposare, riusciva a catturare qualche vipera. Ma la carne di serpente si rivelava sempre troppo esigua, e la stabilità dell’uomo vacillava sotto il sole inclemente di quella valle desolata. 
Eppure continuava a camminare, instancabile, nonostante i Monti Elieri avrebbero già dovuto stagliarsi in lontananza, mentre all’orizzonte non c'era altro che lo stesso paesaggio privo persino di avvallamenti o dossi. 
Infine Caligola cadde da cavallo e svenne. 
Si risvegliò che il buio era calato. Si sentiva ancora stordito e per questo si accorse solo in un secondo momento di essere legato mani e piedi ad un tronco. 
Un falò ardeva a non più di cinque metri da lui, ma ne percepiva solo il bagliore e il fumo poiché la visuale gli veniva ostruita da un grosso masso. 
Notò un’ombra tremolare, forse due; poi alcune voci di uomo e di donna. Che fossero solo in due? Attese, i nervi tesi. Con la mano arrivò a stento a recuperare il pugnale nascosto nella cintola e prese a segare le corde. 
Un’ombra si avvicinò all’improvviso, rapida e così silenziosa che quasi non se ne rese conto. Strinse saldamente il pugnale, pronto a colpire. 
Gli si piantò dinanzi una bambina di appena sette anni, con una ciotola tra le mani e un sorriso sdentato. 
La riusciva a vedere appena in quell’oscurità, ma ella non sembrava avere paura di lui. 
- Sapevo che eri sveglio - disse, porgendogli la ciotola - Acqua - spiegò. 
Caligola la osservò, in silenzio. Non era affatto ciò che si era aspettato di dover affrontare in quel momento. Si chinò e poggiò le labbra sulla ciotola e bevve avidamente fino a svuotare il recipiente.
- Io so cosa stai cercando. La gemma. Ma essa porta distruzione, non salvezza. Usa la gemma e distruggerai il mondo.
Che Sirio preferisse la morte alla sconfitta?
Caligola rise a quelle parole e quando rialzò lo sguardo, li avevano raggiunti anche le altre due figure che aveva intravisto accanto al fuoco. Entrambi erano avvolti da scialli di lino bianco, che lasciavano scoperti soltanto gli occhi, ed erano ricoperti di gioielli alle dita, ai polsi, al collo e alle caviglie. 
La più bassa tra le due figure, si chinò all’altezza della bambina - Du vhe, u’tpàh -. 
La voce era di donna e anche le sue movenze erano tali. A quelle parole la bambina lanciò un ultimo sorriso sdentato verso il loro prigioniero e poi corse a sedersi davanti al fuoco. 
Caligola appoggiò la testa al tronco, un sogghigno gli deformava il viso - Non so cosa volete da me, ma se mi liberate subito prometto di non uccidervi. Di lasciarvi andare vivi, mi capite? 
- Capiamo -, rispose l’altra figura dagli occhi d’ambra e con voce di uomo. Aveva un tono rauco e raschiante, i suoi occhi sembravano di cenere. - Noi ti abbiamo salvato e curato. 
- Non mi sento particolarmente in salvo - ribatté il guerriero. 
- Ti sei slegato, non è così? - chiese la donna. Attraverso i suoi occhi Caligola capì che stava sorridendo. - Vieni - aggiunse - alzati e vieni con noi accanto al fuoco. Le notti sono gelide. 
Caligola guardò attentamente entrambi, cercando di comprendere dove si celasse l’inganno, ma i due non sembravano essere intimoriti, al contrario avevano quell’aria tranquilla e pacifica di chi sa già quale piega prenderà il futuro. 
L’uomo gli diede le spalle e tornò a sedersi accanto alla bambina.
Caligola allora finì di slegarsi le mani dalle corde oramai tagliate, con un leggero sogghigno. La donna chinò il capo, in segno di approvazione, e fece per seguire l’uomo, tutt’altro che spaventata dall’idea di offrire le spalle ad una persona sconosciuta e per di più armata. 
