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Autore: guastafesta    16/03/2015    1 recensioni
"Nel suo insulso cervelletto di pochi, pochissimi grammi; lì avveniva la vera rivoluzione. Invisibile e impercepibile agli occhi. Un vero peccato. Quadro gelosamente custodito, se ne stava nascosto, pieno zeppo di tinte vivaci, che si alternano, schizzano, lampeggiano, brillano. E tutto intorno la sua scatola cranica a fungere da museo, senza spettatori. Solo lei, confusa."
Una protagonista insolita, una sorpresa amara, emozioni e punti di vista inaspettati
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Si spaccava la schiena e senza mai alcuna lode lavorava ininterrottamente. Non era di certo appariscente, in nessun senso. Non brillava di intelligenza, ma sapeva darsi da fare. L’avevano sempre fatta sentire una stupida, ma nel suo grigiore, nel suo ripetitivo e affannato saltellare, lei non sapeva che farsene dei commenti altrui. Distratta, con la testa per aria, una svolazzante inconcludente: questo era quello che si diceva di lei.
E’ vero, il suo canto era monotono, un unico verso, lungo e poco intenso, il suo piumaggio era spento, affatto vivace, uniformemente marrone. Nel suo insulso cervelletto di pochi, pochissimi grammi; lì avveniva la vera rivoluzione. Invisibile e impercepibile agli occhi. Un vero peccato. Quadro gelosamente custodito, se ne stava nascosto, pieno zeppo di tinte vivaci, che si alternano, schizzano, lampeggiano, brillano. E tutto intorno la sua scatola cranica a fungere da museo, senza spettatori. Solo lei, confusa. Non sapeva mettere ordine tra le sue passioni così cercò di farlo con la sua routine. Zampettando da un rametto all’altro, la povera cannaiola avrebbe avuto molto da invidiare allo stile di tutti gli altri uccelli della zona, ma lei non lo sapeva. Non li aveva neanche mai notati, presa com’era a guardare fissa nelle sue viscere. Un giorno, tra un seme, un verme, un battito d’ali, un salto, un tuffo, un ramo, lo notò. Carne della sua carne, specie con specie, occhio con occhio, becco a becco. Sessi differenti. Cosa c’era da spiegare? Niente! Cosa si può spiegare ad un uccello? A questa passera in particolare poi! Non vedeva l’ora di aggiungere altri colori alla sua immensa tela. Ora finalmente assumeva quasi un senso, pregna di una carnalità e di una materialità che non si era mai conciliata con il suo astratto desiderio. Riusciva dopo tanto tempo a trovare una correlazione tra corpo e mente. Le sue azioni meccaniche di prima ora sembravano essere state studiate dalla natura, da secoli di evoluzione, per poterle permettere di garantire una vita serena al frutto che si portava in grembo. Istinto quindi, passione che le faceva trovare un posto sicuro tra le fronde, le faceva raccogliere un mucchio di rametti, che glieli faceva intrecciare tutti per formare un nuovo nido, che, a rifletterci, non era molto diverso da quello in cui era nata e svezzata. A dir il vero non doveva essere né più bello né più brutto di quello di qualsiasi altra cannaiola mai esistita sulla terra. Era quello. Un nido caldo, morbido, efficiente. Non poteva desiderare di meglio. Un istinto che si dimostrava essere quindi vincente.
Vincente come quello di un altro uccellaccio che appollaiato in cima allo stesso albero lanciava lo sguardo balordo sull’ignara passera. Il meschino istinto di ingannare la povera stolta lavoratrice era più forte di lei. Uno sforzo immane fece versare alcune gocce scure sull’opera della vita della nostra protagonista, uno sforzo che le permise di mettere alla luce le sue uova. Quattro splendide sfere lisce. L’emozione la pervase e sapeva che i suoi sacrifici le avrebbero permesso di crescere ed educare quattro individui portatori del suo sangue, l’avrebbero resa immortale nei secoli trasmettendo la sua essenza. Avrebbe potuto finalmente così apporre la sua firma al capolavoro ed esporlo. E invece no. Un attimo di distrazione e al primo volo, allontanatasi dal suo nido, la giovane femmina di cuculo entrò finalmente in azione e da osservatrice silenziosa dietro il sipario, entrò in scena come sicario. Protagonista indiscussa di questa immensa tragedia, atterrata come un arpia sul nido, perforava senza pietà uno dei quattro ovuli in modo preciso senza lasciare traccia. Poneva in essere il piano che covava silenziosamente dall’alto di quell’olmo da ore: deporre il suo uovo. Simile a quello dell’ingenua cannaiola ma leggermente più grande, il seme dell’inganno giaceva in quel nido, abusivo, infame. Con immensa malvagità la mamma infanticida si allontanava ridendo sotto i baffi, o meglio, sotto le sue piume, in un volo deciso e veloce emigrando altrove in ricerca di una stagione più calda in cui spassarsela. Ma possiamo seriamente attribuire a questo atto una qualsiasi cattiveria premeditata da parte del cuculo, in fin dei conti, anche questo in balia del proprio istinto? Tornata dalla sua scorpacciata la cannaiola non sa ancora che rimpiangerà questo vuoto del suo minuscolo stomaco per sempre.
