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Autore: Shin83    20/03/2015    3 recensioni
Nel presente di Steve, torna ad affacciarsi qualcuno del suo passato.
Che aveva amato tanto ma che lo aveva anche molto ferito.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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That I almost believe that they're real







Steve non era tipo da perdere tempo a pensare cosa mettersi o uno morbosamente attento al suo aspetto.
A lui bastavano vestiti puliti, una doccia e qualche ora di palestra a settimana per stare bene con se stesso.
Nonostante tutto, però, riusciva a provocare parecchi giramenti di testa per strada, attirando involontariamente l’attenzione di ragazze e ragazzi, 
Non era ancora abituato a tutti quei complimenti, erano passati secoli da quando era di corporatura gracile, eppure, le attenzioni della gente gli procuravano un certo imbarazzo. Non faceva nulla per guadagnarsi di proposito certi commenti e ancora non aveva compreso a fondo le potenzialità del suo viso perfetto e del suo corpo statuario.
No, decisamente non aveva la minima idea di come gestire il suo aspetto fisico. E, per di più, non gli importava granché farlo.

Era dunque strano per lui rimanere davanti al suo guardaroba, con lo sguardo fisso nel vuoto, a pensare cosa fosse appropriato indossare per quell’ appuntamento.
C’erano, però, una serie di motivi per cui se ne stava come un vegetale a fare la rassegna del suo armadio.
Innanzitutto, attendeva una sera come quella da circa quattordici anni.
Aveva passato gli anni scolasti a fantasticare di uscire con Tony. Sognava sempre di andare assieme ad una mostra e poi a prendere un milkshake da Dunkin Donuts. Il suo preferito era il frappè agli Oreo.
In un certo senso, erano andati assieme ad una mostra. Che poi quella fosse stat finanziata da Stark e lui era uno degli artisti esposti, erano dettagli.
Mancava il milkshake, ma non erano più adolescenti, quindi la bevanda dolce era stata sostituita da un elegante aperitivo in uno dei locali più in di New York, il Bowery Bar, per la precisione.
Negli anni ’90 era IL locale della Grande Mela e dopo un decennio e poco più stava tornando allo splendore di un tempo.
Tony aveva un tavolo riservato per lui ogni qual volta desiderava andarci.

E fu in quel momento che si manifestò il secondo problema riguardo il  guardaroba di Steve.
Lui non era da Bowery Bar, lui era uno da pub, quei pub irlandesi che tanto gli ricordavano le sue origini europee, dove poteva andare a bere qualche pinta di Guinness con Bucky, mangiare patatine e guardare partite di calcio della Premier League inglese.
Lui era uno semplice.
Era andato così in panico quando la segretaria di Tony lo aveva chiamato per fissare l’appuntamento. Stark, ovviamente, non poteva chiamarlo direttamente, non era nel suo stile, che le aveva chiesto tre volte se ci fosse un dress code per entrare nel locale. La donna, pazientemente, gli aveva risposto di no, bastava un look casual.
Ma Steve sapeva benissimo che il casual che andava al Bowery Bar non era lo stesso di chi frequentava il White Lion dietro casa sua.

Recuperò il suo paio di jeans meno sdrucito, la sua camicia bianca più nuova e la giacca del completo che indossava alla mostra, con la speranza che Tony non se ne accorgesse. Fissò per cinque minuti buoni la sua cravatta di seta azzurra, ma poi pensò che mettere ben due capi della stessa serata della mostra sarebbe stato davvero inopportuno.
Quella, Tony, l’avrebbe riconosciuta immediatamente e non poteva rischiare di fare una figuraccia così grossolana. 
Si vestì in fretta, avendo cura di non sciupare troppo la camicia. Allacciò le Clark’s nere ai piedi e controllò che il ciuffo fosse a posto.
Emily, la segretaria di Tony, gli aveva fatto sapere che una macchina sarebbe andata a prenderlo sotto  casa per le  sette e mezza.
Puntuale come un orologio svizzero, Ramon, il secondo autista di Tony, si fece trovare in Monroe Street, proprio davanti al portone del palazzo di Steve. L’imbarazzo di Rogers era ai massimi storici. Troppe cose nuove per lui e tutte in un lasso di tempo troppo breve per metabolizzarle.
D’altra parte, c’era di mezzo Tony Stark, e lui le mezze misure non sapeva cosa fossero. Non le aveva a quindici anni, figurarsi a ventotto, a capo di una delle società più ricche degli Stati Uniti e del mondo.
Steve salì titubante sulla Mercedes Benz classe S nera e lucida, salutò cortesemente l’autista che ricambiò con gentilezza.
Non disse una parola per tutto il tragitto, si limitò a tormentarsi le mani e a guardarsi attorno, come se fosse seduto in un’astronave anziché in un’auto di lusso.
Tanto, per lui, che una macchina neanche ce l’aveva, erano più o meno la stessa cosa.
Ogni tanto dava un’occhiata fuori. Le giornate ormai si erano allungate, era ancora piuttosto presto per essere buio, poteva, però, percepire il tramonto alle spalle degli immensi grattacieli newyorchesi. 