Prima che si allontanasse troppo, Caligola la fermò. 
- U’tpàh. Poco fa hai detto u’tpàh. - la voce di Caligola tremava appena nel ricordare Sirio pronunciare quella stessa parola. - Cosa vuol dire? -. 
- Non ha traduzione. Ha un suo significato specifico solo nella lingua dei morti -. La donna si congedò chinando nuovamente il capo e Caligola capì che non avrebbe aggiunto altro.
Si alzò e, solo in quel momento, si preoccupò di capire dove si trovasse. Il buio lo avvolgeva in modo tale che a stento si era reso conto che il paesaggio attorno era del tutto differente a quello in cui si trovava l’ultima volta. 
Stava in quella che aveva l’aria di essere una grotta. Quel buio denso non era causa di una notte senza luna, ma dalle pareti di roccia tutt’intorno a mo' di cupola. 
Dovevano aver camminato a lungo, probabilmente si trattava di gente che conosceva quella desolazione tanto da riuscire a trovare una grotta in mezzo al nulla. 
Decise di non avvicinarsi al fuoco, restò in disparte, guardandosi accuratamente intorno senza riuscire a togliersi di dosso la strana sensazione che ci fosse qualcosa di assolutamente sbagliato in quello che stava vivendo. 
Da quella distanza non vedeva l’apertura della grotta. Si poggiò ad una delle pareti in roccia e considerò che dovessero essere parecchio alte perché il fumo del fuoco non tornava giù a soffocarli. Eppure, forse a causa di un gioco di luce e ombre, la grotta gli sembrava piuttosto piccola. 
Pensò di uscire. Non era un prigioniero e, in ogni caso, quella gente era più interessata a guardare all’interno delle fiamme che preoccuparsi di ciò che lui faceva. 
Solo la bambina ogni tanto lo guardava, l’espressione entusiasta e il sorriso sdentato, illuminati da que grosso fuoco, che sembrava far così poco calore. 
Non vedeva l’uscita, perciò rimase del tutto sorpreso quando fu fuori dalla grotta in pochi passi, ma nulla lo sconvolse tanto quanto vedere ciò che lo aspettava lì fuori. 
Il buio era così innaturale che il cuore prese a battergli all’impazzata. Fuori dalla caverna vi era uno strapiombo immenso, il quale non sembrava avere una fine. 
In lontananza urla disumane si udivano levarsi fioche, talvolta più vicine, poi sempre più lontane. 
Per la prima volta, da quando il Re Sirio gli aveva donato il suo occhio, Caligola ebbe paura. 
Capì di non essere mai uscito: quella in cui si era svegliato non era una grotta, bensì una piccola cavità nella parete rocciosa di qualcosa di molto più grande. Una struttura che si diramava in lunghezza, a perdita d’occhio. Sia che si guardava su, oppure giù, l’unica cosa visibile erano tenebre e pezzi di roccia che cadevano. Somigliava ad un cono vulcanico, così immenso, sperduto e terribile che Caligola, lì in piedi ad ammirare sconcertato quella mostruosa grandiosità, si sentì il più misero degli uomini. 
Tornò indietro a tastoni, tremando appena, tanto era confuso, ma trovò a sbarrargli la strada l’uomo dagli occhi d’ambra. 
Caligola portò istintivamente la mano sull’avambraccio sinistro, pronto a combattere se necessario, ma trovò solo pelle liscia priva di alcuna imperfezione. 
Allora guardò, restando inebetito dal non trovarvi più né l’occhio e né il tatuaggio. Il panico impossessò di lui. 
Non ebbe tempo di domandarsi alcunché: l’uomo bendato avanzò e Caligola lo attese a testa alta. Se sarebbe dovuto morire, sarebbe morto combattendo con onore. 
Ma l’uomo gli si fermò difronte, senza accennare a particolari gesti. 
Prese a togliersi i teli che gli celavano il volto, con calma e meticolosità. Caligola rimase a guardarlo: il viso una maschera di orrore nel vedere finalmente il viso di quell’uomo.
