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Autore: Helmyra    18/03/2015    3 recensioni
“Mi piace la musica,” commentava l’estraneo, nella vita e nel dolore di Elanilde, “e mi serve uno scudiero. Canterai per me di sera, quando i soldati saranno in congedo e noi due soli, in qualsiasi luogo che abbia attorno quattro mura. Ti terrò per questi motivi, e quando non sarai più utile... ti ucciderò”.
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Spin-off di "A wine of character". Nuovi personaggi e nuove situazioni, a parte la presenza di Dorisa e Sanguine.
Elanilde si prepara al suo debutto in società, attendendo l'assenso di Voranil, gentiluomo e mecenate di Cheydinhal.
La guerra è finita, ma le conseguenze del Concordato d'Oro Bianco forniscono ai Thalmor un'occasione di vendetta.
Genere: Fantasy, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Dovahkiin
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Daedric Maidens'
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Una finestra, una folla di comignoli a rincorrersi l’un l’altro, l’azzurro perfetto delle montagne oltre le mura.
Anche le foglie degli alberi, i teneri papiri sul letto del fiume, vibravano al suono del diapason. Accordava il liuto, e in uno schiocco di dita le ore si fermavano all’imbrunire. Serrava il manico, ben attenta a non tirare troppo le corde e ad identificare il tono giusto. Uno, due, tre.
In un vasetto di vetro l’esile ramo di melo. Aveva studiato letteratura, geografia. Memorizzato lo spartito, declamando le note a bassa voce. Gli esercizi erano quotidiani, ma la speranza s’acquattava dietro le tende, sollevandosi al davanzale, nel giorno di Fridas.
Sarebbe giunto il suo turno, prima o poi avrebbe sceso la scalinata e partecipato con gli altri ospiti ai balli organizzati dal padre ogni settimana. Avrebbe incontrato il Conte, la nobiltà a corte, i letterati e gli artisti della città. Sarebbe stata condotta per mano dalla madre al centro della stanza, e avrebbe cantato; come già faceva durante le sere di festa dalla balaustra. Una pausa media, non più di tre battute, intervallava l’acuto finale dagli applausi entusiastici dei convenuti. Altre due battute, e anche la paura di sbagliare, un bandito nel fitto della Foresta Nera, si dissolveva in un lampo.
Immaginava il suo debutto in primavera. Con il risveglio della natura, un frizzante arpeggio. Sperava che, quella sera, il padre la facesse chiamare per cantare in platea, e non dall’alto della galleria.
Non chiedeva altro, Elanilde, nel fiore della gioventù e fantasticando ad occhi aperti; badando al rumore più impercettibile, sensibile ai significati delle parole, alla loro melodia.
Ancora ignara dei rivolgimenti in atto.
 
Voranil convocò la servitù al centro della sala, ed impartì ordini chiari, decisi; com’era di consuetudine. Fiori freschi, raccolti in giornata, per decorare la sala e suggerire un pizzico di novità. Arrosto di montone, patate al forno ben speziate, vino rosso dei fratelli Surilie accompagnato dal richiamo pungente di chiodi di garofano, dalla grazia semplice dell’anice stellato. Attorno ai candelabri, nastri cerulei e boccioli d’arancio. Un bardo, un flautista. Pochi accorgimenti, ma giusti. Cheydinhal attendeva Fridas, ed egli attendeva Cheydinhal in un continuo sfoggio di sottile ostentazione. Essere invitati alle cerimonie di Riverview non era un onore, quanto un privilegio. Parco nel distribuire gli inviti, e ancor più reticente ad allargare la cerchia, il padrone di casa deteneva le redini di un potere subdolo, quello dell’arte, del buongusto.
“Cosa deciderai di fare?” Chiese la moglie, Saranwe, posandogli una mano sulla spalla. “Si esercita da mane a sera, è ben allenata ormai. Non è saggio attendere oltre.”