Steve arrivò al Bowery Bar esattamente dopo otto minuti di viaggio. Dovette aspettare almeno altri dieci minuti fuori dal locale, perché, come ogni personalità che si rispettasse, Tony Stark non poteva mai essere puntuale. Quanto meno ebbe il buon gusto di avvisare con un SMS, cosa più unica che rara, ma quello Steve non poteva saperlo.
Il ragazzo si mise ad osservare il capannello di anime speranzose che si era creato davanti alla porta di ingresso principale. Tutta una serie di giovanotti e damigelle tirati a lucido che speravano di centrare la loro lotteria personale e riuscire ad entrare in uno dei locali più selettivi di New York.

Steve non riusciva a capire tutto quell’affanno. Per cosa, poi?
In verità non era mai riuscito a capire fin dal liceo perché i suoi coetanei spendessero così tante energie nel dover avere i vestiti più alla moda, frequentare i posti giusti e soprattutto avere a che fare con la gente giusta. Che poi, chi stabiliva cosa fosse giusto o meno?
Preso dalle sue riflessioni, cercando di distrarsi dal pensiero che stava per passare una sera, più o meno, da solo con Tony, non si accorse che quest’ultimo era arrivato e lo stava fissando.

“Sa-Salve, Tony.” Lo salutò imbarazzato, grattandosi la nuca.
“Siamo ancora al lei, Steve?” Tony alzò un sopracciglio, non proprio infastidito, ma quasi. Anche se si accorse immediatamente dell’imbarazzo di Rogers e gli appoggiò una mano sulla schiena, invitandolo ad entrare nel locale insieme a lui.
In effetti Tony non aveva torto, che senso aveva darsi del lei, quando erano andati a scuola insieme? Il fatto che erano passati dieci anni e che Stark non si ricordasse minimamente di lui non erano una buona scusa per farlo.

I due saltarono la fila che serpeggiava dietro i cordoni di velluto, non senza un mormorio di protesta da parte dei potenziali clienti qualsiasi.
Tony si diresse direttamente alla porta e il buttafuori, non appena lo vide, fece un cenno con la testa, lasciandolo passare assieme a Steve. Quest’ultimo, per quale oscuro motivo, si sentiva in colpa nei confronti di tutti quei ragazzi che aspettavano fuori chissà già da quanto tempo e senza dubbio loro ci tenevano ad entrare in quel posto molto più di lui.
Una volta dentro, un’ondata di musica dubstep lo travolse. Si guardò attorno e si rese conto che in un posto del genere non c’era mai stato.
La musica, come aveva ben potuto notare, era parecchio alta e si domandò come diavolo la gente riuscisse a chiacchierare lì dentro.
Le luci erano molto basse, tutte sull’azzurrino, sembrava quasi di stare in fondo all’oceano.
Dall’esterno non sembrava, ma una volta dentro, gli spazi erano enormi. Il bancone del bar stava proprio in mazzo alla sala principale, era quadrato, con tutti e quattro i lati a disposizione dei clienti, i barman erano in tutto dodici, tre per ogni lato e si muovevano veloci ed esperti con i loro shakers volanti; dietro di loro si ergeva un grande blocco a specchi, con mensole fitte di bottiglie di alcoolici di tutti i tipi.
Gli sgabelli attorno erano tutti occupati, così come i tavolini che costellavano il locale. Steve si chiese se avrebbero mai trovato posto, in quel caos.
Non si era accorto, infatti, che nella parete opposta all’ingresso, c’erano tutta una serie di nicchie con tavolini e divanetti, separati dal resto del locale dagli stessi cordoni di velluto bordeaux che contenevano la fila all’entrata.
Alcune delle nicchie erano già occupate e Tony si diresse sicuro verso quella più riparata, dove c’era ad aspettarli un secchiello colmo di ghiaccio con una delle migliori annate di champagne Crystal.
Stark scostò il cordone e fece accomodare Steve su uno dei comodissimi divanetti in pelle nera. Erano morbidi e confortevoli, se non fosse stato per la sua agitazione e la musica assordante, il ragazzo ci si sarebbe potuto addormentare senza problemi.