Era identico a lui in ogni più piccolo particolare. Dai capelli lunghi e neri, gli occhi dorati, ai tratti del viso femminei, delicati. 
Lo fissò a lungo, cercando nella profondità di quegli occhi uguali ai suoi una spiegazione, un perché a tutto quelle anomalie attorno a lui. 
Ma l’uomo continuava a tacere e a fianco a lui giunsero la donna, a sinistra, e la bambina sdentata, a destra. 
La donna si inginocchiò ai suoi piedi e i teli e i veli che la avvolgevano caddero d’improvviso, come se non avessero più un corpo fisico a cui appoggiarsi. 
L’uomo si chinò e tirò fuori, dai panni sparpagliati a terra, lo spadone a due mani. Lo stesso spadone che la magia di Sirio, dentro il corpo di Caligola, permetteva a quest’ultimo di evocarlo attraverso il tatuaggio. 
Allora la bambina prese per mano l’uomo e, rivolgendo un ultimo sorriso sdentato a Caligola, scomparve proprio sotto ai suoi occhi, lasciando solo un bulbo oculare roteante sulla mano dell’essere che il guerriero iniziò a sospettare non fosse affatto reale. 
Davanti a quella scena impossibile, Caligola non ebbe altri dubbi: era ancora svenuto, sotto il sole cocente di quel deserto privo di una qualsiasi forma di vita. O forse era morto e quelli erano gli inferi a cui era destinato, e quella che aveva dinanzi la sua dannazione eterna. 
L’uomo che aveva il suo viso, lo fronteggiò, lo spadone nella mano sinistra, l’occhio nella destra, gli venne incontro brandendo quei due oggetti e Caligola indietreggiò. 
Indietreggiò finché non sentì toccare con il tallone il limite dello strapiombo; poi ci sarebbe stato il vuoto ad attenderlo. 
L’uomo fece vorticare lo spadone e Caligola sentì il vento sferzargli in faccia provocato del movimento rapido della lama. 
Serrò gli occhi, preparandosi al prossimo colpo, il quale sarebbe andato a segno senz’alcun dubbio, tanto erano vicini. 
Ma invece della lama, fu la mano di quell’essere a posarsi sul suo braccio sinistro. Lo spinse nel vuoto. E l’essere cadde assieme a lui, stringendolo finché Caligola non seppe più dire chi fosse lui e chi l’altro, dove finisse il suo corpo e iniziasse quello dell'uomo. 
D’un tratto si accorse che era solo. Niente uomo col suo volto, niente spadone e niente occhio. Era lui, che vorticava in quel buio denso, precipitando veloce, senza appigli, verso un fondo che non sembrava avere fine. 
E intorno a lui altre cose cadevano, ma non erano rocce come all’inizio aveva creduto. Altri corpi precipitavano, urlando. 
Allora Caligola chiuse gli occhi e si lasciò andare. 
Quando li riaprì sembrano essere passati ormai millenni. Si ritrovò adagiato a terra, senza la minima ripercussione da impatto. 
Ora il buio era meno denso, ma non sapeva dire da dove provenisse la fioca luce che a stento illuminava l’ambiente. 
Per prima cosa portò d’istinto la mano a sfiorare il marchio di Sirio, e lo trovò intatto, come sempre era stato. Per il momento cercò di mettere da parte la confusione che lo assillava, si alzò e prese a camminare senza meta, seguendo la fioca luce come una falena stanca. Giunse così in una sala immensa, al cui centro una gabbia d’oro brillava di luce propria, illuminando ciò che le stava attorno e quel che vi era all'interno. 
Dapprima parve solo un’ombra scura ma, man mano che il guerriero di Sirio si avvicinava, si delineò una figura ingobbita su se stessa, digrignante come una bestia. 
Aveva le mani aggrappate alle sbarre della gabbia e a un polso aveva legata una catena. 
