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Autore: MartinaAnna    24/03/2015    2 recensioni
Certo che è strana la vita, laggiù. Quante volte si era preparato a pensare di poter perdere la vita? Un milione e più. Ma di perdere un arto... una gamba, tanto peggio... quello mai. La vedeva una cosa improbabile. Meglio una pallottola in pieno petto. Meglio saltare per aria totalmente. Ma solo un pezzo... ancora stentava a realizzare.
... per la difesa della Patria e la salvaguardia delle libere istituzioni.
Genere: Guerra, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Giuro di essere fedele alla Repubblica Italiana...
Demetrio guardò il moncone col cipiglio distaccato di chi sa cosa sta osservando. Il nulla: la rotula non c'era più.
...di osservarne la Costituzione e le leggi...
Gli era andata bene. Poteva rimanerci, sotto quella mina. O peggio ancora, sarebbero potuti morire assieme a lui anche tutti gli altri. E quella donna e suo figlio che stavano scortando via, lontano da Herat. Chissà ora dov'erano. Era sicuro che quel ragazzino avesse beccato una mina balzante, di quelle a rilascio di pressione. Le più insidiose. Non erano disinnescabili in nessun modo.
... e di adempiere, con disciplina ed onore, tutti i doveri del mio Stato...
Certo che è strana la vita, laggiù. Quante volte si era preparato a pensare di poter perdere la vita? Un milione e più. Ma di perdere un arto... una gamba, tanto peggio... quello mai. La vedeva una cosa improbabile. Meglio una pallottola in pieno petto. Meglio saltare per aria totalmente. Ma solo un pezzo... ancora stentava a realizzare.
... per la difesa della Patria e la salvaguardia delle libere istituzioni.
 
Ricordava ancora con una lucidità incredibile il giorno del giuramento all'Esercito Italiano, alla Patria, di fronte alla Costituzione, alla Repubblica e alle sue leggi, di fronte allo Stato. Un'asserzione solenne, di fedeltà all'Italia nei suoi massimi gradi d'onore. Con il tricolore al fianco che lo rendeva forte.
Aveva giurato.
Era un soldato.
E se sei soldato quella volta, lo resti per sempre.
 
- Nome e cognome, ruolo militare e raccontami in breve cosa ti è successo-. Il medico da campo aveva l’aria sbrigativa di chi, di casi del genere, ne vede ogni giorno: già dall’uso delle parole, dalla semplicità con cui gli si era rivolto, Demetrio capì che doveva essere un uomo spicciolo.
- Demetrio Di Giorgio, signore. Sottufficiale della quar…-.
- Ok, ho capito. Come hai fatto a farti saltare per aria una gamba, ragazzo?-.
Demetrio rimase sorpreso. Non era questo che gli avevano insegnato in Accademia. Non era questo che si aspettava come trattamento. Tentò di nascondere la sorpresa, ma probabilmente non dovette riuscirgli molto bene.
Il dottore lo osservò. Non era esattamente seccato. Era come se avesse vissuto quella scena già milioni di volte.
La testa di Demetrio iniziò a lavorare a ritroso, accompagnandolo in una galleria fotografica in cui ogni fermo immagine rappresentava un flashback della sua infanzia: sua madre che poneva un fiocco di cotone imbevuto di acqua ossigenata su una piccola ferita nella mano; zia Maria che cercava di consolarlo dopo la prima caduta dallo skate; il padre che furioso gli cacciava dalla schiena due spine di rovi che si era guadagnato coraggiosamente cadendo in un fosso per recuperare il suo cane.
- Senti, ragazzo-. Il dottore lo risvegliò da tutta quella lunga trafila di ricordi che, chissà per quale motivo, ora erano più vividi che mai. –Hai visto dove sei?-. Guardandosi intorno, Demetrio realizzò di essere in caserma. In una stanza che, secondo una logica apparentemente inesistente, doveva essere una sorta di ricovero ospedaliero. Insieme a lui, altri 4 militari. Due dormivano. O erano incoscienti. Il terzo aveva una benda che gli copriva mezzo volto ed era difficile stabilire se fosse vivo, figuriamoci se fosse sveglio.