“Al momento giusto,” Soggiunse Voranil con simulata disattenzione, studiando le mosse dei domestici, “è il nostro futuro, dobbiamo alimentare un clima d’entusiasmo, d’aspettativa. Si continuerà a parlare dell’usignolo di Riverview in paesi e contrade. Uomini di spicco onoreranno questa casa, si contenderanno il favore del Conte per una buona parola, pur di assistere ad uno dei suoi concerti. Ci pensi, cara? Il conte Farwil Indarys a rispondere per noi, a conferire il permesso di una visita. Nessuno varcherà la soglia senza un invito... finché i tempi lo permettono, le danze saranno aperte.”
Saranwe si ritirò in silenzio, incapace di opporre resistenza. Il marito era impegnato a rivivere i fasti di un’epoca andata, di stabilità politica e solidità dei valori. Cattive nuove giungevano da Leyawiin, racconti sconcertanti da Valenwood, Hammerfell, Skyrim. Le danze erano aperte, ciò era innegabile – quando sarebbe cessata la musica, quale sarebbe stato l’ultimo giro di rondò?
Si accostò alla toeletta, prese ad armeggiare con boccette di unguenti e recipienti di polveri finissime. Ogni giorno, ogni sera poteva rivelarsi fatidica. Si coricava a letto e si levava ripetendo le solite azioni, illudendosi di vivere una normalità fatta di facezie e insulse banalità. Le ore passavano, i rintocchi della campana la sfioravano col loro riverbero angosciante.
Intendeva far pressione sul marito, affinché si decidesse a fare di Elanilde una debuttante. Ed egli, intoccabile, sordo a qualsiasi supplica, rimandava all’infinito. Afferrava ago e filo, quando non riusciva a tollerare il peso dei suoi pensieri, e ricamava scene di festa, frutti in pieno fulgore; si concedeva la stravaganza di un disegno geometrico, di abbinamenti bizzarri. Poco le restava per sperimentare, per vivere.
Gli stranieri erano alle porte della città: avrebbe regalato alla figlia il primo e l’ultimo dei bei ricordi.
 
Entrarono in religioso silenzio, circospetti e rigorosamente in fila, l’uno dietro l’altro.
Il tempo di una preghiera, di una benedizione veloce. Tullius Favellio, cappellano del tempio di Stendarr, si sollevò dall’inginocchiatoio e andò loro incontro. In tempi ostili, pellegrini ed esuli rinfocolavano la fede, davano ad un vecchio parrocchiano la ragione per andare avanti. Ormai rassegnato a vivere nei suoi ultimi giorni il declino di un Impero, aveva consacrato se stesso alla contemplazione dei Nove, al culto di colui che fu.
Ritmando col bastone i passi verso l’ingresso, cantilenava un’antifona per accogliere i nuovi venuti. Sulla lingua del brav’uomo, i versi si coloravano di una malinconia placida, in un limpido struggimento.
“Stendarr sia con voi!” Esultò, chinando umilmente il capo. La vista offuscata gli aveva restituito delle figure sobrie, tutte velate da un cappuccio e dalla lunga palandrana. Alzò le mani al cielo e li benedisse nuovamente. L’individuo in testa alla fila, dopo essersi voltato per assicurarsi il tacito assenso dei seguaci, rinunciò alla copertura rivelando una chioma lunga, lattea; e profonde rughe altere sul volto smagrito dalla guerra.
“Inquisizione Thalmor.” Tuonò, gettando a terra la spada elfica. “Varelmo, Comandante in carica delle truppe di stanza a Cyrodiil. In questo momento, rappresento l’autorità del Dominio Aldmeri sul vostro territorio. Pertanto, in osservanza del Concordato d’Oro Bianco e in qualità di suo garante, dichiaro la confisca di qualunque oggetto che rechi l’effigie di Talos, più la sconsacrazione degli altari e, in caso di resistenza, la possibile dimissione.”
Recitò il proclama senz’anima, con la sua voce pedante, metallica; completamente estraneo al dolore che gli stava infliggendo.