Solo allora Caligola capì che la figura ingobbita, non era altro due corpi abbracciati, uno sopra l’altro. E che la catena al polso di una, finiva legata al collo dell’altro. 
Quando ormai Caligola fu vicino, solo la figura che sovrastava l’altra si mosse. Non era né uomo né donna, e neppure umano. 
La testa di lupo e il corpo di serpe coperto da peli ispidi e neri, con braccia e gambe deformi: così la Dea dei Morti si mostrò al giovane guerriero.
Agitava la catena al polso come un guinzaglio, mentre con lo sguardo seguiva i movimenti dell’ospite inatteso, ringhiando e sbavando. 
Caligola girò attorno alla gabbia. Quando era partito non aveva idea a cosa andava in contro. Pensava solo al tempo, a quanto ne era trascorso, a quanto ne rimaneva. Ricordò l’unico avvertimento lasciatogli da Sirio, quell’ultima notte, - Non farti mordere. - 
Lui aveva riso, ma il Re aveva mantenuto una compostezza tragica e seria. 
Un gorgoglio spaventoso uscì dalle fauci asimmetriche della creatura. Si muoveva a scatti, rapidi e feroci, nel seguirlo. E nel mezzo di quello strano corpo sinuoso, Caligola vi vide una pietra riflettere appena la fioca luce proveniente dalle sbarre della gabbia. 
Sirio non gli aveva dato indicazione alcuna prima di lasciarlo partire, e adesso Caligola sapeva il perché. Lui aveva il suo occhio, ed esso lo aveva condotto - e talvolta persino trascinato - nella direzione giusta. 
Ora sapeva che il suo viaggio si sarebbe concluso in quella colossale stanza cavernosa. 
Quindi senza indugio evocò lo spadone a due mani e, con un colpo secco, aprì la serratura della gabbia. 
La dea della morte ne uscì, con una calma colma di sospetto, strisciando piano e assaporando la libertà riconquistata inaspettatamente. Appena fu fuori, con niente a dividerla dal suo ospite, ella si sollevò in tutta la sua grandezza. 
Caligola restò fermo e impassibile dinanzi a quei tre metri di corpo che lo sovrastavano. La bava gli cadde in faccia come goccioloni di pioggia. 
- Mio figlio - gorgogliò quell’essere antico. Una voce rauca, spaventosa, che sembrava provenire dagli abissi più oscuri. 
Digrignava i denti, mentre faceva ondulare il lungo corpo peloso, - Mio figlio. 
- Sirio? - domandò Caligola, senza sorprendersi poi troppo. 
La dea della morte lo fissò, gli occhi rossi acquosi in cui sembrava brillassero fiamme. 
- Morte. Distruzione - abbaiò. 
- I Selvaggi - disse Caligola - Sono qui perché i Selvaggi stanno per invadere il Regno. Sono forti e non abbiamo molte possibilità di vittoria. 
Per un attimo il guerriero credette di aver visto sul muso di quel mostro un ghigno feroce - I dannati degli Inferi -. 
E a Caligola suonò come una correzione. - Tu. Tu li hai mandati da Sirio per distruggere il suo mondo. 
- Mio figlio - concordò la creatura. 
Caligola rafforzò la presa sull’elsa della sua spada, pronto allo scontro imminente - Dammi la gemma. Magnusarula, la gemma! -. 
Con un ringhio la dea della morte si abbatté su di lui. Caligola rimase sulla difesa, sfuggendo alle fauci del mostro con quanta più rapidità potesse il suo corpo provato dal lungo viaggio.
Schivava, parava con il piatto della lama, si muoveva attorno alla gabbia con passi misurati nell'attesa dell'istante adeguato in cui avrebbe potuto contrattaccare.
La dea era indubbiamente più forte di lui. Vibrava di quel potere millenario che non ha eguali. Ma la forza di suo figlio scorreva in Caligola, e la dea lo sapeva; ogni attacco che sferrava era mirato al braccio del guerriero.
