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Autore: Starishadow    24/03/2015    1 recensioni
Erano cresciuti così, con uno che cercava di vivere e l’altro che gli impediva di morire, scontrandosi continuamente, e ormai entrambi erano così abituati da smettere di farci caso.
(Onesided incest - incesto molto leggero, ma presente)
[Partecipante al contest "Fratelli, comunque sia" indetto da Dark_Wolf su efp forum]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
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Partecipante al contest "fratelli, comunque sia" indetto da Dark_Wolf su efp forum
Link contest = http://freeforumzone.leonardo.it/d/10973186/Fratelli-comunque-sia-Percy-Jackson-Originali-/discussione.aspx 
 
Autore: Starishadow
Titolo: Una parte di me sarà sempre con te
Fandom (PJO; HoO; Originale): Originale
Rating: Giallo
Personaggi:  Joshua e Jonah
Genere/Avvertimenti: Angst/Tematiche delicate, SlightIncest!, Slash
PROMPT: Incest (leggero), fratello malato, morte del fratello
NdA: ormai sono partita con i contest quindi… eccone un’altra! xD il contest stavolta era sul rapporto fra i fratelli, quindi mi ci sono fiondata subito!
La citazione alla fine viene dalla canzone degli Alter Bridge, "In loving memory", che vi suggerirei di ascoltare mentre leggete ^^"
Spero che la storia vi piaccia e... beh, se volete lasciarmi una recensione, con bandierina verde, bianca o rossa che sia, a me fa solo piacere!
Enjoy!
Baci,
Starishadow