Tullius giunse le mani al petto per sostentarsi, per non cadere, e comprese. Sicché, era giunta l’ora della resa: il disco calante del sole s’abbatteva su anni ed anni di odi innalzate al cielo come l’ascia del boia. Trattenne le lacrime, frastornato; tradito nell’intimo del suo essere.
“Lasciate che vi mostri il tempio.” Li dissuase, in una mossa disperata. “I nostri cittadini lo hanno abbellito, vezzeggiato per secoli. Il rosone risale a duecento anni orsono, fu il padre del famoso pittore Rythe Lythandas ad idearne il disegno, a sceglierne personalmente i vetri. E anche l’altare centrale, coi suoi fratelli minori nelle navate laterali, decorati con  le migliori stoffe ed aspersi ogni dì con l’incenso della foresta. Il nostro mecenate...”
“Il nome.” Biascicò Varelmo, oltremodo infastidito. “Il nome. Chi è che cura l’altare di Talos? Qual è la sua posizione in città? Avanti, parla!”
“Voranil, signore...” Spiegò Tullius, cercando di mantenere la calma nella disperazione. “Egli appartiene alla vostra gente, ma è figlio dell’Impero. Vive in una bella magione accanto al fiume, con la signora e la fanciulla più chiacchierata in città. Essi onorano gli Déi; essendo patrono delle arti e gentiluomo, lord Voranil crede nella pluralità d’idee, nella libertà di culto...”
“Basta così.” Con un gesto, il comandante richiamò il suo secondo, un giovane dal temperamento oscuro e gli occhi da lupo, animato da un ghigno arrogante. “E ora a te, vecchio. Rinunci a Talos? Rinunci al falso dio e al credo ad egli annesso?”
“Io...” Due soldati s’avventarono contro il piccolo altare. Svelsero i fiori dai vasi, e con essi volarono via anche le giare d’ottone. Nel cadere produssero un tintinnio sordo, un singulto strozzato. Quattro braccia lo bloccarono, lo braccarono; le giare, poco distanti, giacevano ammaccate, dimenticate.
La sua vita, il suo cuore!
“Allora, monaco?” Varelmo lo sovrastava, mentre gli altri erano impegnati nella profanazione, a far saltare in aria la colonna scanalata con globi infuocati. Tullius proruppe in un pianto agghiacciante, al tempo stesso liberatorio.
Si disputava a dadi la sua salvezza. Quella del corpo, quella dell’anima.
 “No!” Urlò, e una folgore argentea gli sconquassò il petto.  Un raggio di luce filtrò dal rosone, Tullius fu invaso da una scia di prismi iridescenti, di lampi colorati. Mara, pietosa, aveva steso la mano su di lui; era pronto, pronto per annullarsi nell’Etherius.
“Povero pazzo...” Sogghignò Varelmo, raccogliendo la spada. Non un’arma, non una goccia di sangue violarono la quiete del tempio. La morte, però, disponeva di svariati mezzi per incrementare il suo seguito.
E uscì spalancando il portone, così com’era entrata, avviandosi verso il centro della città.
 
Gli ospiti si erano riuniti nel bel mezzo della stanza, per onorare il signore della casa, per dare inizio alle danze. Voranil dispensò inchini e sorrisi affettati, al contrario di Saranwe, che se ne stava all’ombra del marito scongiurando il peggio.
Le era giunto alle orecchie il frastuono, l’eco delle urla provenienti dalla riva opposta. Dunque era iniziata l’epurazione; il gioco di convertiti e rinnegati, di eretici e sostenitori. Puntava uno sguardo vuoto sui cortigiani; passò in rassegna i volti, pronunciò a bassa voce i nomi per non dimenticarli. In un attimo di debolezza strofinò il naso, le guance, contro la schiena dell’amato. Esalò il suo profumo, fu appagata dalla morbidezza di velluto delle vesti. Gli cinse le mani attorno alla cintola: lui pose le sue su quelle della moglie.
“Ti amo.” Sussurrò, affinché lui solo udisse. L’altro apprezzò, senza capire.