Lo scontro durò a lungo. Caligola si teneva a quanta più distanza riuscisse, la dea della morte lo seguiva ad ogni passo, tirandosi dietro la favorita tra le anime dei suoi inferi. Quando il guerriero fu certo che la creatura era presa più dal movimento dello spadone che da quello dei suoi passi, prese ad avvicinarsi nuovamente alla gabbia d'oro e, nel momento in cui lei provò nuovamente a infilzargli le zanne nel braccio, Caligola le ferì il muso con un taglio trasversale. Il colpo gli diede il tempo di entrare nella gabbia e chiudervisi dentro prima che lei potesse attaccare un'altra volta. E a quel punto lui già la aspettava, con la lama che spuntava fuori dalle sbarre. La dea ci si buttò sopra di peso nell'impeto dell'aggressione e la lama le penetrò nel collo; un inquietante verso di sdegno le esplose dalla bocca.
Caligola guardò il mostro dritto negli occhi ad una vicinanza tale a cui mai nessun mortale era mai giunto.
Allungò il braccio, tra le sbarre, e con le dita afferrò gli angoli della gemma che emergevano dalla carne e la strappò via.
Il dolore nella dea fu tale che serrò gli occhi emettendo un lungo e terribile ululato, mentre fiotti di sangue le zampillavano agli angoli del muso.
Caligola estrasse anche la lama della spada e il corpo dell'essere sprofondò a terra, privo di forze.
- U'tpàh - fu l'ultima parola che la Dea della Morte gli rivolse.
Uscì dalla gabbia, la gemma stretta in mano, e iniziò a correre, più veloce che poteva ignaro di quanto tempo disponesse prima che la bestia si fosse rimessa in piedi.
Correva e la gemma, stretta salda nel suo pugno, iniziò a bruciare. Correva e, nel buio profondo di quel luogo mitologico, cadde nel vuoto.
 
Il sole picchiava sul corpo inerte di Caligola, rendendo la pelle candida, segnata da mille battaglie, arrossata e incandescente. Si tirò su con un rauco grido. La gola arsa dalla sete era il più grande dei tormenti. Si guardò attorno e ritrovò il deserto che inspiegabilmente aveva lasciato da quelli che ora gli sembravano non che pochi secondi. 
Allora era davvero svenuto? Tutto ciò che aveva visto era stata solo una visione? 
Accanto a lui il corpo del fedele destriero, che l’aveva condotto sino a quelle lande desolate, giaceva immobile, vinto dal caldo, dalla stanchezza e dalla sete. La puzza di carogna era insopportabile. 
Caligola guardò l’orizzonte, gli occhi colmi di disperazione. Presto avrebbe fatto la stessa fine infame del cavallo. Si cercò addosso la gemma, tra le vesti, nelle tasche della cintola, all'interno degli stivali. Non trovò nulla. Finché un baluginare non attirò il suo sguardo a terra e allora la vide, quasi fosse un miraggio. La gemma era caduta a terra e lì lo attendeva, come una serva paziente. Così si affrettò a prenderla e a nasconderla nei suoi stivali, poi tirò fuori il pugnale e tagliò la gola del cavallo. 
Mise le mani a coppa e bevve avidamente quel poco di sangue non ancora coagulato che ancora vi sgorgava. 
E così tornò da dove era venuto, trascinandosi lentamente, esausto, le pelle e le labbra sporche di terra e spaccate dalla disidratazione. Avanzava come un morto che cammina, ma con la decisione incorruttibile di un eroe. 
Camminò notte e giorno, con l’unica consapevolezza di essere ancora in vita data dal muoversi rapido dell’occhio sull’avambraccio. 
Poi, quando le forze lo avevano definitivamente abbandonato, e il suo corpo se ne stava lungo disteso su quella terra arida, un rumore di zoccoli di cavallo e di ruote di carro lo risvegliarono. 
Caligola alzò a stento la testa e vide difronte a sé tre carovane avanzare lente. Si fermarono alla vista del guerriero. 
