Itaca.
La signora Alweather
è una donna che sa aspettare. Del resto, le sembra di non aver fatto
altro in tutta la vita; aspettare la porta di casa aperta dall’esercito
che facesse ala al passo di suo marito, aspettare le parole che si formassero
con lentezza e incertezza nella bocca di sua figlia, aspettare un trillo dal
telefono nelle lunghe sere di solitudine che sono succedute all’una e
all’altra attesa – tutto questo è ciò a cui si
riconducono gli anni più vividi, più duri, più belli che
ricordi.
Aspettare Marie è,
fondamentalmente, il suo punto di fuoco. Ha aspettato che crescesse
quand’era bambina, ha aspettato che tornasse bambina quand’è
cresciuta. In entrambi i casi, il tutto si è ridotto a ritrovarsi da
soli all’angolo di una strada che era tutta per Marie. Anche l’uomo
impaziente che aspettava con lei, a un tratto, si è deciso a lasciare
andare entrambe; se n’è andato a vivere la sua marcia di vita
militaresca da solo, e la signora Alweather sa che
è stata Marie ad andare a sedere con lui quelle notti in cui la
bottiglia diventava un richiamo troppo forte per essere ignorato, ma non sa
altro di lui, se ha mai ottenuto quel che non si è ridotto ad aspettare.
Lei ha continuato, invece. Ha aspettato sempre. In definitiva ha aspettato
Marie, prima bimba troppo fragile per un mondo troppo veloce, poi donna troppo
veloce per una famiglia troppo fragile.
E aspetta anche oggi, la signora Alweather, oggi che Marie siede invece nella sua cucina e
ha l’aria di volerle confessare qualcosa di troppo grande per le parole,
quelle parole che ancora adesso la tradiscono.
Ci vuole un’eternità di
tempo, ma alla fine arrivano.
«È tornato da
me.»
La signora Alweather
non ha bisogno di chiedere, la risposta brilla negli occhi di sua figlia senza
la necessità di voce o suono. Sorpresa e mortificata, si ritrova a
ricambiarne il sorriso, chiedendosi se in fondo la vera attesa non fosse questa
– forse, dopotutto, tutti loro non hanno fatto che aspettare lui.
«Vorrei che venissi a
trovarlo, mamma. Sai... dopotutto è stata la tua canzone.»
I’ll come back when you call me
La scrivania di Marie è
letteralmente sommersa di libri.
Misha guarda la luce del sole
disegnare forme dorate di boccioli tra i capelli di lei.
Ha pensato che piangesse, a un
tratto, ma quando ha teso la mano verso la sua guancia l’ha trovata liscia
e asciutta. Marie ha sorriso e ha mormorato che tutte le lacrime se ne sono
andate quand’era bambina, quando ha cominciato a disperare che
l’attesa le riportasse il suo migliore amico. Misha non ha saputo cosa
rispondere, e ha soltanto continuato a leggere per lei dalla raccolta di poesie
russe aperta sul cuscino tra di loro. È diventato un rituale, un
po’ come il sedersi al tavolo della colazione e ripercorrere tutte le
fasi di quel racconto cominciato in una gabbia arrugginita, con il mango e un
libro sugli uccelli.
Ora il silenzio si protrae, e ancora
una volta Marie comincia a parlare.
«Ho visto i miei. Uno alla
volta, naturalmente. Penso che, nonostante tutto, a lui farebbe piacere se ci
fossero...»
«Lo penso
anch’io.» Misha incespica nel proprio accento, sforzandosi di
trovare il coraggio di guardarla negli occhi. È una forza che spesso gli
manca – e spesso ne nasconde la mancanza chinandosi semplicemente a
baciarle la spalla nuda, sfuggendosi come il codardo che è stato così
a lungo, prima di finire sul vialetto di quella sua casa luminosa – ma ha
fatto una promessa, e non ha intenzione di venirle meno. E così la
guarda come lui vorrebbe che la
guardasse, apertamente, senza quinte dietro cui nascondersi. «Non
è stata colpa loro. Non è stata colpa di nessuno.»