******************************************************
La sala da pranzo sarebbe stata immersa nel silenzio se non fosse stato per il rumore dell’argenteria che raschiava i piatti di porcellana e i versi che facevano i diversi commensali nel loro mangiare e bere.
E quel suono non faceva che snervare il più giovane fra le persone sedute a tavola: Joshua continuava a spostare il cibo nel suo piatto distrattamente, la mascella contratta e un’espressione cupa in viso. Cosa non avrebbe dato per poter sentire un altro rumore, qualsiasi altro rumore.
«Joshua, ti senti bene? Non hai toccato cibo» notò distrattamente sua madre, guardandolo accigliata.
Joshua sospirò impercettibilmente:
«Non ho fame, posso andare a controllare Jonah?» chiese, con aria seria.
I suoi genitori annuirono, e suo padre aggiunse di chiedergli se se la sentisse di raggiungerli.
“Seh, lui ha la fortuna di potersene restare a letto, figurati se viene a sopportare voi.” Pensò ironicamente Joshua, mentre saliva le scale e raggiungeva la camera di suo fratello. Rimase fermo sulla porta, osservando la sua mano che tremava sulla maniglia.
Perché doveva succedere proprio a lui? Perché doveva essere suo fratello quello che era nato con un cuore che non riusciva a reggere emozioni e sforzi? Perché non poteva essere il fratellino di qualcun altro?
Perché proprio Jonah?
Aprì lentamente e gettò uno sguardo alla stanza avvolta dalla penombra, preoccupato. Normalmente, anche se restava a letto, Jonah tirava su le serrande e lasciava entrare un po’ di luce.
«Jonah?» chiamò a bassa voce. Un mugolio gli rispose dal letto, e lui si fece strada lungo il campo minato che era il pavimento della camera fino ad approdare vicino al fratello. «Come ti senti?»
«Come uno che vive rintanato in camera sua e, se prova a sgattaiolare via, si ritrova il proprio fratello maggiore che lo riporta a casa come se fosse un bambino» fu la risposta abbastanza scocciata.
Joshua sospirò:
«Jonah, l’ho fatto per te. Quel posto era pericoloso…»
«Una discoteca?! Quando la smetterete di tenermi tutti sotto questa fottuta campana di vetro?!» sbottò il minore, tirandosi a sedere e fulminandolo con i suoi occhi grigi e, in quel momento, portatori di un’espressione decisamente irritata.
«Cerchiamo solo di proteggerti» replicò Joshua, poco convinto a sua volta.
Erano cresciuti così, con uno che cercava di vivere e l’altro che gli impediva di morire, scontrandosi continuamente, e ormai entrambi erano così abituati da smettere di farci caso.
Jonah alzò gli occhi al cielo e si passò le mani fra gli arruffati capelli, soffocando uno sbadiglio:
«Che ore sono?» chiese.
«Ora di pranzo passata, e di là stanno già mangiando.» Lo informò il fratello, recuperando un paio di vestiti disseminati per la stanza e appoggiandoli alla sedia che si trovava in un angolo «Riordinare un po’ qua dentro ti fa venire l’orticaria, vero?» chiese poi, rassegnato, era l’ennesima volta che o lui o la madre glielo dicevano, e l’ennesima volta che Jonah li ignorava.
«Se mi ritenete troppo malato per poter uscire con i miei amici la sera, perché mi credete in grado di riordinare la mia camera?» domandò Jonah con un’espressione serafica e beffarda.
Ancora una volta, Joshua avvertì una stretta spiacevole alla bocca dello stomaco nel fissarlo. Erano circa due anni che gli succedeva di trovarsi a fissare il suo fratellino e avvertire quella sensazione di disagio. All’inizio non capiva cosa fosse: preoccupazione, istinto di protezione, affetto… Ma ormai la situazione gli era fin troppo chiara, e i suoi sentimenti lo spaventavano.
Erano fratelli, dannazione, doveva smettere di pensare a certe cose!
«Non iniziare a sfruttare le nostre azioni a tuo vantaggio, ragazzino. Sei perfettamente in grado di riordinarti la camera. O almeno di rimettere i vestiti nell’armadio» nel dirlo, Joshua scosse la testa, sapeva che era un discorso inutile.
«Spero sempre che lo faccia il mio gentile e premuroso fratello maggiore».
A quelle parole, il maggiore emise una risatina gutturale e alzò un sopracciglio. Era stato fin troppo premuroso nei suoi confronti negli ultimi sedici anni: da quando Jonah era nato si era preso cura di lui, nonostante avesse solo cinque anni più di lui. L’aveva guardato da lontano, desideroso e inquieto al tempo stesso di coinvolgerlo nel suo mondo.
Aveva sperato tanto in un fratellino con cui giocare, con cui organizzare dispetti per gli adulti, o anche con cui litigare, aveva atteso trepidante quei nove mesi necessari al suo arrivo, ma quando finalmente quel giorno era arrivato, gli avevano detto che Jonah era fragile, che Jonah era debole, che Jonah era diverso da lui, e che lui avrebbe dovuto prendersene cura e stare attento che non si facesse male.
«Ok, ok… alzati, renditi presentabile e vai a salutare almeno i nonni, poi ti procuro del cibo».
«Sissignore!»
Joshua si tirò su scuotendo la testa, incredulo: dove la trovava Jonah la voglia di fingere che andasse sempre tutto bene? Di fare come se dimenticasse ogni volta che il suo cuore si era quasi fermato?
Scrollò il capo, uscendo dalla stanza per lasciare il tempo al fratello di prepararsi, ma anche per mettere un po’ di distanza fra loro.
Negli ultimi tempi, le fitte che lo attraversavano erano diventate sempre più forti, al punto da arrivare a chiedersi cosa sarebbe successo se, un giorno, avesse parlato con Jonah di quello che realmente provava.
Probabilmente l’avrebbero cacciato di casa, e suo fratello si sarebbe sentito male. Quindi meglio tacere.
 
