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Autore: Inathia Len    27/03/2015    7 recensioni
Me lo chiedo ancora, se ho fatto bene ad abbandonare la sua città galleggiante. E non lo dico solo per il lavoro… Il fatto è che un amico come quello, un amico vero, non lo incontri più. Se solo hai deciso di scendere a terra, se solo vuoi sentire qualcosa di solido sotto i piedi, e se poi intorno a te non senti più la musica degli dei… ma, come diceva lui, “non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”. Il guaio è che nessuno crederebbe a una sola parola, della mia storia…
SherlockBBC incontra Novecento di Baricco... ai posteri l'ardua sentenza...
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Irene Adler, Jim Moriarty, John Watson, Lestrade, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Prologo



L’aria era pesante, la strada bagnata e piena di pozzanghere in cui si specchiava la luna, che osservava tutto dall’alto, come sempre. Tutto era lucido di pioggia, tutto aveva ancora quell’odore che sembrava dirti “Oh, attento! Perché prima è venuto giù il diluvio universale… ma non è detto che non ricapiti, eh! Attento!”. E se ti guardavi attorno, non ci vedevi nessuno per strada, perché nessuno era così fesso da andare in giro a quell’ora della notte… o del giorno, che dir si voglia… nessuno era così fesso da uscire di casa, calcarsi il capello sulla testa, infilarsi l’impermeabile e mettere piede fuori dall’androne del proprio palazzo. Nessuno. Nessuno avrebbe lasciato il calore del focolare, del letto, di una moglie affettuosa…

Eppure, un uomo c’era. Un uomo che se ne andava per le strade con il passo di chi ha fretta e al tempo stesso preferirebbe non averne. Il passo di chi ha visto e vissuto troppo, ma non rimpiange nemmeno un istante…

John Watson camminava così, lo sguardo fisso a terra per evitare che le scarpe, non più nuove da quasi dieci anni, si rompessero definitivamente e imbarcassero più acqua del necessario. Così camminava quasi come un bambino, che gioca con se stesso a non pestare le righe per terra… solo che John Watson evitava le pozzanghere e malediceva mentalmente i pochi spiccioli che si ritrovava in tasca, che l’avevano costretto a uscire a quell’ora. Ma si sa, allo stomaco non si comanda… e lo stomaco di John Watson erano giorni che lo insultava e ringhiava per ottenere qualcosa di più di quello che si poteva permettere con i pochi soldi che guadagnava suonando la tromba nei bar e nei caffè.

E così camminava, il passo spedito e appena un po’ zoppo, lo sguardo fisso a terra e la tromba sotto il braccio, chiusa nella custodia nera che era stata la sua casa per quasi quindici anni. Aveva una meta ben precisa in mente, ma non aveva bisogno di alzare lo sguardo per controllare di essere nella direzione giusta. John Watson si fidava dei propri piedi, piedi che avevano visto e camminato di tutto. E sapeva che, anche quella volta, l’avrebbero portato dove doveva.

La sera attorno a lui era nera come la pece, si potevano vedere appena i tre metri davanti al proprio naso e poi basta. Poi potevi anche andare a sbattere contro un palo, che tanto non c’era nessuno che l’avrebbe potuto raccontare. I lampioni c’erano, sì, ma erano più quelli spenti e mal funzionanti che gli altri. Ma alla fine ci facevi l’abitudine. Soprattutto se, come John Watson, anche tu avevi una fede incrollabile nei confronti dei tuoi piedi.

Il negozio che era la meta dell’uomo, faceva angolo tra la strada principale e una vicoletto deserto, che sapeva di piscio e di umido, dal quale già si levava il russare di qualche senza tetto. Era un negozio piccolino, tutto vetrate e legno, con sopra l’insegna che recitava “F. Andom & sons. Compro e vendo musica” scritto in una vernice dorata che il tempo e le intemperie avevano fatto diventare sempre più scrostata e deprimente, facendo assumere alle lettere una sfumatura marroncina.

John Watson si fermò davanti alla porta, fece più salda la presa sul manico della custodia della tromba e poi prese un bel respiro. Nonostante il negozio fosse mezzo vuoto e l’orario fosse più prossimo a quello di apertura che di chiusura, gli avevano detto che Frank Andom praticamente viveva là dentro e che era sempre sveglio per un buon affare. Dei “sons” di cui parlava l’insegna, nessuno aveva mai saputo nulla.

Aprire la porta fu più difficile di quanto avesse pensato inizialmente. Non era chiusa, ma sembrava opporgli resistenza, quasi il legno e il vetro fossero contrari alla sua decisione. Ma lo stomaco protestò di nuovo e John Watson mise a tacere i dubbi ed entrò quasi con una spallata. Il suo ingresso venne sottolineato dalla porta che sbatteva alle sue spalle e un leggero scampanellio.

