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Autore: civetta_rossa    17/03/2015    0 recensioni
E' la prima storia che pubblico. Diversi sono i temi trattati: la guerra, l'amicizia, le migrazioni, la bellezza dei bambini,la ricchezza della diversità, l'amore per la propria terra. Ho scelto come protagonista Francesco, un bambino rapito dalla sua terra che con un compagno di fuga arriverà in Italia. Francesco inizierà questo racconto, poi voi scoprirete come andrà a finire. Ps. mi farebbe molto piacere leggere le vostre recensioni, sia positive che negative, perchè voglio capire se la scrittura fa per me o è meglio che mi dedichi ad altro ;)
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Africa – Parte I
Mi chiamo Francesco e oggi, 12 gennaio 2009, una mia amica, con la quale sto andando in Italia in cerca di una vita migliore, mi ha regalato questo quaderno dove voglio scrivere la mia storia.
Per la lettura: il diario originariamente era scritto in inglese, ma Francesco ha scritto in arabo i dialoghi che lui ricorda di aver ascoltato o le parole da lui dette in quella lingua. Per tradurre l’arabo verrà utilizzato il grassetto.
Cap. I
Andare sempre avanti
“Nascesti il 12 marzo del 1996.I tuoi genitori ti chiamarono Francesco in memoria di un turista che tua mamma incontrò poco prima di partorire. La povera donna aveva doglie da molte ore e la levatrice del villaggio disperata disse che non riuscivi a venire fuori. Solo un medico avrebbe potuto salvarti. Tuo padre la fece salire nel vecchio mulo di cui tutti al villaggio si servivano per arare i campi e iniziarono a camminare verso l’ospedale distante circa 20 km. A metà strada tua madre era ad un passo dalla morte ma un turista a bordo di una jeep, di nome Francesco le diede un passaggio e la portò in poco tempo in ospedale. Tuo padre preferì continuare il suo viaggio con il mulo. La donna non riuscì a salvarsi e tu rimanesti lì parecchi giorni. Tuo padre arrivò in ospedale la mattina dopo e il tuo salvatore ti lasciò nelle sue mani. Quando fosti dimesso ritornasti a casa. Così iniziò la tua vita.”
Questo era ciò che mio padre mi raccontava ogni volta che chiedevo un nome diverso. Questo perchè nel mio villaggio solo io avevo quello strano nome e i miei piccoli compagni di giochi a volte mi prendevano in giro per questo. In famiglia rimanemmo in due e la vita per noi non era affatto facile. La mattina andavamo a cacciare, poi lavoravamo il nostro piccolo podere e infine, la sera, cucinavamo tutto ciò che eravamo riusciti a prendere durante la giornata; mio padre riusciva a non mangiare per diversi giorni ma era fondamentale per lui che io riuscissi a mettere sempre qualcosa sotto i denti. Era sempre allegro nonostante le molte difficoltà che dovette affrontare. Piangeva solo la notte, dopo essersi assicurato che io dormissi. Era uno dei pochi adulti che, nel nostro villaggio, aveva avuto la fortuna di andare a scuola e perciò ogni sera, prima che andassi a dormire, condivideva il suo sapere con me che purtroppo, per come andavano le cose, non potevo avere quella fortuna. Mi insegnò a leggere e a scrivere. Amavo imparare e all'età di sei anni ero già diventato più bravo di lui. Nel poco tempo libero che avevo, andavo in giro per il villaggio e ricopiavo per terra con un sassolino tutto ciò che mi capitava di leggere, anche quando non ne conoscevo il significato.
Una notte mi svegliai di soprassalto e ciò che vidi non mi piacque affatto … Non ero più nel mio letto ma disteso sopra una brandina rivestita con la paglia; pensai fosse un sogno ma la mattina dopo fui certo che non lo era. Non indossavo più la mia maglietta bianca e i miei pantaloncini blu ma avevo una divisa verde tutta pulita e ai piedi per la prima volta indossavo delle scarpette. Perché?