Passarono diverse settimane senza che Jonah stesse male una volta, ma invece che sentirsi sollevato da questo, il ragazzo non faceva che incupirsi.
E il motivo era semplice: nonostante si sentisse meglio, sapeva che quello derivava dal semplice fatto che era stato costantemente all’erta, non aveva mai fatto il minimo sforzo, rinchiudendosi nel suo mondo di musica e libri come sempre.
Guardava con invidia Joshua che usciva la sera e rientrava la mattina, a volte un po’ stordito, ma vivo.
Jonah non riusciva a ricordare una volta in cui si era sentito vivo. Gli sembrava di essere un semplice fantasma, che passava le sue giornate fra la scuola e la casa, con occasionali incontri pomeridiani - rigorosamente in camera sua - con i suoi due migliori amici a spezzare la monotonia.
Ah e ovviamente c’erano le sere passate in camera di Joshua, a parlare e scrivere musica, o a stuzzicarsi a vicenda.
Ma negli ultimi tempi Joshua sembrava strano nei suoi confronti, teso, come se si trattenesse dal fare qualcosa. E non rispondeva alle sue domande, se gli chiedeva cosa stesse succedendo.
Quel pomeriggio, mentre era seduto sul divano in sala a strimpellare un paio di note sulla chitarra, Joshua rientrò come una furia, quasi sbattendo la porta in faccia alla madre che lo seguiva.
«Che cos’è successo?» chiese Jonah, accigliandosi, mentre il fratello sbuffava e si passava le mani fra i capelli corvini, disordinandoli anche di più, e i suoi occhi celesti saettavano da una parte all’altra della stanza, come a cercare una soluzione a qualcosa.
Sua madre si sedette accanto a lui e posò una mano sulla sua che reggeva la chitarra, guardandolo tristemente.
Non era mai un buon segno, quello.
«Avevano trovato un cuore compatibile», cominciò, sorridendogli con compassione, e lui capì già che non c’era un lieto fine a quello che stava per dirgli. «Ma in lista d’attesa c’era un caso più grave.»
«Una vecchia zitella!» sbraitò Joshua, tirando un colpo ad un mobiletto lì vicino «Una vecchia che non mancherebbe a nessuno!» strizzò gli occhi, consapevole di essere ridicolo, e ingiusto, ma aveva seriamente sperato che le loro sofferenze potessero finire…
«Calmati, Josh. Non importa. Se era prima di me, vuol dire che ne aveva bisogno» sospirò Jonah, posando la chitarra.
Non l’aveva presa così bene, a dire il vero, ma non voleva far star male Joshua e sua madre perdendo il controllo. Non sarebbe cambiato nulla comunque.
«Chi sono loro per decidere chi è più importante e chi meno?» rispose il fratello, ancora con voce alterata, e gli occhi lucidi, il viso trasfigurato dalla rabbia.
Jonah sospirò, così come sua madre, poi si alzò e gli si avvicinò lentamente, come ad un animale spaventato:
«Josh, calmati adesso», gli ordinò, posandogli le mani sulle spalle. «Ho ancora tempo, ne troveranno un altro».
A dire il vero non ci credeva più nemmeno lui, si era semplicemente rassegnato al suo destino: non gli interessava vivere chissà quanto a lungo, tutto quello che gli interessava era poter dire di averlo fatto, almeno. Per questo trovava opprimente quel modo che aveva la sua famiglia di trattarlo.
Lo facevano sopravvivere, tutto qui. Sopravviveva, non viveva.
«E magari ti passerà davanti qualcun altro anche quella volta».
«Joshua, non ho bisogno di te che fai queste scenate, sai? Fa già tutto abbastanza schifo di suo!» sospirò esasperato alla fine, recuperando la sua chitarra e ritirandosi in camera sua.
Il maggiore rimase in sala a fissare la madre, entrambi sul punto di andare in pezzi.
«Vieni qui, Joshua» lo chiamò lei, dolcemente, lui la raggiunse sul divano, occupando il posto che fino a poco prima aveva ospitato Jonah, e si lasciò tirare in un abbraccio umido di lacrime e tremante di singhiozzi.
Voleva che tutto quello finisse, voleva che suo fratello potesse finalmente vivere la vita che meritava, che non dovesse stare attento a tutto. Non se lo meritava, sarebbe stato meglio che succedesse a lui, non al suo fratellino!
 