Bussarono alla porta. Una volta, due, e una volta ancora. Il Conte si era assentato col pretesto di un impegno urgente; Voranil confidò fino all’ultimo in un ripensamento, in un mutamento delle circostanze.
Anton, arruolato nella guardia cittadina e guardiano di Riverview durante i balli, era piegato a terra e tossiva, sputando sangue. Cinque figure lo sovrastavano in cerchio, a compiere un insolito rituale.
“Cosa volete, signori?” Balbettò Voranil, riportato bruscamente alla realtà.
“Partecipare alla festa.” Asserì l’inquisitore, con le dita frementi sull’elsa. “Valermo, soldato e servo del Dominio Aldmeri, fratello altmer. Abbiamo il piacere di ricevere ospitalità nella vostra... casa?”
Dopo un attimo d’esitazione, Voranil fece loro cenno di seguirlo. Saranwe si era parata di fronte l’arco che dava sul salotto, per risparmiare ai convenuti un freddo benvenuto. Non riusciva a credere che il comandante e il suo giovane aiutante fossero elfi alti, proprio come loro: non traspariva alcuna simpatia, alcuna gioia dai loro volti barbuti. Le uniformi di foggia esotica suggerivano una falsa rassicurazione: di sicuro, sotto le lunghe palandrane, indossavano corazze e gambali che li avrebbero difesi da un attacco alle spalle. Calpestavano i tappeti senza riguardo, adocchiavano frenetici i quadri, gli arredi, le suppellettili sugli scaffali. Saranwe si scostò a lato, badando bene a tenere il capo chino, a non alimentare la rabbia dei soldati.
Per puro caso, o ineluttabile fatalità, la sua mitezza attirò l’attenzione di Valermo; e a quel punto le labbra taglienti si aprirono in una languida sorpresa, gli occhi torvi e infossati furono animati da una vitalità nuova.
Cedé all’impeto indescrivibile, capitolò di fronte all’ardore ritrovato, sepolto sotto cumuli di macerie. Non era affatto come le silfidi delle isole Summerset, esili e dall’incarnato pallido. Tutto, in quella dama, suggeriva floridezza, appagamento dei sensi. Ed egli stesso si sentì inadeguato, un vecchio ronzino con l’anima focosa del purosangue. Il viso tondo dalla fronte ampia, gli occhi grandi e leggermente inclinati verso l’alto, scuri come corteccia bagnata, gli suggerivano pensieri lascivi. Lo attiravano la curva tra il seno ed i fianchi, le rotondità castigate sotto un abito da donna maritata. Dimenticò la guerra, l’onore, il dovere verso la patria.
“Mia signora...” Salutò con un marcato accento aldmeri, scoprendo i lunghi capelli. Saranwe percepì la rapacità insita nella sua cavalleria, e ondeggiò indietro, aumentando le distanze.
Gli ospiti si radunarono attorno al tavolo, ignorando l’intrusione ed allietati da un sottobosco di note musicali. Attendevano l’approvazione e gli onori del padrone di casa, deciso a non cedere il potere del suo regno e a fornire rassicurazioni. La moglie, invece, chiamo a sé le gentildonne ed improvvisò dei giochi.
Non era abituato ad esser trattato come merce di second’ordine, non lui, che incuteva timore e soggezione al suo passaggio. L’inquisitore si staccò dalla sua costola, abbandonò le retrovie e raggiunse Voranil, proprio nel momento in cui era al centro della sala per annunciare l’evento più atteso della serata.
“Amici, ecco la gemma della casa, ecco il tesoro nascosto che io e mia moglie custodiamo tanto gelosamente. La notte è lunga, ahimè, e la vita talvolta ci sembra breve, troppo breve. La nostra dolce creatura vive notti brevi e ha davanti a sé un futuro brillante. A tutti voi, e soprattutto ai due stranieri, dedicherà una canzone che ella ama particolarmente, un capriccio di sentimenti. Odio e passione, dolore e abnegazione, tumulto ed estasi. Salutate Elanilde, infondetele un po’ di coraggio!”
