Anno 9 D.C.
“VARE!”
Non
c’era, dalle più vaste sale ai più angusti cubicoli degli schiavi, un angolo
nell’intero palazzo in cui non s’arrivassero ad udire quelle grida. Sempre lo
stesso nome, la stessa frase. In alcuni momenti le parole ruggivano intrise di
cieca furia, in altri frammentate da gemiti di cupa, dolorosa disperazione.
“MIHI
LEGIONES REDDERE! VARE!”
Così
era stato l’intero giorno prima, e il giorno prima ancora.
Roma,
ritiratosi in disparte nei suoi alloggi sin dal suo ritorno dal nord, disteso
su un triclinio, tra soffici cuscini imbottiti cercava inutilmente di riposare,
di riprendersi dalle ferite, quelle del corpo ma soprattutto quelle dello
spirito.
Ma
non ci sarebbe riuscito, anche senza avere nelle orecchie le urla a
squarciagola del suo Princeps Imperator, ridotto a un folle vaneggiante dal
momento stesso in cui gli era giunta la notizia. Una cosa è la notizia di un
disastro, un’altra è essercisi trovato nel bel mezzo.
Le
voci spezzate dei compagni, fidi legionari dell’Urbe, sempre più distanti dietro
di sé, che lasciato in pasto ad umana paura il suo orgoglio di milite invitto,
si precipitava col cuore in gola tra le buche, i pantani, gli imponenti alberi
e le asperità della oscura selva. Fuggiva, Roma, lasciandosi alle spalle
uomini, aquile dorate, e quella che sembrava l’ennesima conquista. Inciampava
di continuo: i rami e i sassi lo graffiavano e lo ferivano, il fango gli
inzaccherava la corazza, ma mai si sarebbe fermato, perché non c’era nulla lì
intorno che non temesse.
Nell’ombra
impenetrabile della foresta, nel gelo di quella terra selvaggia come i suoi
abitanti, Roma si guardava intorno, trasaliva e gemeva ad ogni rumore di
ramoscello spezzato, ad ogni fruscio, ad ogni ondeggiare di rami al vento, ad
ogni ombra, sinistra, intravista dietro una delle immense colonne di legno tutto
intorno. Perché tra quelle ombre lo stava osservando, seguendo, come un lupo la
preda. Lo percepiva in ogni attimo e di sfuggita, dietro gli alberi avvolti
nella bruma, riusciva a scorgerlo: appariva e scompariva, come uno spettro del
Tartaro. Per singoli attimi incrociava quegli occhi, come lame di ghiaccio
puntate su di lui, brillanti come diamanti in quel folto intrico, piccoli lampi
impassibili, crudeli, fissi su di lui che aveva osato avventurarsi lì dove non
doveva, troppo oltre anche per lui.
Rivedeva
ora quello spettro, quel gigante dai biondi capelli, nei suoi incubi.
Incubi
che forse sarebbero cessati un giorno, ma qualcosa gli era rimasto dentro e vi
aveva posto salde radici. Lui, Roma, l’impero più potente di tutti i secoli, aveva
guardato dritto negli occhi il suo opposto, e aveva imparato ad averne paura.
“VARE!”
Lui,
la luce della civiltà, non avrebbe mai più osato penetrare il fosco di quel santuario
di selvaggia, fiera, indomabile arretratezza.
“VARE!”
In
cuor suo ne era certo: Germania non sarebbe mai stato suo.
La Battaglia di
Teutoburgo fu un autentica disfatta per Roma: tre intere legioni (circa 15.000
uomini), sotto il comando di Publio Quintilio Varo, in marcia in colonna
attraverso la selva tedesca furono completamente annientate da un imboscata dei
barbari germani capeggiati da Arminio, in precedenza alleato dei romani stessi.
Sotto il principato
di Ottaviano Augusto, la Germania si avviava a diventare una provincia romana a
tutti gli effetti, ma il governatore Varo si comportò in maniera dispotica con
gli “incivili” germani, accrescendone il risentimento verso i conquistatori.
Accecato dalla sua presunzione di
superiorità, non sospettò minimamente che Arminio, capo della tribù dei
Cherusci, una delle sue guide, fosse in realtà il capo della ribellione: questi
condusse i romani su un terreno impervio dove furono facili prede di un
imboscata, dalla quale, stanchi per la lunga marcia, fiaccati dal freddo, non
poterono che uscirne massacrati (lo stesso Varo, vistosi perduto, si suicidò)
e, se presi vivi, torturati. A ulteriore disonore, le tre aquile-insegne delle
legioni andarono perdute, e solo due di esse poterono essere recuperate nel
corso di una spedizione punitiva anni dopo.
La notizia fece
immenso scalpore nell’impero. Si narra che Augusto, per il dolore
dell’accaduto, abbia pianto per giorni, continuando a chiamare Varo perché gli
restituisse le sue legioni (“Vare, mihi legiones reddere!”, ovvero “Varo,
ridammi le mie legioni!”).
Al di là della
perdita di uomini e onore però, a funestare Augusto c’era sicuramente il
pensiero che la Germania era stata perduta per sempre: il confine venne posto
sul fiume Reno che divenne lo spartiacque tra l’Impero e la barbarie per
secoli.
Indubbiamente,
senza Teutoburgo, con una Germania pacificata e romanizzata, il corso della storia
dell’Impero Romano e dell’umanità sarebbe potuto andare diversamente…
INFO
Battaglia di Teutoburgo: http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_della_foresta_di_Teutoburgo
Arminio: http://it.wikipedia.org/wiki/Arminio