L’interno del negozio gli fece quasi salire le lacrime agli occhi. Per uno che aveva sempre voluto vivere di musica, quello era quanto di più simile ci fosse al Paradiso Terrestre: dietro un bancone di legno scuro, dove in altri negozi ci sarebbero stati magari dei fucili o delle bottiglie di marca, faceva bella mostra di sé la più grande collezione di ottoni che John Watson avesse mai visto. In ordine, stavano tromboni, tube, bassi tube, corni francesi, cornette in si bemolle, trombe basse… tutti perfettamente lucidi e che sembravano chiamarlo con l’antico canto delle sirene tentatrici. In vetrina, prima di entrare, aveva visto violini, violoncelli, viole e contrabbassi, ma si era imposto di non pensarci. Se si fosse messo a pensare a quello, avrebbe sicuramente fatto retro front e sarebbe tornato di filato al caffè dove aveva l’ingaggio per quella sera…

Nella parte sinistra del negozio, pianoforti vecchi e nuovi, a coda o a parete… ce n’erano persino un paio dai colori improbabili, probabilmente fatti su commissione e poi venduti dopo la crisi del ’29. John Watson la ricordava bene… anche se dov’era lui la crisi si era sentita decisamente meno.

A vedere tutti quegli strumenti, gli sembrava quasi di poterli sentire suonare, suonare quella musica che lui aveva avuto l’onore di sentire… la musica degli dei…

-Siamo chiusi.-

Il signor Frank Andom era sbucato alle sue spalle mentre John Watson aveva gli occhi chiusi per trattenere le lacrime e i ricordi. Era un vecchietto curvo, bianco di capelli –e ne aveva ancora parecchi per essere uno che poteva aver vissuto la Rivoluzione Americana- e dagli occhi neri penetranti. Fissava John Watson –o meglio, la custodia che teneva stretta in mano- con cupidigia, ma la bocca sottile era storta in una smorfia che non faceva ben sperare.

-Siamo chiusi- ribadì, gettando fuori la parole quasi volessero suonare come un insulto. -Non ha visto il cartello? Se ne vada…-

-Mi avevano detto che per un buon affare lei è sempre aperto- obiettò John Watson, prendendo un respiro profondo.

Il signor Andom gli si fece più vicino, lo guardò dal basso verso l’alto –non che avesse molte alternative- e poi inarcò un sopracciglio e stirò la bocca in un ghigno.

-Io non vedo nessun affare. Solo un giovanotto che vuol far perdermi tempo. Chiuda bene la porta dietro di sé quando esce. È una brutta serata e questo ventaccio maledetto mi ha già fatto cambiare tre volte il vetro in un mese…- borbottò, tornando sui suoi passi e scomparendo dietro il bancone, in quello che sembrava un corridoio buio e senza fine.

-Signore, aspetti… io… ehm… sono qui per vedere la mia tromba- confessò tutto d’un fiato John, facendo bloccare il vecchietto sul posto. Metà alla luce, metà al buio. Non si voltò, ma era già un passo avanti, secondo John. –Sono qui per venderla- ribadì, poggiandola sul bancone e aprendo la custodia.

-Da come la teneva stretta, sembrava più intenzionato a portarla a casa dei suoi genitori per annunciare il fidanzamento- commentò Frank Andom, girandosi e salendo su uno sgabellino che gli consentì di osservare bene la tromba. La prese in mano, la guardò dentro e fuori, pigiò i pistoni uno alla volta e poi tutti insieme. Poi tirò un cricco alla campana, poi un secondo… e alla fine la riappoggiò nella custodia, riportando lo sguardo su John.

-Nove sterline e cinquanta, non un centesimo di più- disse, l’aria di uno che ti stava facendo un grosso favore.

John si ritrovò a balbettare cose senza senso, quasi oltraggiato dal prezzo che il vecchietto gli aveva fatto. E va bene che era disperato, e va bene era un signor nessuno e che non c’era mai stata la fila per sentirlo suonare, ma…

-Questa tromba è la mia vita!- protestò, Frank Andom che lo guardava disinteressato. –Insomma, varrà ben più di una decina di dollari, Cristo!-

-Se la mette così, non arriviamo a mezza corona- lo derise l’altro. –Ora, come lo ho già detto, chiuda bene la porta quando esce, senza sbattere.-

-Oh… ma… Ah! E va bene. Nonno, hai vinto tu. Tienitela- si arrese alla fine, vedendo che Andom non alzava la sua offerta. –Ma sappi che ti sei comprato un pezzo di storia- aggiunse, contando i soldi che gli erano stati messi in mano, quasi a voler essere sicuro di non essere ulteriormente truffato. Ma c’erano tutti… c’erano tutti…

Era fatta, ciò per cui era uscito di casa era fatto. Il vecchietto fece anche una qualche battuta sul fatto che si sarebbe dovuto andare a comprare qualcosa di caldo da mangiare, forse per tirargli su il morale. Non sembrava cattivo, ora che lo osservava bene. Con il suo maglioncino senza maniche e il papillon, era anche elegante, a modo suo. E decisamente vestiva meglio di lui, che da giorni aveva addosso lo stesso completo sformato.