Una manina percorse la balaustra, l’orlo del lungo abito di seta frusciava contro la ruvidità del pavimento. Un visetto tondo, timoroso, occhieggiò verso i presenti. Respirava lentamente, ricordando cosa le aveva consigliato il padre nei momenti d’ansia: evoca un pensiero lieto, fingi di essere davanti l’altare, ad offrire la preghiera agli Déi che accettano tutto, persino gli inceppi e gli sbagli.
“Ondolemar...” L’inquisitore aveva guidato battute di caccia, campagne di guerra, feroci stermini contro chiunque si fosse opposto alla nuova legge. Adesso puntava il mento verso l’alto, invitava il giovane alleato ad osservare quella figuretta timida, quella primizia acerba. Una folla di candele innalzava una barriera fra lei e il pubblico, ma il mistero durò poco.
Gli occhi azzurri della piccola cantante si fermarono proprio su di lui. Ondolemar ricambiò con diffidenza.
Intonò una strofa, poi un’altra. Le sillabe vibranti, gli acuti argentini, gli entravano nelle orecchie e s’insinuavano nel cervello, provocandogli un dubbio atroce. Era proprio sicuro di aver di fronte una ragazzina innocente, e non una consumata ammaliatrice? Il timbro di voce caldo, da sirena, lo invitava all’abbandono. Provava vanamente a convincersi che fosse la canzone ad ispirargli voluttà, non l’interprete. E malgrado ciò era rapito, completamente schiavizzato. Non aveva vergogna alcuna: della perdita di lucidità, della lussuria che gli riscaldava le membra.
In quella casa dimorava il peccato, era bene rifuggirlo.
E il senso di smarrimento – la sordida corruzione – stavano avendo la meglio su di lui: destinato a seguire le orme del suo mentore ed ossessionato dai codici morali.
Qualche volta, la musica si divertiva ad accendere il lume di un sentimento; l’interno del suo essere, di tanto in tanto, brillava come una cripta umida illuminata da ceri votivi. Le fiammelle fluttuavano nel vento e poi si spegnevano.
“Sono fiero di lei, un giorno andrà alla Città Imperiale e studierà presso la migliore insegnante che riuscirò a trovarle. È presto, adesso, per nulla al mondo mi priverei della sua compagnia!”
Il padre. Valermo sguainò il pugnale, la sala risuonò di un coro di gemiti.
“Mi hanno detto, al tempio, che l’altare di Talos è sotto il vostro patrocinio. Confermate?”
“È la verità.” Osservò Voranil, laconico.
Gli ospiti si trassero indietro: gli artisti, gli scrittori, i nobiluomini. Saranwe lanciò uno sguardo disperato alla figlia, che corse via, per barricarsi dietro le porte della sua stanza.
“Perché lo fate? I nostri numi sono Auri-el, Trinimac, Phynaster. Non abbiamo bisogno di un essere inferiore, che un popolo altrettanto inferiore ha assurto a divinità per motivare il proprio dominio. L’Impero crollerà, è già in crisi. Cosa vi spinge a rischiare?”
“Credo nell’uguaglianza, nella libertà d’idee.” Spiegò il mecenate, con calma. “Ho imparato ad apprezzare la bellezza in ogni cosa. Non mi ritengo superiore, né parte di un popolo eletto. Questa gente mi ha ospitato, ha dato una casa ai miei avi. Non conosco modi migliori per ricambiare, se non promuovere ciò che è ritenuto perfetto, assoluto.”
L’argento cesellato si fece minaccioso, inclinandosi in un arco subitaneo verso il costato.
“La vostra bellezza mi ripugna.” Berciò, come monito a se stesso, ai suoi istinti, e non al nemico disarmato. “Organizzate deprecabili festini, trattate la vostra carne come una teatrante, o alla stregua di una meretrice. Ah, accettabile, in fin dei conti – tanto basta donare al Tempio metà della rendita in oro di un terreno per ottenere un’indulgenza. Dite... anche vostra moglie è in vendita?”