Tony versò dello champagne in due flûte, per poi porgerne uno a Steve. “Allora, ti piace qui?” Urlò quel tanto che bastava per farsi sentire.
Steve fece per guardarsi attorno e annuì senza rivolgersi direttamente a Stark. Sapeva di avere i suoi occhi addosso e si sentiva tremendamente in imbarazzo. Bevve un sorso della sua bevanda, assaporando un gusto completamente nuovo stuzzicargli le papille gustative e azzardò: “Non ci ero mai stato in un posto del genere.”
L’angolo della bocca di Tony guizzò verso l’alto, risultando un mezzo sorriso soddisfatto. “Per me solo posti al top.”
Steve sollevò un sopracciglio, perplesso. Tony non era affatto cambiato, presuntuoso era da ragazzo e presuntuoso era rimasto. Molto probabilmente, e neanche a torto, stava insinuando che Steve non fosse sufficientemente altolocato per frequentare locali come il Bowery Bar. Quindi, finalmente, si rivolse a lui con un espressione in volto chiaramente interrogativa.
Tony percepì immediatamente di aver fatto una mezza gaffe e cercò di rimediare: “Immagino che voi altri artisti frequentiate posti più rilassati e, come dire… ispiranti.”
Oltre ad essere presuntuoso, era rimasto un'indiscutibile faccia di bronzo.
“No, in effetti sono abituato ad andare in posti di tutt’altro tipo. Magari dove si può parlare in tranquillità senza dover urlare o senza dover fare a botte per entrare.”
Touché.
Tony non perse il sorriso, ma era decisamente di altra natura, stiracchiato e forzato.
Steve era riuscito a tenergli testa, rispondendogli a tono. La cosa però lo intrigava, e parecchio, anche.
“Bé, devo ammettere che di solito non si fa molta conversazione in questi posti…”
“… L’importante è esserci.” Concluse la frase Steve, sogghignando soddisfatto, prima di dare fondo al suo bicchiere di champagne.
“Dì la verità, però, questo Crystal è proprio buono.” 
Steve guardò il suo flûte vuoto che aveva fra le mani. “Sì, ottimo.” Ammise, lasciandolo sul tavolino davanti a sé. Si strofinò le mani sui jeans guardandosi per l’ennesima volta attorno, ormai non più con un’espressione curiosa, semmai si stava mutando in annoiata. Pensò a quanto fosse ancora irrimediabilmente cotto di Tony, per accettare di passare una serata come quella, in un posto completamente fuori dalle sue corde. In quel momento, ancora di più che all’ingresso, Steve si domandò perché la gente si affannasse ad entrare lì dentro.
Tony, dal canto suo, aveva notato l’espressione interrogativa del ragazzo, sentiva che c’era qualcosa che lo attraeva in lui, oltre al bel viso e al fisico statuario.
C’era qualcosa in lui che lo rendeva diverso da tutti gli altri, qualcosa di speciale. Non si sforzava a voler entrare nelle sue grazie, non lo trattava con condiscendenza solo per non contraddirlo e dargli ragione a prescindere.
E poi gli ricordava qualcuno. Sentiva che quegli occhi di un azzurro che raramente si vedeva in giro, li aveva incrociati già da qualche parte. Gli ricordavano gli occhi dello sfigatello della scuola e in quel momento si odiò per avere una così corta memoria per i nomi.
“Mi ricordi qualcuno…” Buttò lì Tony, facendo strabuzzare gli occhi a Steve.
“Ah sì? Strano.” Mentì quest’ultimo. “Non ci siamo mai incrociati, prima.” Non era bravo a dire le bugie, quindi distolse lo sguardo dal suo interlocutore per evitare di incappare in figure barbine.
Tony lo scrutò ancora per qualche minuto, il profilo del ragazzo era perfetto, mandibola forte, lineamenti del viso delicati ma allo stesso tempo definiti, un naso così non l’aveva mai visto. O forse sì.
Scosse la testa come a voler scacciare l’idea che gli si era piantata in testa, non poteva mai essere quel ragazzino rachitico che frequentava la sua stessa scuola. Era impossibile. Quello era un cosetto minuto, che a stento superava il metro e sessanta, magro come un chiodo e debole da far paura. Inoltre era così sfuggente, timido.
No, assolutamente, non poteva essere lui, non sapeva neanche come gli fosse anche solo potuta venire in mente una cosa del genere.
Steve, nel frattempo, si era messo ad ammirare le sue scarpe e la noia iniziava ad essere evidente. Anche per quello, lui era un libro aperto: difficilmente riusciva a mascherare alcuni dei suoi stati d’animo, la noia era uno di questi.
Tony se ne rese conto praticamente subito e provo a buttare lì un “E se andassimo a cercare un posto più tranquillo, per chiacchierare meglio?”
Istantaneamente, Steve alzò il capo e lo guardò sorridente. “Ma certo, andiamo!”
Scattò in piedi, lisciandosi la giacca, guardando Tony con la speranza che non lo stesse prendendo in giro.
Tony lasciò andare un sorrisetto e si alzò, lentamente, facendo poi strada verso l’uscita. Per Steve, mettere piede fuori dal locale fu una boccata d’aria fresca, nonostante i fumi della città non fossero certo salubri.
“Conosco io un posto tranquillo dove andare.” A Steve si illuminò il viso e Tony lo guardò incuriosito. Quest’ultimo non poteva avere la minima idea di dove lo volesse portare Rogers.
“E’ a un paio di isolati da qui, possiamo fare la strada a piedi, se ti va.” Lo sguardo di Steve era così fiducioso che  Tony non riuscì a dirgli di no. Una delle cose che erano rimaste intatte del Tony del liceo era proprio la pigrizia titanica, Steve quindi sorrise e prese a camminare. Arrivarono a destinazione un quarto d’ora dopo.