- Ragazzo. Qui non siamo in Accademia. Di fronte al dolore siamo tutti uguali. Ti abbiamo ricucito come un pollo, ti pare che mi metto a fare cerimonie militari di fronte a una gamba in meno? Lo vedi quel ragazzo di fronte a te?- chiese, indicando il bendato. – Ha perso l’uso della vista. Non ha più gli occhi. Ha due orbite vuote al loro posto. Quegli altri due. Uno è morto. L’altro è sotto morfina e lo seguirà presto. Emorragia celebrale il primo, il secondo forse lo salviamo. Tra poco lo operiamo-.
Demetrio li osservò, senza emozioni.
Abbassò lentamente lo sguardo sulle bende che gli fasciavano ancora il polpaccio.
- Vuoi che tolgo le garze?- gli chiese il dottore.
Demetrio lo osservò in silenzio. Un breve cenno del capo, un no appena accennato, e iniziò da solo a srotolarle con grande professionalità.
 
- Abbiamo 20 minuti, non uno di più. Veloci, sicuri e senza combinare casini eccessivi. Seguite il sottufficiale Di Giorgio senza fiatare: sa quel che fa. Una volta arrivati e ad operazione conclusa, seguite sempre e comunque le sue istruzioni. Non accetterò perdite, signori. Non accetterò una sconfitta. Estorcete con la forza a quei talebani dove si trova il bunker del loro capo. Avrete due cecchini a disposizione, saranno uno sul tetto della casa a ovest, uno su quella verso nord-. Le parole del Maresciallo gli rimbombavano ancora nelle orecchie come un boato, mentre il silenzio rimbalzava come un’eco senza forma in ogni parte del suo corpo, come un urlo insterilito dall’amarezza dell’anima, come un dolore che viene ferito dallo stesso dolore di esistere, di essere vivi, coscienti.
Sa quello che fa. – Ah, sì? E cosa fare? – si chiedeva. - E soprattutto come arrivarci, a quella casa? Vivi possibilmente-. E poi, perché?
Non era di certo quello il viaggio felice che ti promettevano i genitori da bambino, quella vita che l’esistenza animava verso altre esistenze parallele: lì, a fermare i pensieri, c’era una frontiera interrata, un groviglio di mine che facevano saltare per aria persone, cose, pensieri, ideali.
- Mia madre mi insegnò che le frontiere uniscono i pensieri in fuga- mormorò il Tenente Esposito che gli sedeva vicino in camionetta, mentre sobbalzando ad ogni buca si dirigevano sotto il sole cocente a pochi metri della locazione d’operazione. – Non so perché l’ho detto- si corresse poi, come se stesse uscendo da una sorta di ipnosi.
- Tranquillo, Mattia- rispose Demetrio, sforzandosi di allargare il viso in un sorriso, che gli riuscì piuttosto truce. Si fermò, per qualche secondo, ad osservare l’amico e collega, attentamente. Gli sembrò la prima volta, eppure lo conosceva così bene. Erano partiti insieme, mesi addietro, quasi 7. O forse 8? “Perdi la cognizione del tempo, quando sei in Afghanistan”, gli venne da pensare. “Mangi troppa polvere e ti scordi le cose”. Si chiese quale fosse il nesso logico di quel pensiero e non si stupì molto quando si risolse nel non trovarlo.
- Ci siamo- disse, alzandosi.
La temperatura era elevata, ma non insopportabile da sotto la divisa. Durante le operazioni militari si instaurava una sorta di muto accorda tra i commilitoni: gesti, sguardi, intuizioni diventavano comuni, generali, condivisibili. Era quella la vera comunicazione, senza parole, perché l’unico momento in cui un uomo comprende un altro uomo è quando hanno le stesse paure e la stessa adrenalina nel sangue.
Un cenno del capo, leggero. Qualcuno dei suoi sfondò la porta. Un gran trambusto dentro, qualche sparo a vuoto. Demetrio roteò gli occhi al cielo: ma per quale motivo i ragazzi dovevano sempre fare gli spacconi e spaventare la gente a caso?
- Non fate i coglioni!- urlò, tentando di trattenere l’impeto di entrare e risolvere la situazione.
Sa quel che fa. Maresciallo, ma vaffanculo.
Lui non lo sapeva quello che doveva fare. Non sapeva come. Non sapeva nemmeno perché. Sapeva solo che là dentro c’era un talebano e andava interrogato. Anche con la forza.
Veloce scambio di sguardi tra lui e gli altri due compagni ancora fuori e Demetrio e il suo ARX 160 raggiunsero Mattia e l’altro soldato all’interno della casa.
