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Autore: LysL    26/03/2015    4 recensioni
Sotto lo spesso strato di trucco e l'esuberanza tipica della gente di Capitol, Effie Trinket è comunque una persona, e come tale prova sentimenti.
E questa volta è costretta a dover fare i conti con qualcosa che mai aveva provato prima: la paura. Non la paura superficiale di non riuscire mai ad essere promossa ad un distretto migliore, ma la paura di perdere coloro a cui si è, inconsapevolmente, affezionata.
Però Effie non è sola, e a volte è meglio avere una spalla a cui appoggiarsi.
Dal testo:
Si guardò allo specchio.
La donna del riflesso, che la guardava, non poteva assolutamente essere Effie Trinket. Lei non aveva due occhiaie scure sotto gli occhi, non aveva un accenno di rughe d’espressione sulle guance, né la pelle così poco luminosa, i suoi capelli non ricadevano flosci ai lati del viso, le sue guance non erano scarne.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Effie Trinket, Haymitch Abernathy
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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È questo che fanno gli Hunger Games

 

Alla luce soffusa della toelette, una donna, circondata da innumerevoli boccette di unguenti e creme dai nomi impronunciabili, si stava passando una salviettina struccante sul viso.
Il suo volto, allo specchio, le appariva sempre meno degno di nota, sempre meno bello, con l’assottigliarsi dello strato di cipria, ombretto e chissà cos’altro.
Il suo occhi le parvero piccoli, insignificanti e sbiaditi, le sue labbra sottili e spente, a nessuno sarebbe mai venuta voglia di baciarla. Per non parlare di quella pelle che non era né diafana e perfetta né liscia e bronzea, ma di un colore palliduccio e seconda della luce anche giallastro, inframmezzata da nei e piccole cicatrici dovute a cerniere o spilli. Si chiese perché ancora non se le fosse fatte togliere chirurgicamente.
Lanciò un’occhiata alla parrucca dorata che stava su un mobile, accanto alle altre, calcata sulla testa di un manichino.
Anche i suoi capelli non avevano niente di speciale, erano di un biondo scontato, sbiadito.
Si passò la salvietta sul collo, togliendo anche da lì l’eccessivo trucco. Lavò via i residui con l’acqua, sciacquando via le strisce di polvere colorata dal marmo bianchissimo e venato d’ambra, per poi passarsi un asciugamano di spugna morbida sul viso.
Si guardò allo specchio.
La donna del riflesso, che la guardava, non poteva assolutamente essere Effie Trinket. Lei non aveva due occhiaie scure sotto gli occhi, non aveva un accenno di rughe d’espressione sulle guance, né la pelle così poco luminosa, i suoi capelli non ricadevano flosci ai lati del viso, le sue guance non erano scarne.
Distolse lo sguardo dalla sua gemella nello specchio, così diversa e così simile a lei allo stesso tempo, e lo posò di nuovo sulla parrucca che brillava di paillettes dorate sotto la luce aranciata e poco intensa del faretto che puntava proprio sul mobile color panna arricchito da ghirigori artistici in argento sintetico.
Le ricordava ogni istante di quello che sarebbe successo di lì a poche ore.
I suoi vincitori, i suoi ragazzi, sarebbero finiti di nuovo nell’arena e né lei né Haymitch avrebbero potuto fare niente. Non sapeva nemmeno quando aveva iniziato ad affezionarsi a loro, ma adesso la sola idea di perderli, di perdere anche solo uno dei due, le faceva venire voglia di piangere, di abbandonarsi completamente alla tristezza. Eppure, Effie non lo faceva. Faceva finta che andasse tutto bene, che quello che Capitol faceva andasse bene. Le sembrava ingiusto piangere, ingiusto nei confronti di Katniss e Peeta, i quali stavano andando per la seconda volta incontro alla morte, a testa alta. Era davvero orgogliosa di quello che erano diventati, nonostante tutto quello che non avevano e non avrebbero mai avuto. Per questo lei non aveva il diritto di essere triste, lei sarebbe rimasta in vita, lei e quelli come lei.
Si strinse nella vestaglia leggera, colta da un brivido improvviso, perfettamente consapevole che non si trattava di una reazione al freddo della stanza, in verità piacevolmente tiepida.
Diede un’ultima occhiata alla Effie dello specchio, rivedendosi di più in lei, quella seconda volta. Vide le notti passate in bianco nelle ombre sotto gli occhi, vide lo sforzo di sorridere sempre, nelle quasi impercettibili rughe.
Si inumidì le labbra, sentendo il bisogno di un bicchiere d’acqua e prese ad incamminarsi verso il salotto, dove sapeva che l’avrebbe trovata.