Era un piccolo locale prefabbricato, che sorgeva proprio in mezzo alla selva degli imponenti grattacieli di Manhattan. Era grigio. Un po’ anonimo con la sua insegna al neon gialla e aveva grandi finestrone che lasciavano sbirciare dentro.
Era a pochi passi dalla New York Art Academy, l’università che aveva frequentato Steve. Lui era  stato praticamente un cliente fisso di quel posto, ci aveva passato spesso le ore buche tra una lezione e l’altra, il più delle volte esercitandosi sugli schizzi a matita o al carboncino; e poi lì ci facevano i frullati più buoni che avesse mai assaggiato.

Durante il tragitto, non si scambiarono molte parole, un alone di imbarazzo aleggiava su di loro. La situazione era parecchio inusuale per uno come Tony, che non riusciva mai a tenere la bocca chiusa.
“Siamo arrivati.” Fu Steve a rompere il silenzio, il quale, in un certo senso, svegliò Tony da un torpore metaforico,quest’ultimo scrollò la testa e guardò prima Roger e poi attorno a sé, riuscì a trattenere una mezza smorfia.
“Lo so che sicuramente non è il tuo stile. Ma ti assicuro che i milkshake sono straordinari e anche le ciambelle non sono niente male.” Steve concluse il suo incoraggiamento con una strizzata d’occhio, sapeva che le donut erano il punto debole di Tony e quest’ultimo gli lanciò uno sguardo interrogativo, chiedendosi come mai il ragazzo puntualizzò proprio su quel dolce, si disse che era sicuramente un caso e il pensiero di addentare una ciambella glassata lo travolse e si affrettò ad entrare nel locale, quando Steve gli aprì la porta con un gesto cavalleresco per farlo entrare.



