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Autore: Black Iris    21/03/2015    1 recensioni
Cosa si fa quando non si ha altro che se stessi? Come facciamo a vivere in questo mondo? Chi ci insegna come comportarci, cosa dire, come esprimerci, come spiegarsim come agire?
Non ce lo ricordiamo, eravamo troppo piccoli.
Ma supponiamo di essere nati già grandi, già pronti per vivere, chi ci insegna quello che c'è da sapere?
Come rispondiamo alle nostre domande?
Ho voluto creare un personaggio che nasce grande, ma come un neonato deve ancora esplorare il mondo e lo vedrà in modi diversi, ma chi sarà stato veramente il suo insegnante?
Chi è, o cos'è la protagonista?
La storia affronta anche il tema della clonazione, piuttosto controverso ai giorni d'oggi.
Spero che vi piaccia e buona lettura a tutti ^_^
fatemi sapere che cosa ne pensate :)
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non è così che ci comporta, o almeno così mi hanno insegnato. Poi però ho provato a fare una cosa strana, mi sono chiesta cosa significasse tutto ciò che sapevo in confronto a cosa stava succedendo. Io non sapevo come agire, ho cercato ovunque nella mia testa, ma non una sola parola o evento che mi insegnasse qualcosa a riguardo, così ho smesso e ho fatto quello che di solito fanno gi animali: seguire l’istinto. Non è stato volontario, assolutamente, è successo e basta. Mi sono mossa da sola senza pensare, semplicemente seguendo un codice che conoscevo, ma non sapevo di conoscere.
Mi hanno detto che è sbagliato, che quelli come me non devono farlo, che se succede di nuovo dovranno prendere seri provvedimenti. Non so cosa significhi. Nessuno me l’ha insegnato.
Quindi ho fatto la cosa sbagliata. Però non ne sono convinta. Al professore ho detto che non sarebbe mai successo, ma non so perché penso di aver fatto una cosa che non mi hanno insegnato. Ho detto una cosa, ma l’ho detto perché sarei stata al sicuro, non voglio finire anche io come loro. sento qualcosa di strano ogni volta che ci penso, il battito cardiaco aumenta, la pressione del sangue sale, sudo, ho fame, molta fame, ma non riesco ad ingoiare niente. Poi mi sento male, o almeno così mi hanno detto, una volta ho perso conoscenza e sono svenuta, calo di zuccheri e minerali nel sangue. Non deve più succedere.
Ho visto cosa succede a quelli come me quando disobbediscono. Non era bello, anche se l’idea di bellezza è vaga. Hanno detto che bello è ciò che trasmette piacere e io ci ho messo molto a capire cosa fosse e ora che ne sono consapevole so che quello che ho visto non era bello. Era brutto. Sentivo la necessità di voltarmi e muovermi velocemente verso la porta, perché non volevo vedere, aveva anche allora quella sensazione, ma più forte, avevo anche la gola secca.
È la paura, o almeno così mi hanno detto. È un sentimento che avverte che stanno per succedere o potrebbero accadere cose brutte. Hanno detto che non devo avere paura, che è proibito.
Ho detto si, non avrei avuto paura, anche se non so come si fa a non averne. Hanno detto che non dovevo pensarci, ignorare e continuare con il mio lavoro e io ci ho provato, ma non ha funzionato.
Adesso ho paura, ma non so di cosa, non è di quello che ho visto, no, è di qualcos’altro. Si può avere paura di un’azione compiuta? Non lo so, non me l’hanno insegnato.
Non mi hanno insegnato molto. Mi hanno fatto capire alcuni concetti, cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma non mi sono chiari. Poi mi hanno insegnato a vivere nel mondo normale come le persone normali. Logicamente io non sono tra i normali.
Io sono di più, anzi di meno. Sono una cosa in più che conta meno di loro, cioè loro sono più importanti, ma non ha senso. Se loro sono più importanti perché mi proteggono? Lo fanno perché mi vogliono bene? cosa significa voler bene? Non mi riguarda, è una cosa che non potrò mai capire, o almeno così mi hanno detto.
Avevo paura, ma di cosa? Temevo che avrebbero preso provvedimenti meno seri, ma comunque brutti.
-Tu sei più importante degli altri, quelli erano solo prototipi, tu sei la chiave per tutto- o almeno così mi hanno insegnato
-Se succede qualcosa a te, tutto il nostro lavoro andrà perso, lo capisci? Scappare è sbagliato, avere paura è sbagliato, piangere è sbagliato, uccidere è sbagliato-.
-Cosa vuol dire uccidere?-
-Vuol dire porre fine ad una vita, chi viene ucciso, non torna indietro ed è sbagliato-.
-Tu ha fatto una cosa sbagliata- gli ho detto una cosa vera, non posso aver sbagliato, dire la verità e giusto.
-La vita si può uccidere, non voi! Voi non siete vivi, voi siete funzionanti, voi vi rompete non venite uccisi, questa è la verità e la verità e giusta-.
Ha ragione la verità è giusta, ma io non ho detto la verità e ho fatto la cosa sbagliata. Devo andare con lui.