«No, lo so.» Marie
scuote il capo piano, un mezzo sorriso in volto, mentre gli passa un braccio
dietro le spalle e respira il profumo delle parole stampate. «Non ho
rimpianti, sai? Sarebbe stato bello se fosse durato di più, ma...»
Chiude gli occhi e all’improvviso la stanza è un po’
più buia. «Lui è stato così forte da aspettare di
ritrovarmi. Io devo essere abbastanza forte da lasciarlo andare, adesso.»
Misha l’abbraccia, chiedendosi
se davvero è giusto così, senza potersi impedire di rimpiangere
che quella lunga storia non sia stata un po’ più lunga.
No
need to say goodbye
È una scatola piccola. Negli
ultimi giorni tutto il tempo passato si è abbattuto su di lui,
riducendolo a una creaturina gracile e inerme, lui così immenso da
tornare dall’altro capo del mondo.
Sono venuti, il papà e la
mamma. Non si guardano molto spesso, però ci sono. E c’è
Misha con lei. Le ha ricordato qualcosa sulla prima aurora dell’universo
– probabilmente lui la sta
solcando in volo, in questo momento, e forse lassù c’è
anche la donna che gli ha insegnato a volare: Marie la immagina bella e
gentile, le mani aperte e gli occhi che abbracciano tutto il cielo.
Si inginocchia da sola, con la
scatolina tra le mani, e resta a guardarlo per un lungo istante. Le piume
ricresciute si sono diradate. Il colore è come sbiadito. Eppure, per lei
che sa vedere l’umanità in quel suo aspetto di essere vivente in
grado di abbattere un confine – che ha sempre saputo farlo, anche prima
delle parole condivise – è come se sorridesse.
Per un attimo si chiede se sia
più giusto cantargli una ninnananna o piuttosto qualcosa in spagnolo. O
in pappagallese, perché no.
Ma alla fine sono altre, le parole
che trova per lui, per lasciarlo andare.
«Riposa, mio dolce Paulie.»
Un giorno, si dice, a chi mi
chiederà chi mi ha insegnato a crescere racconterò questa storia.
[ 930 parole ]
Spazio
dell’autrice
Era una vita che volevo scrivere su
questo film, e adesso che l’ho fatto penso di aver sancito il mio
definitivo ritorno alla scrittura dopo una difficile parentesi in cui ho quasi
pensato di lasciarla.
Inoltre, lo scorso 20 marzo ha
segnato il mio decimo anniversario qui su EFP. Il decimo. Mio Dio. Quindi
sì, immagino che questa shot sia nata un
po’ anche per celebrare questo.
Mi spiace di non aver reso molta
giustizia a un momento così importante quale quello che ho scelto di
rappresentare, però. Mi sono sempre chiesta come sarebbe stato, per
Marie, perdere di nuovo Paulie per una cosa naturale
come il tempo passato – perché diciamocelo, i pappagalli non
possono vivere così a lungo (spec.: non in certe condizioni almeno ò__ò), e se Paulie ha
resistito è stato solo per arrivare a rivedere Marie – ma, al
momento in cui mi sono messa a pensarci su, mi è venuto naturale
scrivere solo della vita che Paulie si è lasciato dietro. Vita fatta di
cambiamenti – come gli Alweather che
sicuramente avranno preso strade diverse, come Misha che sicuramente
sarà tornato alla sua strada universitaria – ma non per questo
meno vita, appunto. Ma forse è solo che mi avrebbe fatto troppo male
rappresentare per davvero quella stessa vita che abbandonava Paulie, un personaggio che sicuramente ha vissuto molto
più di quanto mille altri si sono illusi di fare.
Quindi, beh. Spero di aver reso un
po’ di giustizia almeno a lui, al modo in cui l’incontro con la sua
rocambolesca pennuta odissea ha cambiato così tante lunghe storie.
I versi che inframmezzano le tre
scene sono tratti da The call di
Regina Spektor.
Scusate per il filone malinconico di
queste note, ma ‘sto film a me mi distrugge sul serio. *ridepiange*
Aya
~