La prima volta era capitato per caso. 
Era rimasto a scuola molto oltre la fine delle lezioni per aiutare il professore di arte a sistemare i lavori dei ragazzi del primo anno. Lui era ancora al secondo, ma si era sempre dimostrato disponibile ad aiutare l’insegnante fin dal primo giorno. 
Aveva raccolto le sue cose e si stava coprendo per bene in corridoio, faceva parecchio freddo quell’inverno e cagionevole di salute com’era, una bronchite sarebbe potuta arrivare facilmente.
Sentì un gran fracasso arrivare dall’altra parte di quell’ala della scuola. In quella zona erano sistemati i vari laboratori, compresi quello di arte e quello di scienze.
Sicuramente più incuriosito che preoccupato che qualcuno si fosse introdotto nella scuola – la vigilanza era efficientissima -, a passo svelto si avvicinò al laboratorio 55, quello di meccanica.
Più l’aula si faceva vicina, più erano riconoscibili le imprecazioni, oltre che i suoni metallici di materiale che si schiantava sul pavimento. E quella voce. Era inconfondibile. L’avrebbe riconosciuta in mezzo a mille.
“Acciaio di merda!” Lo sentì brontolare, una volta che raggiunse la porta.
Non si affacciò in modo da farsi vedere, fece capolino molto prudentemente, così che riuscisse a farsi un quadro della situazione a distanza.
Tony era in mezzo alla stanza, prendeva a calci delle lamiere e aveva un paio di occhiali da saldatore appoggiati sulla testa che gli scompigliavano i capelli, indossava una maglietta rossa con evidenti segni di grasso, jeans sdruciti e un paio di guanti di protezione.
Dall’odore pungente che impregnava la stanza, aveva sicuramente appena usato un saldatore; ipotesi prontamente confermata quando spostò l’attenzione sul grande tavolo da lavoro: l’attrezzo torreggiava in mezzo ad una selva di strani aggeggi, probabilmente circuiti elettronici.
A terra accanto a lui, invece, giacevano pezzi di metallo, acciaio, presumibilmente, visto che poco prima Tony stava imprecando contro quello. Lui non ci capiva granché e comunque stava ad una distanza tale da non poter analizzare bene cosa fosse tutta quella roba.

Sapeva che Tony fosse un asso in fisica e matematica, ma credeva fosse frutto di puro talento unito a molta fortuna. Capitava, alle volte, che ci fossero ragazzi che si impegnavano poco e niente in determinate materie ma ne uscivano sempre con ottimi voti, giusto perché erano semplicemente portati o bastava loro ascoltare la lezione perché i test andassero bene.
Pensava che Tony fosse uno di quelli,  che avesse una naturale inclinazione ai numeri e che gli bastasse il minimo sforzo per prendere la sua bella A+ nelle materie scientifiche.
Non aveva mai visto Stark come uno a cui potesse importare qualcosa  che non fossero le feste o le ragazze.
Invece era lì, evidentemente preso da quello che stava facendo e altrettanto evidentemente irato perché le cose non stavano andando secondo i suoi piani.
Non aveva la minima idea su cosa stesse lavorando, visto che lui con le materie scientifiche non ci andava granché d’accordo. Eppure lo incuriosiva, voleva saperne di più. Era già abbastanza cotto di Tony all’epoca, o, come preferivano sottolineare Peggy e Bucky, soffriva già abbondantemente della Sindrome di Stoccolma, ma era stato a partire da quel momento che aveva maturato la convinzione che dietro quell’armatura di cinismo e strafottenza si celava ben altro.
Lo percepiva, vedeva che sul suo volto irritato c’era passione, interesse.
Molto più tardi avrebbe scoperto che quella era anche voglia di dimostrare a suo padre che non era un incapace.

