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Autore: SpectrumDark    26/03/2015    3 recensioni
Non so cosa succede, non so cosa mi succede. Come mi sono ridotta così? Qui, da sola, a piangermi addosso come una stupida bambina. Con la mania di salvare tutti, mi sono dimenticata di salvare me stessa. E per cosa? Per uno stupido ragazzo. Per un coglione. Per degli stupidi sbagli, per uno stupido moccioso che non sa nemmeno quanto è alto. Come ci si può ridurre così?
Non m’importava di nessuno, non ero di nessuno. Ero libera, uno spirito libero senza problemi. Ero orgogliosa di me stessa. Niente mi aveva buttato giù. Niente e nessuno.
“Ascolta bene, non mi importa perché sei tornato, non mi importa perché te ne sei andato. Per me, sei acqua passata. Quindi, fammi il favore e togliti dal mio tavolo” presi un tovagliolo dal suo vassoio e lo girai intorno al dito.
Sentii la sua lingua schioccare e lo guardai. Si inumidì le labbra e scosse la testa.
“Se io voglio sedermi vicino a te, lo faccio. Hai capito?” disse togliendosi gli occhiali e mostrando i segni neri intorno agli occhi. Non si dorme bene con i rimorsi, vero?
Genere: Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Justin Bieber
Note: OOC | Avvertimenti: Violenza
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Primo Capitolo

 
Non so cosa succede, non so cosa mi succede. Come mi sono ridotta così? Qui, da sola, a  piangermi addosso come una stupida bambina. Con la mania di salvare tutti, mi sono dimenticata di salvare me stessa. E per cosa? Per uno stupido ragazzo. Per un coglione. Per degli stupidi sbagli, per uno stupido moccioso che non sa nemmeno quanto è alto. Come ci si può ridurre così?
 Non m’importava di nessuno, non ero di nessuno. Ero libera, uno spirito libero senza problemi. Ero orgogliosa di me stessa. Niente mi aveva buttato giù. Niente e nessuno. Per nessuno avevo tagliato la mia pelle. Per nessuno avevo fatto scorrere il sangue via da me. Per nessuno avevo perso il sonno. Per nessuno mi ero ridotta così. Per nessuno avevo abbandonato i miei amici, per nessuno ero diventata così stupida e cieca. Non avevo mai provato così duramente a salvare qualcuno, dimenticandomi di me. È la prima cosa che ti insegnano se vuoi fare l’operatore socio-sanitario. Salvaguardare se stessi era la prima cosa. La principale regola. E io mi ero bruciata. Non sapevo più chi ero. Non sapevo più chi volevo essere.
All’inizio era tutto così bello, come se niente potesse toccarci. Eravamo in alto, eravamo forti. Poi lui ha iniziato a cambiare. È diventato così forte, ma essere maledettamente debole. Pensavo di poterlo reggere, di poter reggere tutto, ero abbastanza forte per entrambi. Ero dannatamente forte da sollevare il mondo. Ma lui non voleva. Tutto il peso dei suoi problemi ricadevano su di lui. Non voleva il mio aiuto. Non voleva essere salvato, si voleva salvare da solo. Ma nessuno può. Tanto meno lui. Mi odiavo. Mi ero lasciata trascinare nella sua vita come una stupida. Mi ero scavata da sola la fossa. Ma adesso le cose dovevano cambiare. Io  dovevo cambiare. Per il mio bene, per il bene delle persone che mi stavano intorno. Non potevo farmi sottomettere da lui. Non mi ero mai fatta sottomettere da nessuno, nemmeno da mia madre. Ma da lui sì. Gli avevo dato la mia anima, il mio cuore. Tutto. Ogni singola parte di me.
 
 
 