Saranwe si parò davanti al marito, inondando lo straniero con tutto il suo disprezzo.
“Se non comprendete i nostri costumi, andate via da questa casa. Sgombrate il campo, abbandonate Cheydinhal. Volete un’abiura? Oh, certo – a parole saremo pronti a rinunciare a Talos, coi fatti, però... Non riuscirete ad impedire ai cittadini imperiali di amare un Dio, il loro Dio. Con un fendente di spada e qualche decapitazione non li dissuaderete, semmai, darete loro un motivo per imbracciare l’armi e farvi guerra.”
“Mia cara, va tutto bene. Sono colpevole, e alla fin fine non vi è nulla che possa fare per cancellare l’onta.”
Soldati! Al richiamo di Valermo, Ondolemar e la scorta, a cui si erano aggiunti altri guerrieri, si avventarono sugli ospiti. Indociliti dalle manette incantate, si abbandonarono alla disperazione e non opposero resistenza: li avrebbero interrogati, torturati forse, a meno che non avessero ostracizzato Voranil e rinunciato a secoli di spontanea venerazione. Seguirono l’esercito di altmer fuori al giardino, dove venne organizzata l’ordalia.
“Parla nella mia lingua,” insinuò l’elfo, assistendo inerme alla cattura di Saranwe, “la mia lingua, Thalmor, non la tua. Vuoi uccidermi? E sia, ma non farai mai del male a mia moglie e mia figlia... semmai puntassi la spada contro di loro, il mio spirito e la mia maledizione perseguiteranno tutta la tua genia. È questo che volete, vero? Seminare il terrore, dominarci con una sudditanza mentale e culturale. Sarà così, il nuovo Impero? Suppongo che non ci sia spazio per me, per nessuno di noi.”
Pose le mani in avanti, mostrando il segno della sua prigionia, di una paura incontrollabile che avrebbe contagiato i posteri, il frutto della disfatta.
“Solo per chi s’inchina e chiede la grazia.”
La risposta gli morì in gola. Si piegò in avanti, e non seppe, non volle. Le pupille dilatate fissavano il vuoto, Saranwe si contorse su se stessa e urlò, come se avesse una breccia aperta in petto; come se il corpo esanime sui mosaici le appartenesse; le era appartenuto in una comunione d’amore, in uno slancio di passione; e adesso?
Mia signora... Lo straniero, pronunciando frasi a lei estranee, le sfiorò una ciocca di capelli sfuggita al diadema. L’elfa chiuse gli occhi, e pianse lacrime ancestrali.
“Perché?” Domandò.
“Sarà il suo Dio a dargli la grazia, non io.” Proferì, con quella cadenza aldmeri che già detestava.
“Ho vissuto con lui alla vecchia maniera degli altmer. Senza Voranil, senza mia figlia, io non posso vivere. Uccidetemi...”
Afferrò il mento delicato tra le dita, studiò le guance pallide, le lentiggini sul naso, che prima non aveva notato. Saranwe evitò i suoi occhi gialli, malevoli; la barba e i baffetti oleati e ben pettinati. Scivolò indietro, scaraventando all’aria un vaso di porcellana e una statuina di vetro; mentre Valermo, spianando le ali, si gettava in picchiata verso di lei.
“Uccidetemi!” Lo pregò invano, urtando contro le gambe di una sedia e rannicchiata sulle piastrelle colorate. L’aveva immobilizzata col peso dell’armatura, ogni pezzo era una piuma che si librava in aria, per poi schiantarsi contro il muro di mala grazia.
Sei mia, adesso. Il vecchio ronzino aveva trovato l’amore in una donna che non ricambiava. Presto gli avrebbe dato dei figli, i suoi figli. Come schiava di guerra aveva ben poca scelta.
“Elanilde...” Boccheggiò, schivando una mano e prima che potesse imbavagliarla con un fazzoletto, “Elanilde... Scappa, mia vita. Va’ via!”