-..Non..farlo..- da dietro di me, circa un metro mi porge la mano sanguinante.
Provare emozioni è sbagliato, dovevo smetterla, ma non ci riuscivo. Poi acqua calda e salata è scesa dal mio occhio.
“Si è rotto” ho pensato, “perde liquidi”.
-..Loro non tengono veramente a te..- sputa liquido rosso. Sangue, ha ancora il braccio teso, ancora mi porge la mano.
-Cosa vuol dire “tenere veramente a te”?-
-Ti nutrono e ti fanno dormire al caldo.. ma sei solo un pezzo di carne.. per loro- fatica molto per parlare, -servi solo ai loro luridi scopi..-.
-Non ascoltarlo, Prototipo H98, lui è sbagliato-.
-Lei ha un nome, si chiama A..- non ce la fa a parlare, il braccio cade e lui chiude gli occhi.
-Aline- lo dico io a voce alta. È così che mi hanno chiamato per circa un mese. Mi hanno trovata in via Aline, ho tenuto quel nome.
-Loro non saranno mai come noi, noi ti abbiamo creato- ha ragione di nuovo, lui non mente, lui dice la cosa giusta. Bisogna sempre fare la cosa giusta. Ho le guance umide non smetto di perdere liquidi. Lui non è morto, ne sono sicura, lo vedo ancora alzare e abbassare lentamente il petto, può farcela. E allora perché non riesco neanche a pensare di abbandonarlo?
-Vieni con noi-
Non mi volto a guardarlo, tengo gli occhi fissi su lui. Anche loro mi hanno insegnato molto, cose diverse però. Mi hanno insegnato a ridere veramente non per finta, come mi dicevano tutti, solo perché era consuetudine. E io ho riso, ho riso moltissimo con loro. Mi hanno anche insegnato a rispettare la vita, perciò prima di tutto bisogna riconoscerla. Hanno detto che è preziosa e rara anche se non sembra, che distruggerla è un grave crimine, che spesso non viene punito, ma che è necessario per sopravvivere. E io l’ho fatto, mi sono presa cura di una pianta e anche di un gatto, e anche di un neonato. Era bellissimo, piccolo e morbido. Io non sono mai stata come lui, non ho mai conosciuto Ma o Pa, non sono mai stata  piccola, il mio primo ricordo risale ad un paio di anni fa quando per la prima volta apro gli occhi. Non sono cambiata molto da allora.
Mi hanno insegnato che un nome da una dignità. Ho chiesto che cosa fosse. Mi hanno detto che senza è come essere un non vivente, o per lo meglio vivere, ma non essere rispettato come essere vivente. Anche il loro gatto aveva un nome. Mi hanno insegnato ad avere speranza. È una cosa difficilissima credere che qualcosa accada solo perché lo crediamo, è illogico, ma bello e bello è giusto, sperare è giusto. Hanno detto che la speranza è una forza che non ci può togliere nessuno e sta a noi applicarla. Io spero, non da molto, ma spero.
Ho imparato così tante cose che non ce la faccio ad elencarle tutte, ma adesso devo scegliere: i miei creatori o la mia famiglia. Li guardo a turno. Non lo so.
Non so come si identifica l’affetto, non me l’ha insegnato nessuno. Dovrebbe consistere in gesti dediti al solo dare o fare favori senza ottenere nulla in cambio, però era anche qualcosa di a me incomprensibile, non perché lo dice il professore, ma perché lo so, non riesco a capirlo.
Lui è sdraiato, Nathan. Il suo nome è così, a me piace. È stato lui a trovarmi quella notte, in cui sono scappata ed è stato lui a nascondermi e ad aiutarmi e ad insegnarmi miriadi di cose che ai laboratori non avrei mai conosciuto, poi è stato lui a difendermi e a salvarmi poco fa. Gli agenti sono irrotti nell’appartamento del motel armati. Hanno gridato. Hanno sparato dei colpi al soffitto. Hanno gridato un'altra volta. Non ho mosso un dito, ho fatto molti esercizi per mantenere il sangue freddo in queste situazioni, bisogna solo non perdere la calma, o almeno così mi hanno insegnato. Mi sono abbassata e strisciato veloce dietro alla porta della cucina, dove c’era Nathan. Si è preoccupato. Mi ha chiesto chi è stato. Gli detto di abbassarsi. Gli ho detto che erano gli agenti dei laboratori, venuti o per riportarmi indietro, ma era da escludere, o per uccidermi. Adesso dico uccidermi, ma prima ho detto spegnermi, solo che ora capisco che non ha molto senso. Hanno abbattuto la porta della cucina. Ci hanno puntato contro le armi.
-Devi seguirci senza fare domande- lo ha detto uno alto e robusto.