Caligola riconobbe il Re di un Regno vicino, il quale fuggiva rapido assieme ai suoi dodici principi. Egli lo riconobbe grazie al marchio di Sirio, così lo tirò su e cercò di rimetterlo in sesto. 
- Sono arrivati, ragazzo - gli disse l’anziano Re, mentre impartiva ordini ai suoi dodici mariti, - I Regni stanno bruciando. Non sei arrivato abbastanza in tempo. 
- Hai abbandonato il tuo Regno? 
La domanda di Caligola procurò un fremito nell’anziano uomo, la sua espressione si ammosciò ed egli prese a balbettare - Non vi è salvezza. Nulla potevo fare per salvarli. Stanno cadendo, non c’è forza umana che possa contrastare quella dei Selvaggi. 
Caligola si passò tra le mani la gemma, studiandone ogni piccola sfumatura, ogni segno. 
- Temo che abbiate ragione. Ma c’è ancora una cosa che potete fare: datemi uno dei vostri cavalli e vi giuro, sul mio nome e su quello del mio Re, che i Selvaggi non porteranno altra distruzione. 
Il vecchio Re non parve entusiasta di quella proposta. Il viaggio verso nuove terre sarebbe stato lungo e molto stancante, senza concrete probabilità di sopravvivere. Privarsi di un cavallo avrebbe messo a rischio la sua vita e quella dei suoi principi. Il vecchio Re provò a convincere Caligola di rimanere assieme a lui. 
- Vi farò mio principe, godrete della mia protezione. 
Ma Caligola rifiutò con sdegno ogni proposta e, quando prese mano allo spadone, il vecchio Re fu improvvisamente lieto di donargli qualsiasi destriero avrebbe maggiormente gradito. 
Così il guerriero di Sirio tornò nel proprio regno. La guerra imperversava e i suoi effetti erano ben visibili in ogni dove. 
La gente che lo vedeva arrivare lo inneggiava come un salvatore. La speranza era tornata in quei popoli piegati. 
Caligola non si fermò ad ascoltare quelle acclamazioni, cavalcò senza soste e a testa bassa finché non vide il castello che per tanti anni era stato la sua casa. Vide i Selvaggi, la loro forza bruta, e vide gli eserciti di Sirio combattere, con in faccia già l’esito di quella guerra senza speranza. 
Ma loro non sembravano vedere lui. 
Caligola attraversò il campo di battaglia e nessuno lo fermò mai, mentre i duelli sanguinosi andavano avanti senza che la sua improvvisa apparizione causasse il minimo sgomento. 
Guardò in alto, sulle torri del castello, e vide Sirio affacciato ad ammirare impotente il disfacimento di quel mondo per cui aveva abbandonato la dimora degli dei. 
Vide i Selvaggi conquistare il palazzo. Il Regno di Sirio era caduto. 
Caligola continuò a guardare il suo Re e, gli parve che da lui fosse a sua volta osservato. Non lo sorprese affatto pensare che Sirio sapesse che lui fosse lì, tornato vittorioso dalla missione da lui assegnatagli, come tornava sempre da ogni battaglia. 
Caligola alzò in alto la gemma di Magnusarula e, allo stesso tempo, anche Sirio alzò le braccia verso il cielo. 
Dalla gemma fiamme si sprigionarono incontrollabili, le quali divennero onde di fuoco che ricoprirono qualsiasi cosa trovassero nel loro cammino. 
I Selvaggi bruciarono, i soldati, i popoli, le case e le botteghe, gli animali e le piante bruciò. Il castello di Sirio arse vigoroso e il fuoco inghiottì anche il suo padrone. 
Non rimase nulla. Nulla tranne Caligola, nudo e ricoperto di ustioni. 
Il marchio era andato; e anche se il potere di Sirio lo aveva tenuto in vita, non c’erano ragioni a trattenere il guerriero dal seguirlo anche nella morte. 
Caligola sarebbe tornato anche questa volta dal suo Re, giungendo vittorioso da quella che sarebbe stata la sua ultima vittoria eterna.

   
 
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