Rumori nella notte nei giorni successivi accompagnavano le serate spensierate della passera. Una sera gli scricchiolii si facevano feroci. Scri, cra, scra, scri, cri, crat… Cucù!
Eccolo sbucare per la prima volta davanti ai suoi occhi lucidi: era il primo pulcino. Presa dalle sue emozioni la poverina non si accorgeva neanche che la schiusa avveniva in uno strano, allarmante anticipo. La selezione naturale aveva infatti permesso all’uovo di cuculo di schiudersi prima di quello delle vittime designate. Maledetta selezione naturale! L’amore di quel momento era una secchiata di rosso che, contrapposto alla valanga di verde che avrebbe inondato la tela dopo la scoperta delle vere origini del nascituro, avrebbe creato un interessante contrasto. Il rosso. Solo quello poteva vedere adesso. Dava tutta se stessa per cercare cibo con cui sfamare la creaturina e la sera, quando tornava stanca dalla caccia, dormiva appollaiata abbracciando il suo figliastro e le tre uova ancora intatte. Tutto procedeva per il verso giusto fino a che un pomeriggio la cannaiola scorgeva uno spettacolo disgustosamente raccapricciante. Una frittata. L’avrebbe definita tale se solo avesse saputo cosa fosse. Due uova spiaccicate riversavano il loro liquido sul terreno. Le urla della madre risuonavano nel bosco ma a tutti queste parevano il suo solito canto inespressivo e banale. Bisognava entrare nel suo cervello per vedere il blu espandersi ovunque. Questo colore produceva sentimenti d’angoscia estrema. Voleva arrabbiarsi con suo figlio. Chi altri poteva essere stato se non lui? Avrebbe voluto dargli uno schiaffone, fargli una ramanzina che sarebbe durata fino a domani. Ma non era nell’indole della sua specie. Non era una donna umana iraconda. Ignorava e continuava a faticare tutto il giorno per sfamare il piccolo ingordo che a distanza di qualche giorno l’aveva superata in stazza e in voracità. La sfortuna aveva voluto che il giorno in cui l’unico uovo ancora rimasto iniziasse a rompersi, lei fosse proprio lì a imbeccare l’affamato fratellastro. In pochi secondi l’irruenza del gigantesco piccolo di cuculo spingeva giù dal nido a schienate il neonato sotto gli occhi dell’ afflitta madre. L’odio verso lo schifoso ciccione, immondo assassino, le perforava le tempie. La tela era ormai rovinata e il sospetto che quello non fosse altro che un impostore le si era insidiato dentro, ma non nel profondo. Nel suo cuore lei era ancora la sua mamma, lo aveva visto nascere e crescere fino ad occupare quasi tutta la capienza del nido. Al suo cuore forse piaceva fingere. Le notti le passava fuori dal nido. Dentro non ci stava.
Dopo l’ultimo pasto, dopo aver svuotato di qualsiasi energia quel povero corpicino succhiato a dovere, il cuculo partiva per sempre verso nuovi orizzonti, al caldo. Lasciava con una freddezza inaudita la cannaiola provata e stanca nel suo nido nuovamente vuoto.
Solo nero ora.
Nessuna tela, nessun museo, nessuna emozione, solo nero.
Lo prendeva a beccate e lo squarciava, nella sua anticamera del cervello ballava in preda ad un raptus.
Viveva il resto della sua vita a pezzi, disarticolata, smaterializzata. I brandelli che galleggiavano nel mare di petrolio che aveva dentro non le davano più alcuna ispirazione.
Non mangiava, non beveva, non volava, stava ferma a farsi divorare.
Moriva, sola, non realizzata, usata e gettata, col rimorso di essere stata una pessima madre.
   
 
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