Dopo quella prima, casuale, volta le sue visite in incognito al laboratorio 55 erano diventate regolari. Aveva individuato gli orari del ragazzo e la postazione giusta per osservarlo senza farsi scoprire.
A sua mamma aveva anche raccontato una mezza frottola sui suoi continui ritardi.  Bugia che aveva le gambe così corte che Sarah lo avevaa scoperto neanche un mese dopo, non era proprio bravo a mentire. Per lei, il fatto che il figlio fosse gay non era mai stato un problema. Si preoccupava, come ogni madre, che il figlio potesse soffrirne, sapeva abbastanza bene di che pasta erano fatti i ragazzini dell’Upper East Side. Il suo Steve era la cosa più preziosa che avesse al mondo e sapeva che il suo animo fosse molto più forte del suo “involucro” così fragile, ma era pur sempre il suo bambino e non avrebbe mai voluto scoprire che qualcuno gli avesse spezzato il cuore.

Durante i suoi appostamenti, aveva scoperto che Tony stava lavorando su un robot. Per la precisione, su un braccio meccanico che gli sarebbe servito successivamente come aiutante tuttofare per i suoi progetti futuri e non solo.
Stark l’aveva ribattezzato Dummy e quando lo aveva sentito chiamarlo in quel modo, la prima volta, per poco non si era fatto scoprire. Stava per scoppiare a ridere senza ritegno; fortunatamente il buon senso e un sano istinto di conservazione lo avevano frenato giusto in tempo.
L’unica cosa che non riusciva a capire era perché avesse la necessità di fermarsi a scuola a lavorare sui suoi esperimenti. In fondo era il figlio di uno dei più grandi imprenditori nel settore dell’ingegneria elettronica e meccanica di tutti gli Stati Uniti.
Ma avrebbe imparato  a capire anche quello, col passare degli anni. O meglio, era strettamente legato al fatto che volesse dimostrare qualcosa a suo padre.

Amava vederlo lavorare, così preso e impegnato dai suoi progetti. Sembrava una persona totalmente diversa da quella che sfilava per i corridoi della scuola alla mattina, tutto preso da sé e da quello che rappresentava. 
Amava le espressioni sul suo viso, anche se molte volte indossava gli occhiali protettivi, così concentrato e immerso in quello che faceva. Ogni tanto, quando era particolarmente focalizzato su qualcosa, tirava fuori un accenno di lingua, sembrava quasi volesse controbilanciare i suoi movimenti. Era buffo, ma allo stesso tempo, più di una volta, gli si era seccata la gola a concentrarsi su quel singolo dettaglio.
Amava i suoi movimenti, così decisi e sicuri. Sapeva  quello che faceva, come sempre. E ogni tanto l’attenzione veniva catturata dai muscoli che si flettevano sotto la stoffa delle sue magliette. Tony non era mai stato imponente, anzi, tutt’altro, ma il suo fisico non era affatto male. Per lui era perfetto così.

Quell’abitudine gli si era attaccata addosso nel corso dei mesi, talmente tanto che spesso e volentieri le immagini di Tony al lavoro popolavano i suoi sogni. E quello che ne conseguiva erano lenzuola bagnate di sudore, gemiti nascosti sotto le coperte e mani appiccicose.
Quei sogni, quelle fantasie, quel darsi piacere da solo era l’unica cosa che aveva, l’unica cosa che lo legava a Tony, seppur in maniera immaginaria. Si diceva che un giorno gli sarebbe passata, che era solo una fase adolescenziale. Ci provava a dirselo, provava a convincersi che sarebbe stato così.




La serata, dopo quel primo intoppo, era proseguita tranquillamente. Avevano chiacchierato allegramente e Tony gli aveva fatto il terzo grado. Era una cosa nuova per Steve, solitamente era Stark al centro dell’attenzione e al centro dei discorsi; invece questa volta era toccato a lui. 
Un paio di volte dovette mordersi la lingua, perché si stava facendo scappare aneddoti o commenti dettagliati risalenti al liceo, ma riuscì a cavarsela egregiamente, senza farsi scoprire.
Ci fu una piccola divergenza quando fu il momento di pagare il conto, che vinse immancabilmente Tony.
La sua motivazione, sono stato io ad invitarti per la serata aveva prevalso sul ma ti ci ho portato io qui di Steve.