Buio.
E freddo.
Che cos’era successo? Come ci era finito lì?
Un rumore metallico, ripetitivo, come il battito di un cuore artificiale. L’aveva già sentito altre volte.
Troppe altre volte.
Era di nuovo all’ospedale, ne aveva la certezza ora che lentamente riusciva a sentire i tubicini infilati nelle sue vene, quelli attaccati al suo petto nudo, le lenzuola fredde del letto. Quel rumore era l’elettrocardiogramma che registrava la lotta del suo cuore contro se stesso, contro la sua debolezza.
Lentamente riaprì gli occhi, come si era costretto a fare molte altre volte, e fu accolto dal buio, per una volta non c’era una luce accecante ad aspettarlo.
Si voltò verso il divanetto vicino al letto, aspettandosi di trovarvi sua madre, invece fu sorpreso di riconoscere la sagoma di Joshua. In tutta la sua vita, non aveva mai visto suo fratello al suo capezzale quando era in ospedale: gli dicevano che stava al suo fianco mentre dormiva, ma al suo risveglio lui non c’era mai, si volatilizzava non appena le sue palpebre iniziavano a fremere.
Invece ora era lì, sebbene profondamente addormentato, un libro sopra la faccia e una mano abbandonata giù dal divano. Tipico di Joshua.
Jonah si guardò attorno pigramente, conosceva quella stanza, ormai, così come conosceva quella di rianimazione e molte altre. Da piccolo era terrorizzato da quegli ambienti bianchi e silenziosi, abitati da quelli che gli sembravano spettri, intorno ai tredici anni li aveva trovati opprimenti e insopportabili, ora li vedeva come nient’altro che luoghi familiari e indifferenti.
Conosceva gran parte delle infermiere e alcuni dei pazienti, che però andavano e venivano troppo velocemente per tenerne traccia. La porta si aprì, e un’ombra entrò in silenzio, avvicinandosi a Joshua e togliendogli il libro dalla faccia.
«Mamma» sussurrò, attirando l’attenzione della donna, che smise di accarezzare i capelli del figlio maggiore per dedicarsi al più giovane:
«Hey! Ben svegliato, tesoro!»
«Che… che cosa è successo?»
Le loro voci non svegliarono Joshua, che continuò a dormire nel suo angolino, e Jonah ne era sollevato, in fondo. Se suo fratello non voleva essere presente mentre lui era sveglio, doveva avere i suoi buoni motivi.
«Sei rimasto incosciente per giorni, Jonah. Poco dopo quel mezzo “litigio” con tuo fratello sei collassato… Non mi ero mai spaventata tanto!»
“Ah sì, adesso ricordo” pensò il ragazzo, mentre il suo petto sembrava volergli raccontare la sua versione degli eventi, lanciando delle piccolissime fitte di tanto in tanto.
«Quindi è peggiorato?» chiese, senza una particolare inflessione nella voce.
Ormai aveva imparato a parlare delle sue condizioni come se si trattasse del meteo del giorno dopo, cosa che sembrava far impazzire sua madre, che in quel momento gli prese una mano e la strinse forte:
«Stanno cercando un donatore compatibile, il più velocemente possibile, così non correrai altri rischi».
L’ennesima risposta non risposta.
Sentì dei rumori dal divano, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa, Joshua si era alzato ed era uscito dalla stanza, lasciando dietro di sé suo fratello con gli occhi spalancati dalla sorpresa.
Non gli aveva nemmeno rivolto la parola?
«Gli passerà. È solo preoccupato per te».
Voleva crederci.
 
«La prego! Perché non è possibile?» sospirò Joshua, implorando il medico con uno sguardo.
«È rischioso… se dovesse avere un rigetto rischieremmo di non poter sostituire l’organo»
«Sì, ma se lui rimane con quel cuore rischia di morire da un momento all’altro!»
Ma il medico continuò a scuotere la testa con quell’aria seria e grave, e il ragazzo finì col voltargli le spalle e andarsene, fino a finire in un reparto dai corridoi deserti, lì si lasciò scivolare a terra, lottando per l’ennesima volta con la rabbia e con le lacrime.
Lo stava perdendo. Ancora un po’ e non avrebbe più potuto proteggere Jonah, il suo fratellino se ne sarebbe andato senza che lui potesse fare nulla per aiutarlo.
Continuò a pensare a tutti i ricordi che aveva con lui, le mille storie che si era inventato per farlo addormentare la notte, i mondi che aveva inventato per lui cercando di far passare più in fretta le infinite ore di cure ed esami all’ospedale.
Come sarebbe stato svegliarsi la mattina e non trovarlo in cucina a litigare con i fornelli che non era mai stato capace di accendere?
Cosa avrebbe fatto a pranzo, se non doveva cucinare qualcosa di commestibile per entrambi?
E la sera? Ormai era così abituato ad addormentarsi sentendo suo fratello suonare, che immaginare la casa silenziosa e la chitarra chiusa in soffitta lo riempiva di paura. Non voleva che succedesse, non voleva perdere tutto così, per qualcosa che non poteva contrastare.
Si coprì il viso con le mani, calmandosi. Non sarebbe successo: avrebbero trovato un donatore, un cuore adatto a Jonah.
Dovevano riuscirci.
Non poteva morire a sedici anni.
Non senza aver mai provato a vivere!
 