Arrivò una donna nella stanzetta in cui mi ero ritrovato. Aveva la pelle molto più chiara della mia e a me non sembrò affatto una delle dolci donne del villaggio. Era molto grossa, brutta e aveva dei baffetti sopra e sotto le labbra; anziana e con indosso un vestito bianco che non nascondeva affatto i vomitevoli rigonfiamenti di ciccia nei fianchi e nella pancia; aveva un enorme doppio mento ma la cosa che a me impressionò di più fu il suo sguardo feroce e affamato. Mi spiegò con voce piatta ciò che io ero diventato e mi intimò di non fare domande perché aveva da poco comprato un frustino che voleva provare al più presto. Mi spiegò che da quel momento ero diventato un soldato “per fortuna” già da bambino al servizio dell’esercito e che pian piano sarei stato sempre più temuto dal popolo; il mio compito all’inizio della mia “splendida” carriera non era imparare a utilizzare le armi ma andare sempre avanti: dovevo precedere l’esercito con altri soldatini per intimorire il nemico. Ero piccolo ma non stupido e sapevo quindi che il mio compito non era intimorire non potendo un bimbo far paura a nessuno. Cercai comunque di credere alle sue parole e di vedere nella mia nuova vita i lati positivi come mi aveva insegnato mio padre.
Dopo una colazione più che degna per me ( pane e acqua), la donna mi fece uscire dalla stanza e mi disse che potevo fare un giro per vedere il magnifico posto in cui mi trovavo ma che al fischio dovevo correre e andare dove c’era il palo sul quale era legata la bandiera. Iniziai a gironzolare senza meta in quel posto che purtroppo io non vedevo così bello come mi era stato descritto: era un campo aperto delimitato da reti e filo spinato nel quale c’erano molte casette ricoperte di stucco bianco. Ogni casetta era perfettamente rettangolare e aveva solo qualche fessura in alto, chiusa con qualche grata arrugginita; non avevano porte ma solo saracinesche chiuse con molti lucchetti sulle quali con una vernice rossa molto tempo prima era stato fatto un segno diverso.
Il fischio non tardò ad arrivare e io feci come disse la donna; man mano che mi avvicinavo alla grande bandiera notavo che quasi tutte le saracinesche si stavano aprendo e che da esse uscivano uomini e bambini con la mia stessa divisa. La bandiera si trovava in uno spiazzo dove si disposero in file perfettamente parallele tutti i soldati. I bambini che avevo notato prima erano tutti disposti sull’attenti quasi ad un passo dalla bandiera. Andai vicino ad un bimbo della mia stessa statura e imitai la sua buffa posizione: era ritto in piedi, spalle indietro, braccia lungo il corpo e sguardo in avanti. “Ti piace davvero tanto quel palo?” chiesi ingenuamente pensando che per la bellezza era rimasto con gli occhi spalancati e con quello sguardo vuoto; non rispose e allora pesai fosse stato più saggio rimanere in silenzio.
 Arrivò un ometto con i baffi che indossava una divisa simile alla nostra. Si fermò davanti alla bandiera e iniziò ad impartire ordini alquanto stupidi: diceva attenti e tutti battevano all’unisono i piedi, poi riposo e tutti divaricavano le gambe e mettevano le mani dietro la schiena; dopo un po’ di "attenti" e "riposo" iniziò a parlare: “Fate un passo avanti i nuovi!”- io e molti altri piccoli obbedimmo immediatamente –“ Siete 12 secondo i miei dati e il vostro compito vi è già noto; i vostri nomi da oggi non sono più quelli che avete dalla nascita ma per motivi di comodità verrete chiamati con un numero. I vostri numeri sono dal 245 al 257. Avanzate ad uno ad uno pronunciando il vostro numero!”; compresi la situazione immediatamente e, poiché non avevo ancora una grande dimestichezza con i numeri, decisi di farmi avanti per primo prendendo come nome il 245 che avevo appena sentito; i miei compagni di sventura non si fecero avanti subito perché anche loro avevano cinque anni circa e non sapevano ancora contare; l’ometto dopo aver sbuffato comprendendo la situazione li indicò uno per uno e urlò il nuovo nome. I giorni passati in quel campo, che poi appresi si chiamava base, erano noiosissimi e ripetitivi: la mattina dovevamo assistere all’issa bandiera e poi noi bambini dovevamo pulire la base mentre gli altri si allenavano con le armi; il pomeriggio invece dopo un pezzo di pane e un po’ di acqua facevamo tutti esercitazione di guerra dove noi dopo aver preceduto l’esercito sedevamo per terra e giocavamo con i sassolini.
Ma a metà novembre, dopo tanti giorni di monotonia, all’ issa bandiera il buffo ometto annunciò finalmente che era arrivato il momento di vedere di cosa eravamo capaci perché quel giorno si sarebbe combattuto veramente .
   
 
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