L’uomo si trovava accerchiato da entrambi i lati, al centro del salotto, di fronte alla finestra che dava sulla casa verso nord: erano stati bravi, i suoi ragazzi, a metterlo con le spalle al muro. Anzi, per meglio dire, con le spalle al cecchino. Il suo viso non riusciva a nascondere l’ombra di una preoccupazione che ben poco c’entrava con le informazioni che loro volevano ottenere. Di talebani, ne aveva visti tanti. E sapeva bene che non lasciavano trasparire emozioni riguardanti strettamente “le loro cose”.
- C’è qualcun altro in casa, Mattia- realizzò Demetrio in un attimo, tenendo ancora puntato il fucile contro quell’uomo. Ogni volta ancora cercava di non stupirsi di come riuscisse a mantenere la calma in situazioni del genere e di quanta freddezza l’Accademia e l’esperienza l’avessero intriso. Nelle sere di licenza, tornato a casa e ritrovatosi da solo, si chiedeva quanto di umano gli rimanesse dentro. E tentava di rispondersi che tale domanda era già la prova che la sua anima era ancora viva, per qualche motivo che ancora non gli era ben chiaro.
- Vado io?- chiese il Tenente, accennando alla porta chiusa sulla destra. Demetrio scosse la testa, lentamente, soffiando un no teso. Continuava a tenere gli occhi sul talebano, mentre con deliberata calma si avvicinava all’altra stanza. Stava per sfondarne l’ingresso, quando chissà per quale motivo, l’istinto gli disse che non ce n’era bisogno. Spinse leggermente la maniglia e l’uscio si aprì cigolando dando luce ad uno spazio angusto, stretto, sporco e umido. Nell’angolo, una donna teneva stretto al petto un bambino che, sulle sue ginocchia, sembrava dormire. Il burqa le nascondeva totalmente il viso, occhi compresi, ma l’aria era impregnata di paura, sudore e qualcosa di più incomprensibile. Demetrio si ritrovò a pensare a sua figlia.
L’aveva lasciata che avrebbe compiuto 5 anni dopo qualche giorno. Se fosse vissuta in Afghanistan, sarebbe toccato anche a lei portare quel velo? Sì, sicuramente. In realtà, non sapeva nemmeno se ci sarebbe arrivata, ai 4 anni, laggiù. Quasi tutti i ragazzini, a Herat, morivano di stenti nei primi mesi di vita. O uccisi. O mutilati dalle bombe e dalle mine. Quel ragazzino che dormiva tra le braccia di sua madre non doveva essere molto più grande di sua figlia. Solo che il suo destino era anche peggiore della morte. Sicuramente, sarebbe stato arruolato.
All’improvviso, un colpo, un vetro in frantumi, agitazione generale. Hanno sparato!
Demetrio richiuse la stanza, mentre il ragazzino si svegliava e urlava, si appoggiò allo stipite e puntò il fucile contro il talebano. Che era a terra, rivolto all’ingiù, un colpo perfetto e preciso alla nuca. Era partito dal cecchino a nord.
 
Poco dopo si trovarono tutti fuori dalla casa, in fretta e in furia. C’era voluto una marea di tempo per convincere la donna e il bambino ad uscire di lì. Non voleva essere brusco. Percepiva la loro paura e stavolta non riusciva a trattarli come aveva sempre trattato i testimoni che si era ritrovato per le mani. Non dopo il flash di sua figlia.
- Ma che cazzo è successo?- urlò, uscendo. Gli risposero confusamente un po’ tutti, mentre Mattia in silenzio cercava le figure dei due cecchini oltre l’afa, la polvere e i tetti di Herat. Non c’erano più. Sicuramente, così come all’andata, la camionetta per il loro ritorno era partita prima della loro e già erano diretti verso la caserma.
- Sti stronzi hanno rovinato tutto!- continuò ancora, fuori di sé. Il piano era andato all’aria. Totalmente. E come se non bastasse avevano a carico la vita di una donna e di un bambino. Appena tornato avrebbe fatto immediatamente rapporto.
Mattia lo guardo per un po’, mentre gli altri parlavano e s’incazzavano senza capirci granché. Uno sguardo eloquente di entrambi verso destra bastò a cogliere i movimenti di tre militari, decisamente non alleati, e di due cecchini che andavano posizionandosi.
- Andremo a piedi- concluse Demetrio. –Io, il Tenente e il soldato De Gregoris ci porteremo il ragazzino. Voi aspettate la camionetta e portatevi la donna. Ci vediamo in caserma. Ci osservano. Se ci dividiamo li confonderemo-.