«Sei impazzito?»
«Come ti è saltato in mente, Joshua? Proprio tu poi!»
Le grida dei suoi genitori gli ferivano le orecchie mentre si fissava la punta dei piedi, coperti dal pigiama, e si torturava un angolo della bocca con i denti.
Era stata una mossa azzardata quella di lasciare che Jonah andasse a quella festa, aiutandolo a uscire senza il permesso dei loro genitori, eppure Joshua non se ne pentiva: suo fratello aveva sedici anni, e tanta voglia di conoscere il mondo quanta ne aveva avuta lui, o chiunque altro, alla sua età; costringerlo a rinunciare a tutto quello che caratterizzava essere un adolescente, con tutti gli aspetti positivi o negativi che fossero, togliergli ogni genere di esperienza, equivaleva ad ucciderlo, a farlo diventare poco più di un fantasma rinchiuso nella loro casa, o peggio ridurlo ad una bambola di porcellana, qualcosa di bello da vedere, ma fragile e privo di ogni altra utilità.
Non voleva quello per Jonah.
Certo, avrebbe preferito mille volte saperlo al sicuro nella sua camera, o al suo fianco, ma sapeva che farlo equivaleva a guardarlo spegnersi sotto i suoi occhi, come una fiamma a cui si leva sempre più ossigeno, fino a non lasciarle più nulla da cui alimentarsi.
Ci aveva messo quasi sedici anni a capirlo, aveva pensato di poter salvare suo fratello comportandosi in quella maniera che ora gli sembrava sciocca e asfissiante.
«Joshua, sei stato un irresponsabile!» lo rimproverò sua madre. «Perché non mi risponde al telefono?!» chiese poi, disperata; il marito si affrettò a spiegarle che probabilmente non l’aveva nemmeno sentito con tutto il chiasso della festa, e lei non aveva motivo di preoccuparsi.
«Io vado di là» comunicò il ragazzo, alzandosi e svignandosela.
Certo che era preoccupato per Jonah, se gli fosse successo qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato, ma allo stesso tempo confidava nelle precauzioni che avevano preso: il minore aveva preso tutte le medicine necessarie prima di uscire, e se ne era portate altre per le emergenze, i suoi amici sapevano cosa fare in casi estremi…
“Respira. Andrà tutto bene”.
Nonostante tutto, rimase sveglio fino alle tre del mattino, quando finalmente suo fratello rientrò e invase la sua camera, sorridendo come non aveva mai fatto prima.
«Che ci fai ancora sveglio?» chiese il sedicenne, accomodandosi sul letto di Joshua, che se ne stava appollaiato sul davanzale a leggere.
«Winston Smith ha appena detto “fatelo a lei”, non potevo chiudere proprio sul più bello».
Jonah dovette sbirciare la copertina del libro per capire che suo fratello parlava del libro 1984, ma gli bastò notare le dita che torturavano le pagine di suddetto libro per intuire che non era certo quello il motivo.
«Eri preoccupato per me e mi aspettavi sveglio?» sogghignò, dandogli una gomitata.
«Ma anche no» rispose tranquillamente Joshua, girando pagina e tornando a leggere. «Che presuntuoso! Ti sei divertito, comunque?» voltò lo sguardo verso di lui, esaminandolo da cima a piedi.
Sembrava star bene, solo un po’ stanco per via dell’ora, ma non era pallido né sembrava sentire qualche dolore. Al contrario, sembrava brillare di luce propria, e sprizzava energia da tutti i pori:
«Non… non saprei nemmeno da dove iniziare a raccontare!»
Joshua non l’aveva mai visto così luminoso e pieno di vita, e se l’aveva trovato bellissimo prima, ora non sopportava quasi di guardarlo.
Perché doveva provare quei sentimenti? Giusto per complicare la situazione ancora un po’.
Jonah continuò a raccontare ancora a lungo, mentre il fratello rinunciava a fingere di leggere e lo raggiungeva sul letto.
Alla fine si addormentarono entrambi su di esso: il minore parve spegnersi come un fiammifero su cui qualcuno aveva appena soffiato, il maggiore invece più lentamente, dopo averlo osservato con un sorriso triste.
Jonah non sarebbe mai e poi mai potuto essere suo, non c’erano speranze. Doveva mettersi il cuore in pace.
Con quel pensiero, raggiunse il fratello fra le braccia di Morfeo.
A quella sera ne seguirono altre, per il disappunto dei genitori dei due ragazzi, ma anche loro furono costretti ad ammettere che Jonah aveva un aspetto più sano di prima, e i suoi occhi brillavano come non aveva mai fatto prima.
Sembrava essere diventato più forte, ma fu solo una questione di mesi.
Una mattina, mentre era a scuola, il petto aveva iniziato a fargli male, respirare era diventato difficile e la vista gli si era offuscata.
L’ultima cosa di cui si rese conto fu la voce dell’insegnante di letteratura che chiamava il suo nome, poi ci fu il buio.
 