-No, lei non verrà con voi- Nathan si è messo davanti e ha aperto le braccia. È una cosa che ho già visto prima, lo si fa quando si vuole esprimere il desiderio di proteggere qualcuno a cui si tiene. Lui tiene a me. ora che ci penso ha molto più senso. Chi ci tiene a te non ti spegne, o uccide, o ignora; chi ci tiene a te ti aiuta, ti salva e, come Nathan, ti protegge. Non lo avevo capito, perché nessuno me l’aveva insegnato, ma ora mi è chiaro. Ho capito cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, anche se non me l’ha insegnato nessuno. Come fanno loro a sapere tutte cose? Chi gliele ha insegnate? E chi le ha insegnate ai loro istruttori? Nessuno. Non è mai stato più evidente.
Avevo visto Nathan precipitarsi davanti a me usando il suo corpo come scudo. È stato bellissimo, nessuno lo aveva mai fatto prima. Poi è diventato bruttissimo.
L’uomo gli ha sparato allo stomaco e lui è crollato ai miei piedi. Mi sono abbassata. L’ho chiamato. Stava perdendo molto sangue. Ha messo una mano sulla ferita per fermare il sangue, ma non poté fare molto. Ho gridato, ma il motel era vuoto.
“Lo hanno rotto” mi sono detta, ma mi sbagliavo, non lo hanno rotto, lo hanno ucciso, o almeno ci hanno provato.
Ero confusa, non sapevo cosa fare. Ho lasciato Nathan lì, non volevo che facessero qualcosa a lui a causa mia e fuori dalla porta ho visto il professore che mi guardava severo.
Il resto l’ho già detto e non voglio ripeterlo. Mi fa male.
Devo decidere.
Non lo so.
Mi sento sottopressione.
Tremo.
Ho paura.
E se faccio la scelta sbagliata?
Nathan.
Cosa faccio, Nathan?
Tu hai sempre la risposta, aiutami.
Aiutami.
Aiutami.
..Nathan..
Non posso aspettare oltre. Rispondo.
-Vengo- lo dico piano e mi sento un peso sui polmoni e un blocco alla gola, -ad una condizione-.
-Dimmi-.
-Non dovete più uccidere nessuno, o fare del male a Nathan e alla sua famiglia, se no vado via di nuovo-.
-No, loro sono pericolosi, ci hanno intralciato e..-
-E cosa? Va ucciso per questo? Sono stata più felice questo mese con loro, che tutto il tempo passato con voi. Voi che non sapete cosa sia l’affetto o l’amicizia, o il rispetto per la vita, non ve l’ha insegnato nessuno-.
-Hai ucciso delle guardie per scappare e mi parli di rispetto della vita?-.
-Pensavo che li avevo solo rotti, non sapevo neanche cosa significasse, ma tu, tu lo sapevi benissimo e sei andato avanti. Hai ucciso tutti gli altri cloni, perché erano “mal funzionanti” o “scadenti” e dicevi che venivano solo spenti, ma in realtà li uccidevi, tutti. E ora che il miglior clone che sei mai riuscito a creare ti scappa mi insegui e mi minacci anche, tu hai fatto cose sbagliate. Hai dato scosse agli altri fino a fargli fermare il cuore, tu non meriti che venga con te, sei alla stessa altezza di un verme-.
-Stai attenta a come parli! Tu verrai con noi fine della storia, siamo noi ad avere le armi in mano, quindi muoviti, sali dentro la jeep e partiamo-.
Devo obbedire, ma non voglio. Guardo un ultima volta Nathan. Lui mi ha voluto bene. mi ha trattata bene, sta per morire a causa mia e io non posso fare niente. Alla fine mi ha insegnato anche a piangere. Non mi era mai successo prima. Non posso lasciarlo, non voglio. Non devo. Sono in debito con lui e con tutta la sua famiglia che mi ha trovata e nascosta e protetta.
Non vado con loro.
Non più.
Resto qui.
Con Nathan.
Ci sono le forbici sulla tavola.
-Cammina..- mi chiama uno dalla porta.
Non hanno la punta arrotondata.
Uccidere è sbagliato.
E uccidere se stessi?
È possibile?
Ne vale la pena provarci.
Sarebbe meglio che passare con loro l’eternità.
Io non voglio essere messa su una sedia, con i polsi e le caviglie legate, imbavagliata e con la testa bloccata a sentire le scosse che scorrono dentro di me.
Io voglio vivere.
Vivere.
Nathan mi ha insegnato cosa significa.
Corro.
Afferro le forbici, sono molto veloce, me lo hanno insegnato nei laboratori.
Le alzo.
Le abbasso.
Fa male.
Mi sono colpita al cuore.
Sarebbe comunque stato lui il più ferito dei miei organi.
Non so cosa succederà adesso.
Alcuni dicono che c’è qualcosa, un aldilà, la reincarnazione, ma io non lo so.
Nathan diceva che ne valeva la pena di aspettare il proprio momento.
Ho la forza di girarmi.
Nathan.
È a terra.
Ha smesso di muoversi, ha smesso di vivere.
Ovunque lui stia andando ora sarà un posto bellissimo, perché se lo merita.
Vorrei esserci anch’io.
Vorrei essere là con lui.
Con lui.
Lui.
 
 
 

 
  
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