I corridoi erano bui, e le sembrarono spettrali al pensiero che dall’indomani, né Katniss, con la sua ingenua forza, né Peeta, con la sua disarmante sensibilità, li avrebbero più percorsi.
Le pizzicarono gli occhi, e fu finalmente libera di strofinarli con vigore, senza paura di far sbavare il trucco.
Dal salotto la luce arrivava, bassa e calda, e l’ombra di qualcuno si muoveva all’interno.
Effie sapeva benissimo chi avrebbe trovato lì dentro: l’unica persona che potesse essere sveglia a quell’ora, come lei; non si stupì, infatti, di trovare Haymitch sprofondato in una poltrona, con un bicchiere di cristallo lavorato colmo di liquido ambrato.
Si nascose nella veste leggera che le cadeva addosso, nascondendo il colorito pallido della pelle, e per un attimo le venne voglia di aver un cappuccio da tirare sulla testa per nascondere i capelli sfibrati a causa del continuo uso delle parrucche.
Cercò di non guardare nella direzione dell’uomo che tuttavia non dava segno d’averla vista.
«Sto ancora cercando di decidere se bere o non bere questo bicchiere di Whiskey.» Disse ad un tratto Haymitch, la voce leggermente alterata, facendola sussultare.
Effie strinse le labbra nel tentativo di trattenersi dal dire ciò che pensava realmente. Non era dell’umore giusto per litigare con lui.
«Voglio dire, non sono ancora abbastanza sbronzo da non capire più quello che sta succedendo.» Continuò, e con la mano prese a far roteare il contenuto del bicchiere.
Lei continuò a non guardarlo, né rispose.
«Vorrei ubriacarmi, e dimenticarmi anche il mio nome, ma non penso di poterlo fare, vero?» Chiese, posando definitivamente e con poca grazia il bicchiere sul tavolino di vetro.
A quel rumore tintinnante e tuttavia sordo, Effie si riscosse. «No, non puoi ubriacarti Haymitch.» gli rispose, secca, la mano stretta sul manico della brocca d’acqua.
«E perché?»
Effie sospirò nel sentire quella richiesta, e dovette usare molta forza di volontà, più di quella che credeva di possedere, per non zittire Haymitch con i suoi soliti modi “isterici e capitolini”, così li chiamava lui.
«Devi farlo per Katniss e Peeta, perché almeno uno di loro due deve tornare vivo dall’arena.» Da quel folle massacro avrebbe voluto dire, ma non lo fece, per paura che qualcuno potesse sentirla.
«Come io cerco di essere forte per loro, tu cercherai di essere sobrio. Perché se lo meritano, tutti e due.»
Haymitch si alzò, barcollando leggermente e si portò al fianco di Effie, lo sguardo puntato sulle mani della donna che versavano l’acqua.
Effie era a disagio. Non era imbarazzata: non voleva che la si vedesse in quel modo, poco appariscente, brutta. Non si piaceva, non si era mai piaciuta.
Haymitch emanava un sentore di alcol, ma era tanto lieve che poteva essere quasi piacevole. Effie non se lo aspettava.
«I vincitori sono egoisti.» Disse.
Effie, stupita da quell’affermazione, si girò a guardarlo, salvo poi voltarsi immediatamente dopo essersi ricordata delle condizioni in cui era. «E questo cosa c’entra?» Chiese, la voce più acuta di poco prima, segno che i suoi modi esuberanti cercavano un varco per uscire.
«Nessuno, lì dentro, ti regala nulla. Tutto va conquistato: cibo, acqua, un posto dove passare la notte, un’arma. Tutto si ottiene con il sangue, ma non il tuo, mai il tuo. Questo rende egoisti, pensare che la tua sopravvivenza valga più di quella degli altri. È questo che fanno gli Hunger Games: ti privano pezzo per pezzo di ogni briciolo di umanità, e quando di te non rimane che un assassino, ti premiano per ciò che sei diventato.»
Si bloccò, Effie, il bicchiere in mano, gli occhi spalancati. Mai, a sua memoria, Haymitch si era lasciato andare a commenti sui giochi che non fossero frecciatine, o battute, mai a lei aveva rivolto parole tanto piene di rabbia e amarezza.
Si voltò verso di lui, per la seconda volta, incontrando i suoi occhi; non aveva mai pensato di guardarlo negli occhi, non le era mai importato, e in quel momento se ne pentì. Quanti incubi, quanti sensi di colpa nascondevano? Effie non lo sapeva.
«Non Katniss e Peeta, loro sarebbero stati pronti a dare la vita per l’altro.» Disse allora. Tentava di distogliere lo sguardo da quello di Haymitch, per paura di scorgervi qualcosa che lui non voleva condividere, ma che i fumi dell’alcol rendevano chiaro.
L’uomo non rispose, ma chiuse gli occhi e tornò a sedersi sulla sedia. Si portò una mano alla fronte, come se stesse pensando.
«Infatti non sono stati premiati, Effie.» Le fece notare, la vena di sarcasmo di nuovo presente nel tono di voce. Ridacchiò.