“Ondolemar!” Irruppe ancora una volta nel salotto intriso di sangue, e obbedendo al grugnito del superiore, consumò le scale in lunghe falcate. Apriva le porte delle stanze da letto una ad una; ogni cosa tremava attorno alla ragazzina, o forse, era lei stessa a farlo sotto lo scrittoio.
Si accartocciò, nascondendo il capo dietro le ginocchia, era uno scricciolo infreddolito tra la neve. Pregava e piangeva, colta dall’ansia di non poter scappare, di non poter sfuggire alla mano che la stava trascinando via.
“Finalmente ci incontriamo, viso a viso.” Non era una minaccia, quanto una semplice constatazione. Lo straniero la prese per le braccia e la scosse, per strapparle una reazione, ma non accadde nulla. Scostò la lunga treccia dalle spalle, le tirò un buffetto sulle gote umide: Elanilde piangeva, piangeva in silenzio e non fiatava, come una creatura ebete o una bambola di porcellana.
“Dovrò decidere cosa fare con te.” Continuò lui, in una totale mancanza d’empatia. “Non avrai vita lunga là fuori. Sarebbe un peccato...”
Ondolemar sfoderò il pugnale: la fanciulla aveva già chiuso gli occhi, serrando le labbra e digrignando i denti. Non te ne accorgerai, pensava. È solo un attimo, nulla poi avrà più senso.
La treccia cadde a terra, in un tonfo improvviso. Sentì la lama sul retro del corpetto, sulle maniche attillate dell’abito: non indossava più nulla; fuorché la sottoveste, in parte lacerata dal pugnale, e le scarpette di velluto che erano state di sua madre.
“Mi piace la musica,” commentava l’estraneo, nella vita e nel dolore di Elanilde, “e mi serve uno scudiero. Canterai per me di sera, quando i soldati saranno in congedo e noi due soli, in qualsiasi luogo che abbia attorno quattro mura. Ti terrò per questi motivi, e quando non sarai più utile... ti ucciderò”.
La sollevò da terra, portandola in braccio. L’elfa si rilassò, solo per brevi istanti: il silenzio era rotto da lamenti soffocati, singhiozzi che si succedevano l’un l’altro; una fontana rotta.
Poi lo vide: il taglio netto, la carne squillante, lo strazio sanguinolento. Il volto del padre, tanto orgoglioso di lei, raggelato in un’ultima manifestazione di sgomento.
E sua madre, legata e messa a tacere, tra le braccia del comandante Thalmor. Non ci credeva, non voleva crederci.
“No!” Strillò, caricando di pugni il torace dello straniero, dibattendosi come un’indemoniata e desiderando di addormentarsi in un sonno placido, da neonata, per non svegliarsi mai più.
Le avevano strappato tutto: l’affetto, i sogni da adolescente, le speranze, persino la vita.
Tuttavia, nessuno fece caso al cuore ferito di Elanilde, poiché assieme ad esso perse anche la voce. E così avvenne: rimase muta, subendo l’alternarsi di soli e lune per inerzia, augurandosi che presto la spada dei Thalmor sarebbe ricaduta anche su di lei.
 
 

A volte ritornano... presto. Come al solito mischio cose vecchie e cose nuove. Cerco di praticare strade in salita, e forse mi fisso coi personaggi meno simpatici o appetibili (thalmor più adolescente non è molto invitante, lo so... per fortuna, nei prossimi capitoli ci sarà una differenza temporale notevole). Questa storia è nata da una frase che ho scritto in quella che la precede, A wine of character. Se non l'avete letta, non c'è problema. Vi basta sapere solo che alcuni personaggi sono tratti da lì, anche se in questo capitolo c'è solo gente nuova, huh.
Forse sono un po' ripetitiva? Non lo so. Ogni persona ha delle fissazioni, dei temi che ama in particolar modo, ma per quel che mi riguarda cerco (e spero...) di essere originale.
A dopo. :) Non vi preoccupate se non aggiorno presto. Il tempo di documentarsi bene, magari di continuare le altre storie.

 
 
 
  
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