-La donna non parla- gli fece notare un commilitone.
Demetrio annuì, ma fece segno con la mano di iniziare l’operazione.
- E non fate coglionate, almeno voi-.
S’incamminarono.
Demetrio teneva il ragazzino per una spalla. Ogni tanto provava a divincolarsi e diceva qualche frase in arabo, ma Demetrio lo strattonava per fargli capire chi dei due fosse al comando e si rabboniva immediatamente.
- Signor Tenente…- esordì titubante De Gregoris. Mattia, immerso nei suoi pensieri, alzò lo sguardo:
-Dimmi-.
- Signor Tenente, stiamo entrando nella zona rossa, signore-.
Si arrestarono tutti, di colpo.
La zona rossa.
Demetrio si colpì la fronte con la mano: un gesto infantile, quasi banale, che si permise solo perché alla presenza non aveva altri che un soldato semplice, un suo amico e un bambino. Come aveva fatto a non pensarci? Preso dal panico, dalla foga di ridare l’ordine, non si era ricordato che dal luogo dell’operazione alla base ci passava un lungo filo di terra costellato da miliardi e miliardi di mine. Aggirarlo a piedi era impossibile. Troppo lungo, troppo vasto. Significava tornare indietro. E indietro non si poteva andare.
- Non abbiamo scelta- disse. Mattia lo guardò.
- Sai che succede se ne becchi una, vero?-.
Silenzio.
Il sole scottava, sia in testa che sotto i piedi. Ormai c’erano quasi dentro. Pochi passi e avrebbero potuto saltare per aria da un momento all’altro.
Camminavano con l’adrenalina che scorreva più forte ad ogni passo, lentamente, come se ogni volta che un piede toccava terra si stessero preparando all’inevitabile. Mancavano già solo pochi metri. Anche se sembrava un’eternità, resa ancor più lunga dal caldo, dall’afa, dall’ansia, dalla speranza e dalla cieca paura. Non di morire. Di non esserci più.
Ci aveva sempre visto una sorta di leggera differenza, in questo, Demetrio. Non era la cosa in sé a spaventarlo. Non era per se stesso che avrebbe sofferto. Aveva già scelto ed accettato di essere ucciso quando aveva giurato di fronte alla Costituzione e su essa stessa. Difficile da dire, ma il dolore che avrebbe provato sarebbe stato nel sapere che lasciava sua figlia e sua moglie su una Terra che non le meritava, una Terra che lui si era promesso di cambiare per loro.
Immerso nelle sue riflessioni, lasciò scorrere le dita sulla schiena del ragazzino, diminuendo notevolmente la pressione sulla sua pelle. Bastò quel gesto. Il bambino si divincolò leggermente verso destra, quel tanto che bastò perché si sentisse chiaramente un suono piccolo e discreto, ma che riuscì a raggelare il sangue di tutti.
- Via!- urlò Demetrio. Lasciò andare il piccolo talebano, mentre leggeva nei suoi occhi lo sgomento. Ma non si spostò di molto. Se muore lui, muoio anche io, si ritrovò a pensare. Il marmocchio fece un passo verso di lui.
Un boato, un bruciore, il dolore, qualcosa che saltava dalla sua gamba verso l’esterno.
Poi il nulla.
 
Era stato difficile tornare a casa. Riabbracciare sua moglie e la piccola Gioia, in qualche modo, lo aveva fatto sentire incompleto. Così come il saluto dei ragazzi il giorno del congedo. I due cecchini ribelli erano stati individuati e messi sotto processo. Si fece promettere da Mattia che non avrebbero mollato. Mai. Si fece promettere che non si sarebbero persi d’animo.
Era nato sbagliato, aveva concluso quel giorno, tornando a casa. Era nato sbagliato e tutto intero. E ora tornava a casa sbagliato e a pezzi. Ma sua moglie lo amava ancora, anche se sbagliato e con una gamba in meno. E avrebbe potuto insegnare a Gioia le tabelline e vederle sbocciare sul viso il sorriso di sua madre.
Siamo sempre stati troppo sbagliati per il paradiso e troppo giusti per l’inferno, si disse, sperando con tutto se stesso che, in quel momento, quel piccolo ragazzino saltato per aria assieme alla sua rotula potesse godersi un’infanzia migliore di quella che aveva passato ad Herat. 
  
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