“Devo dartene atto, quelle ciambelle sono davvero tra le più buone che io abbia mai assaggiato. E ne ho provate davvero dai posti più disparati.” Ammise Tony una volta fuori dal locale con un mezzo sorriso, rivolto a Steve. Quest’ultimo rispose facendo spallucce e aggiungendo: “Te l’avevo detto.” Non riuscì proprio a trattenersi.
Tony nel frattempo aveva tirato fuori dalla tasca dei pantaloni il suo smartphone di ultima generazione, digitando velocemente qualcosa. Steve immaginava fosse uno dei suoi. Ogni tanto anche a lui era venuta l’idea di comprare uno StarkPhone, ma non era abbastanza compatibile con le tue tasche.
“Bene, Tony. Mi ha fatto piacere passare questa serata con te.” Steve si schiarì la gola, rivolgendosi al ragazzo. 
“No, alt. Ti accompagno a casa. Happy sarà qui a momenti.”
“Davvero, non c’è bisogno… Mi faccio quattro passi.”
“Insisto.” Tony gli puntò il dito contro, non ammettendo repliche.
Steve sospirò, alzando gli occhi al cielo.
In quel momento, però, tra i due, calò un silenzio imbarazzante. Tony lo fissava e lui non sapeva cosa fare né dire. O meglio, nella sua testa aveva aspettato un momento del genere da anni, ma qualcosa gli diceva di non buttarsi. 
Erano stati insieme tutta la sera e Tony non aveva accennato al minimo ricordo di lui. E’ vero, lo guardava in modo intenso, ma per quanto ne poteva sapere lui, quella probabilmente era tutta strategia, così come starlo ad ascoltare mentre parlava. Sicuramente era tutta tattica per portarselo a letto.

Come previsto, l’autista di Tony arrivò da lì a poco, interrompendo per qualche istante il silenzio.
“Monroe Street, vero signore?” Chiese conferma Happy, che sapeva già l’indirizzo di Steve grazie a Ramon.
“Grazie Happy, al 25.” Rispose garbatamente Steve, mentre prendeva posto sulla lussuosissima berlina di Tony. Quest’ultimo gli si sedette accanto, forse un po’ troppo vicino, i loro corpi erano praticamente incollati l’uno all’altro.
Steve deglutì e cercò sollievo guardando fuori del finestrino, sentendosi gli occhi addosso di Tony, che ad un certo punto azzardò ad appoggiargli la mano sul ginocchio. Continuava a dirsi che sì, tutta quella situazione l’aveva desiderata da almeno dieci anni, che non ci sarebbe stato niente di male.
Ma al contempo, una vocina in fondo alla sua coscienza gli diceva che aveva ancora una dignità, che non poteva cedere così facilmente, che probabilmente in quel momento per Tony era l’ennesimo trofeo da esibire sulle sue sterminate mensole e lui voleva, doveva essere più di quello.
Durante tutto il tragitto, Steve non fiatò, fissando le luci offuscate dal finestrino oscurato e Tony irriverente e testardo non spostò la mano dal ginocchio del ragazzo, anzi arrischiò una strizzatina, mettendolo a dura prova.

Il tragitto fino a casa fu veloce, nonostante a Steve sembrò durare secoli.
“Grazie per la serata, Tony.” Finalmente si era girato verso il miliardario, guardandolo in volto e desiderandolo come non mai. Quest’ultimo si avvicinò pericolosamente a lui. “Non c’è di che, bellezza…”
I loro volti erano ormai distanti pochi centimetri e, preso dal panico, Steve con uno scatto aprì la portiera della macchina e scivolò via, facendo finire Stark con la faccia dritta dritta sul sedile di pelle. Non si voltò a guardare indietro, aprì velocemente il portone del palazzo e scomparve tra le mura sicure di casa sua.

 
Io non dovrei neanche scriverle le note.
Perché mi vergogno come una ladra. E no, non addurrò scuse di sorta, catastrofi naturali o che so io, sono una pigra immonda, la causa principale è questa, è inutile che ci giri intorno. 
Avete tutto il diritto di lapidarmi (ammesso e non concesso che abbia ancora qualcuno che mi legga :-P).

Due grazie: a Marti per il betaggio e a Naima, perché come mi sfancula lei, nessuno.

ps: il titolo è ovviamente ispirato alla canzone Pictures of You dei The Cure.

  
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