 
Mi svegliai stordita nel mio letto, con indosso i vestiti del giorno precedente. L’alba non era ancora sorta, ma non mi preoccupava. Non dormivo quasi più. La notte era il mio buongiorno. Mi alzai piano, facendo attenzione a non fare rumore. Uscii dalla mia stanza, dirigendomi verso il bagno. Aprii l’acqua del lavandino, senza il coraggio di guardare la ragazza nello specchio. Mi sciacquai il viso, strofinando forte gli occhi. Forse, un giorno, avrebbero smesso di piangere. Mi asciugai il viso con un asciugamano e mi rintanai di nuovo in camera mia. Aprii l’armadio, in cerca di qualcosa di decente da mettere. Optai per un semplice paio di jeans stretti, con una felpa nera e i soliti scarponi. Presi lo zaino vicino alla scrivania e mi diressi di nuovo nel bagno. Guardai quella figura allo specchio, ormai non mi apparteneva più. Anche se i capelli erano sempre perfettamente tinti di rosso e le labbra, seppur screpolate, rimanevano rosso sangue. Gli occhi, invece, erano rossi, contornati da occhiaie nere. Chiusi gli occhi scuotendo la testa, alla cieca presi l’eyeliner e ne passi un filo sopra le palpebre chiuse. Riaprii gli occhi e presi il correttore per coprire un po’ di occhiaie. Sospirai e andai al piano inferiore.
Amavo svegliarmi presto, il silenzio mi faceva riflettere, anche se stavo riflettendo un po’ troppo. La casa era priva di rumori, una pace avvolgeva quel posto in modo quasi lugubre. Senza far rumore, sgattaiolai fuori dalla porta principale e mi avviai verso il solito bar.
Ovviamente ero la prima cliente e ad accogliermi trovai solo le serrande chiuse. Come di routine.
Infilai una mano dentro lo zaino, in cerca del pacchetto di sigarette.
Ne presi una, l’accessi e aspirai il primo vero respiro della giornata. Già, avevo iniziato anche a fumare. E  a bere, ogni tanto. Senza esagerare, giusto quel poco che mi serviva per dimenticare.
Non avevo idea di che ora fosse. Non ero la solita ritardata adolescente che fissava il telefono ogni secondo. Potevo solo intuire che tra poco sarebbe state le sei. Da cosa? Dall’alba. Dal cielo che si tingeva di quel colore spettacolare ogni mattina, come se la lune donasse quel colore per il sole, per avere un degno risveglio e per iniziare bene la giornata. Con me, nessuno faceva quelle cose. Nessuno si era mai preoccupato del mio risveglio e, fino a poco tempo fa, nemmeno io me ne preoccupavo. Ma ora, al pensiero che qualcuno creasse qualcosa di così bello solo per farmi sorridere, mi veniva voglio di buttarmi da un ponte. Esatto, perché sapevo esattamente che a nessuno importava di me e tanto meno del mio risveglio.
 
 
 