Lei bevve l’acqua, per evitare di rispondere. Sapeva che Haymitch aveva ragione, su tutto, ma non voleva ammetterlo apertamente. Si limitò a posare il bicchiere, con il solito tintinnio di vetro contro vetro. Strinse le mani tra loro: parlare di Katniss e Peeta in quel modo le faceva venire i conati di vomito, non voleva pensare a quello che sarebbe potuto accadere, non voleva pensare che avrebbe dovuto dire addio ad uno di loro, se non a tutti e due.
Sentì il sapore delle lacrime e il leggero solletico sulle guance ancor prima di realizzare di essersi messa a piangere.
«Perché piangi?» Le chiese Haymitch, più vigile, con la voce meno alterata e stridula. Più sobrio, s’azzardò a pensare Effie.
«È ingiusto, lo so. È sbagliato: non sono io a dover entrare nell’arena, eppure ho paura come se lo fossi.»
«È il senso di colpa dei sopravvissuti, dolcezza. Dovrai imparare a conviverci, come ho fatto io, come hanno fatto Katniss e Peeta e quelli prima di loro. Loro sono vivi perché altri sono morti.»
Effie rabbrividì a quelle parole e soffocò un singhiozzo con il pugno chiuso contro le labbra.
«Non credo che riuscirò, Haymitch, dopotutto sono solo un’isterica e troppo sentimentale Capitolina, no? Non sono capace di contenere le mie emozioni.» Ridacchiò, amara, mentre ripeteva le parole che lui aveva usato molte volte per descriverla.
Alzò gli occhi, velati di lacrime, per guardarlo, sicura che avrebbe trovato un sorrisetto ironico a solcargli il viso. Invece Haymitch la fissava, serio. «Sei più brava di quanto credessi invece.» Sorrise, alla fine, con un non-so-che di dolce nel tono di voce e nel modo in cui stirò le labbra.
«Beh, lo prenderò per un complimento.» Concesse lei. «Grazie per la compagnia e per le parole confortanti. E buonanotte.» Cercò di congedarsi con garbo, pregustando già di poter piangere silenziosamente la durata della notte per potersi mostrare sorridente come sempre il giorno dopo, ma Haymitch, senza alcuna logica, fece una cosa che Effie non si sarebbe mai aspettata.
«Sei sicura di voler dormire da sola?» Le chiese, senza malizia, come se le stesse chiedendo che ore fossero.
«Ma che domande sono!? – strillò Effie, soffocando l’urletto per timore di svegliare tutti – Certo che sono sicura, perché non dovrei esserlo?»
Haymitch fece uno sbuffo e mosse la mano verso di lei, come se stessero parlando di qualcosa di ovvio. «Ho idea che inzupperesti il cuscino di lacrime.» Le rivelò.
Effie alzò le spalle, e si girò fino a dargli la schiena tutta impettita. Non voleva ammetterlo, ma quella volta Haymitch aveva ragione. L’idea di rintanarsi nella sua camera per piangere da sola le due uniche persone a cui si era affezionata non le sembrò più tanto allettante come lo era stata pochi minuti prima. La solitudine che l’aspettava una volta varcata la soglia di quella lussuosa stanza d’un tratto le fece paura e si scoprì a pensare che le braccia di Haymitch avrebbero potuto essere un rifugio più caldo e confortante delle semplici lenzuola. E poi era stanca di essere forte da sola.
Si voltò di nuovo e sollevò le spalle, che si erano, senza che lei se ne accorgesse, abbassate in una posa abbattuta. Annuì, passandosi le mani sulle braccia coperte dalla veste da camera.
«Grazie, Haymitch.» Mormorò.
Haymitch le sorrise, di nuovo in quel modo tanto diverso dal solito. Le prese una mano, dove le unghia curate e laccate risaltavano contro la pelle bianca e ancora di più a confronto con quelle corte e spizzicate di Haymitch.
«Te li riporterò vivi, entrambi.» Le promise, portandosela sul cuore.
Effie, a quel tempo, non sapeva quanto quella promessa fosse in realtà veritiera. Si accontentò di sapere che lui condivideva il suo dolore, si accontentò di sapere che Haymitch stava cercando di consolarla, di sapere che nel profondo lui teneva a lei almeno nella stessa misura di quanto lei teneva a lui.

 

 

 

Note della pazza autrice:
Salve, bella gente! Sono di nuovo qui! A rompere con le mie solite idee balorde.
Volevo dare un po’ di spazio ad Effie ed Haymitch, e siete liberi di vederli come amici o come amanti. Io sono una grande sostenitrice della Haymitch/Effie, quindi la considero una sorta di preludio ad un rapporto più stretto, ma ripeto, non è per forza così che deve essere intesa.
Ringrazio chiunque abbia letto fin qui, e spero che qualcuno di voi decida di lasciarmi un parere, anche critico (purché costruttivo), perché è la prima volta che muovo questi personaggi e non vorrei averli resi OOC, cosa che non riesco mai a valutare da sola.
Alla prossima!
LysL
  
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