«Non c’è più tempo. Ha bisogno di un trapianto il prima possibile, l’operazione di oggi non lo terrà in vita a lungo».
Le parole del medico sembravano una condanna, rimasero ad aleggiare ai piedi del lettino su cui Jonah era sdraiato, ancora addormentato. A Joshua sembrava quasi di vederle quelle parole mentre si condensavano in una nebbia scura e scivolavano attorno a suo fratello, condannandolo.
Non c’è più tempo.
Non c’era mai stato tempo, per loro. Non c’era mai stato tempo per Jonah, tutta la sua vita era stata costantemente vissuta all’insegna della morte.
Memento mori, ricordati che devi morire, non c’era giorno senza che qualcuno, o qualcosa, ricordasse al ragazzo quanto vicino fosse alla fine.
Joshua osservò il fratello dormire, era l’unico momento in cui riusciva a stargli accanto: non aveva mai sopportato di vederlo vulnerabile e debole sotto tutti i macchinari che lo circondavano, ma se dormiva riusciva a tollerarlo, per qualche motivo, se invece era sveglio… Vederlo cercare di rassicurare tutti, nascondere le sue paure e continuare a sorridere nonostante fosse esausto era qualcosa che gli faceva troppo male. Jonah indossava la sua maschera così bene, che lui si sentiva inadeguato a indossare la sua.
 
«Perché non vieni a trovarlo, Josh? Chiede sempre di te».
«Ma io vado a trovarlo. Solo che mi assicuro che lui non sia sveglio quando capita».
Era ormai un mese che quella storia andava avanti, le pochissime volte in cui i medici si azzardavano a dimettere Jonah, lui aveva un attacco poco tempo dopo, e quindi di nuovo corsa all’ospedale.
Ormai il ragazzo aveva rinunciato a chiedere di poter tornare a casa.
Joshua non lo sopportava: vedeva suo fratello che si arrendeva, mentre lentamente si spegneva.
Eppure lui gli aveva dato l’ossigeno di cui aveva bisogno per bruciare, no? Allora perché non aveva funzionato?
E perché era così difficile trovare un donatore adatto?
Il mondo era seriamente così egoista da lasciar morire un ragazzino di sedici anni prima ancora che lui potesse innamorarsi? Prima che potesse diplomarsi? Prima di trovare un lavoro, farsi una famiglia…
Dov’era la giustizia? Perché la vita di Jonah dipendeva da una stupida lista di attesa?
Si sentiva un mostro, un mostro che sperava nella morte e nella sofferenza altrui per poter avere vita e speranza per sé e per la sua famiglia.
Chiuse gli occhi e serrò i pugni.
Doveva esserci un modo.
 
Due cellulari squillarono in casa, e una donna e un uomo andarono a rispondere.
«Come dice? Ancora un altro attacco? Ma… ne ha avuto uno solo ieri, com’è possibile?»
«C-chi parla, scusi?»
«Certo, arriviamo subito!»
«Sì, parto immediatamente, sarò lì fra un paio di minuti»
I due adulti si fissarono, entrambi spaventati, entrambi con le lacrime che traboccavano dagli occhi, si incastravano fra le ciglia e finalmente si buttavano giù lungo le guance.
Rotolavano rapidamente e determinatamente verso la loro fine.
 