Luke mi salutò cordialmente, come ogni mattina.
“Cosa mi prepari di buono?” quello era l’unico momento della mia giornata a farmi sentire viva. Luke era un amico di famiglia, ma non aveva mai detto niente a mia madre sul fatto che prima dell’alba ero già lì.
“Il solito. Pancakes al cioccolato, con una bella cioccolata calda con tanta schiuma” lo aiutai a tirare su la serranda e aspettai pazientemente al solito tavolo. Avrei voluto aiutarlo a preparare le cose, ma lui diceva che era il suo rito, per iniziare bene la giornata. Il mio rito era di non morire strozzata dalle lacrime durante la notte. Tutto qua.
Dovetti aspettare un ora buona per la mia colazione, ma era normale. Anche quello mi serviva per iniziare ‘bene’ la giornata.
“Grazie” presi i soldi dalla tasca dello zaino e li porsi a Luke, che prese solo un dollaro, visto che non gli avevo mostrato gli spicci.
“Grazie a te” sorrise tornando nel retro, lasciandomi sola.
Mangiai piano i pancakes, facendo regolari pause per bere della cioccolata. Una volta finita, presi il mio cellulare in mano. Segnava le 6.55.
Inviai un messaggio a mia madre, con scritto che ero uscita presto per fare una bella passeggiata e una colazione abbondante. Come ogni mattina.
Posai il vassoio sul bancone e uscii fuori. Accesi un’altra sigaretta e infilai la mano libera nella tasca dei jeans. Fumare anche mi faceva sentire viva. Ma se ci fosse stato lui, sarebbe stato meglio. Sono una masochista a pensare ancora a lui. Ma non ne posso fare a meno. È come una droga, come le sigarette. Anzi, peggio. Lo odiavo, con tutta me stessa. Ma la sua assenza, aveva provocato un buco nel mio petto. Un buco che nessuno era riuscito a colmare.
Una macchina nera si fermò a pochi centimetri dall’entrata del bar. Infilai subito il cappuccio e fissai la strada sotto di me.
Il rumore dello sportello che si schiudeva mi fece sussultare, ma mantenni la mia posizione, dimenticando anche, di avere una sigaretta tra le dita.
La persona che era scesa dalla macchina mi passò accanto, profumava di buono. Di caramello mischiato col fumo. Il campanello della porta tintinnò. Aspettai alcuni minuti prima di alzare lo sguardo. Un ragazzo poco più alto di me era in piedi davanti al bancone, aveva i capelli color miele, delle spalle larghe ricoperte da un gilet di pelle e, sotto, da una maglietta bianca. Indossava dei pantaloni neri e delle scarpe del medesimo colore.
Il mio cuore di fermò. Era lui. Era proprio lì, davanti a me. Mi era passato vicino e non avevo riconosciuto il suo profumo. Era lui. Era tornato. Perché? Perché proprio in quel bar? Perché era tornato? La mia mente stava formulando troppe teorie e una più insensata dell’altra. Tranne una. Fare finta di niente. Buttai la sigaretta lontano da me e rientrai nel bar, togliendomi il cappuccio. Sinceramente, volevo essere riconosciuta. Volevo che si sentisse in colpa per come mi aveva ridotto. Volevo …
Volevo così tante cose, che nemmeno io le sapevo più.
Gli passai accanto senza guardarlo e raggiunsi il mio solito tavolo. Il cuore stava battendo a mille. Cosa avrei fatto se si fosse seduto qui? Perché avrebbe dovuto? Non si era nemmeno girato a guardarmi. Parlava con Luke, rideva, scherzava. Serrai la mascella. Come poteva ridere dopo tutto quello che mi aveva fatto.
Notai solo ora che indossava gli occhiali da sole. Fuori non c’era il sole, e nemmeno nel locale di Luke c’era così tanta luce.
Ma era solo una stupida osservazione. Smisi di fissarlo e mi concentrai sulle mie unghie, apparentemente molto interessanti e morse.
Un altro mio vizio era mordere le pellicine e le unghie fino a vedere il sangue. Lui era l’unico che mi aveva tolto questo vizio.
Iniziai a mordermi le unghie. Ancora. Ancora. Finché il sangue iniziò a uscire e ad inondarmi il dito.
“Non dovresti morderti le unghie così tanto. Mi sembrava di avertelo già detto.” Non riuscivo più a respirare. Era la sua voce. Ed era maledettamente sexy.
Alzai lo sguardo.
“Non mi sembra di ricordarlo” un sorriso beffardo mi comparì sul volto.
Poggiò il vassoio che teneva in mano sul mio tavolo e rise.
“Mi è mancato il tuo sarcasmo” si sedette continuando a sorride come un ebete.
Perché era tornato? Perché non se ne stava in Canada con la sua famiglia?
“A me non è mancata la tua faccia da culo” risposi sorridendo e continuando a mangiarmi le unghie.
“Se vuoi ti compro qualcosa da mangiare. Non sei affatto sexy quando ti mordi le unghie” disse mentre mangiava i suoi pancakes.
“Non devo essere sexy” risposi acida, cercando di mettere fine a quella conversazione.
“Lo sei sempre stata” potevo sentire i suoi occhi sul mio volto, potevo sentire la rabbia che cresceva dentro di me. Chi si credeva di essere per tornare qui e fare finta di niente?
“Ascolta bene, non mi importa perché sei tornato, non mi importa perché te ne sei andato. Per me, sei acqua passata. Quindi, fammi il favore e togliti dal mio tavolo” presi un tovagliolo dal suo vassoio e lo girai intorno al dito.
Sentii la sua lingua schioccare e lo guardai. Si inumidì le labbra e scosse la testa.
“Se io voglio sedermi vicino a te, lo faccio. Hai capito?” disse togliendosi gli occhiali e mostrando i segni neri intorno agli occhi. Non si dorme bene con i rimorsi, vero?
Trattenei per me quell’osservazione e continuai a guardarlo.
“Hai capito?” mi chiese di nuovo, lasciando a mezz’aria la forchetta.
“Fa come ti pare, Bieber. Per me, non esisti più” presi lo zaino e mi alzai in piedi, pronta per andarmene, quando mi si parò davanti. Lo guardai, inclinando la testa di lato.
Niente.
Silenzio.
“Allora?” chiesi incrociando le braccia.
“C’è un motivo per cui sono tornato” disse semplicemente.
“Indovina? Non me ne frega un cazzo” enfatizzai le parole con un gesto delle mani e mi spostai a destra per andarmene.
“No. Ti accompagno a scuola” scoppiai a ridere, nel vero senso della frase.
“Non hai capito. Non voglio aver nessun contatto con te. Per me sei morto. Non ricordi? Te lo dissi un po’ di tempo fa” mi inumidì le labbra e mi morsi l’interno della guancia.
“Lo ricordo. Un anno fa. Ma ora—“ lo fermai con un gesto della mano.
“Non ci casco. Cazzo, non mi importa di quello che fai” lo spinsi, per quanto mi era possibile visto che avevo la forza di un grillo, da una parte.
Raggiunsi l’uscita senza complicazioni.
Avrei davvero voluto che mi fermasse un’altra volta.
 
 
   
 
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