Jonah si svegliò un paio di volte, trovando però solo la forza di fare quello. Il resto del corpo non gli rispondeva, e la sua mente sembrava annebbiata.
Vide un’infermiera passare davanti a lui, la donna gli sorrise, e rispose alla sua muta domanda:
«Sei ancora sotto l’effetto dell’anestesia. Fra un po’ passerà e tu ti sentirai meglio, vado ad avvisare la tua famiglia».
Le palpebre continuavano a pesargli, così lui tornò a dormire.
Accadde un altro paio di volte, poi finalmente riuscì a svegliarsi, sentendosi meno confuso e imbambolato. Ma qualcosa continuava ad essere diverso, strano: era abituato a sentirsi nel petto battiti rapidi, leggeri e irregolari, ora invece li sentiva lenti, forti, come se il suo cuore volesse recuperare tutti quegli anni, far sentire la sua presenza.
All’inizio si era spaventato, la sua mano era corsa all’altezza del cuore e lui aveva fissato i dottori in preda al panico.
Qualcosa non andava!
Poi quelli l’avevano rassicurato, dicendo che era solo per via del trapianto. Adesso aveva un cuore che funzionava, per quello gli sembrava strano.
I suoi genitori lo strinsero forte appena lo videro sveglio e cosciente, ma qualcosa non quadrava.
Non erano lacrime di gioia quelle che versavano.
Dov’era Joshua? Era abituato a non vederlo al suo fianco all’ospedale, ma aveva pensato che ora che l’incubo era finito…
Chiese di lui, e gli risposero con dei singhiozzi più forti.
Dovette aspettare a lungo prima di poter finalmente scoprire la verità.
A quel punto seppe dell’incidente, di come la morte di suo fratello gli aveva salvato la vita; erano in quattro nell’auto che si era schiantata, e gli altri tre corpi erano ridotti in uno stato tale che era stato impossibile prelevarne gli organi. Quello di Joshua era rimasto praticamente intatto, e i suoi genitori avevano firmato subito per l’esportazione, più in preda all’incredulità che al raziocinio.
Si erano resi conto di quello che era successo dopo il trapianto.
In quel momento avevano realizzato che era di Joshua il cuore che aveva salvato Jonah.
Avevano perso un figlio per poterne riavere un altro.
Jonah aveva urlato alla notizia, affondandosi le unghie nella carne del petto, quasi a volersi togliere quel cuore che non era suo, e non era di un estraneo.
Era quel cuore che mille volte aveva sentito battere contro il suo orecchio, quando da piccolo si addormentava abbracciato al fratello, era quel cuore che aveva contenuto l’affetto di Joshua per lui.
Gli era servito tempo, giorni, settimane, mesi, anni, ma alla fine aveva accettato quell’ultimo regalo.
Joshua l’aveva sempre protetto, l’aveva sempre salvato.
Ora l’aveva fatto nel più definitivo dei modi, dandogli ciò di cui aveva sempre avuto bisogno.
Solo che Jonah adesso non aveva con chi condividerlo. Aveva fantasticato sulle cose che avrebbe potuto fare una volta guarito, ma in tutti quei sogni c’era Joshua, non era solo.
Lentamente, l’incredulità era sfumata in rabbia, la rabbia in odio, l’odio in rassegnazione, infine la rassegnazione era diventata accettazione, era diventata gratitudine.
Doveva la vita a Joshua.
Ancora una volta.
 
Qualche anno dopo, seduto sul davanzale della finestra nella sua stanza che divideva con un compagno di college, Jonah osservò soddisfatto il testo della canzone che aveva appena finito di scrivere.
Si posò una mano sul petto, dove il cuore batteva tranquillamente, e sorrise.
Non aveva perso Joshua, la parte più importante di suo fratello era ancora con lui, e lo guidava.
 
Thanks for all you've done
I've missed you for so long
I can't believe you're gone
You still live in me
I feel you in the wind
You guide me constantly


 
 
   
 
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