Lo vide accatastare quella che fino a pochi attimi prima era stata la sua tromba sopra un mucchio disordinato di altri strumenti. Sembrava così piccola e inutile, trascurabile… era stata la prima e unica tromba che avesse mai avuto. Se l’era tenuta stretta durante la guerra, non l’aveva venduta nemmeno nei periodi di crisi più nera… e ora, solo perché non riusciva a mettere a tacere il ringhiare del proprio stomaco, aveva ceduto.

-Me la faccia suonare almeno un ultima volta- quasi piagnucolò, sentendosi un perfetto idiota. Ma aveva accarezzato e pigiato quei pistoni per quindici anni… era dura dirsi addio e voltare le spalle come si esce dal bagno dopo che si è tirata l’acqua. Non è proprio la stessa cosa. E di certo la sensazione non era la stessa. Perché, delle due, John Watson si sentiva più pesante.

Frank Andom si rialzò dal libro dei conti e cominciò subito a borbottare sul fatto che gli stava facendo perdere un mucchio di tempo, che era tardi e… e un sacco di altre fesserie. Che però zittì in un attimo, non appena vide lo sguardo di John. Tremava. So che sembra impossibile a crederci, ma tremava. Non stava solo piangendo, non aveva gli occhi rossi o pieni di lacrime… era come se l’intero occhio partecipasse del suo dolore. E tremava. L’iride di un blu così scuro da sembrare nera, la pupilla… tremava. E Frank Andom non ebbe il coraggio di dirgli altro. In fondo, a lui che gli fregava?

Non appena disse –D’accordo- con quella sua voce gracchiante, John tornò sui suoi passi e fu accanto al bancone come se non se ne fosse mai allontanato.

E riprese la tromba con mani tremanti, come si accarezzerebbe una vecchia amica dopo che le si è fatto un torto tremendo. Avrebbe voluto dire tutto e niente, con quel tocco, John. Le avrebbe voluto dire che gli dispiaceva, ma che non era più ragazzino che… che bisognava crescere e abbandonare i sogni di gioventù. Le avrebbe voluto dire che c’era stata la guerra, che questo e il resto lo avevano fiaccato più di qualsiasi altra cosa al mondo… e le avrebbe voluto dire che, forse, se non fosse mai sceso da quella benedettissima e maledettissima nave, forse le cose sarebbero andate in maniera diversa.

Ma non disse nulla di tutto ciò.

Cominciò a suonare.

E suonò qualcosa che conosceva bene come le sue tasche, ma che non si era mai azzardato a suonare prima. Le sue mani si destreggiavano tra i pistoni come, anni prima, altre mani –più candide, affusolate ed eleganti delle sue- avevano danzato sulle corde di un violino… sì… di un violino come quello che stava ascoltando in quel momento. Esattamente quello. Stessi alti e bassi, stessa melodia, stessa storia che le note raccontavano…

Violino e tromba insieme.

A un certo punto dovette bloccarsi, le lacrime erano troppe… ed era convinto che il violino avrebbe smesso con lui, avrebbe giurato che fosse solo nella sua memoria… e invece no, eccolo continuare, eccolo esistere al di là dei suoi ricordi.

Abbassò la tromba e guardò sconvolto il vecchietto che, accanto a un giradischi, lo osservava affascinato.

-Due gocce d’acqua, vero?- gli disse, gli occhi che gli brillavano. Ma John non la pensava allo stesso modo. Lui non aveva mai suona così bene come… -Si sente male? Non svenga qui, per favore- commentò Andom, notando il pallore che si stava diffondendo sul volto dell’altro. -È la musica che ha suonato prima- lo incalzò, vedendo che non otteneva una parola dal giovane uomo che gli stava davanti, aggrappato alla tromba come se fosse l’unica cosa che gli impediva di cadere dritto per terra. –Non la riconosce? Che roba è?- chiese, gli occhi che gli brillavano.

John cominciò a camminare verso quel suono che usciva come a stento dal giradischi, gracchiante quanto la voce dell’uomo di fronte a lui.

-È una musica senza nome… sono davvero in pochi quelli che hanno avuto il privilegio di ascoltarla- riuscì a dire, la voce che gli tremava quasi quanto lo sguardo. Non era possibile… come faceva a esistere quella registrazione? Eppure era lì, davanti ai suoi occhi. Girava sul giradischi, crepata, quasi a volerlo rassicurare che sì, era stata rotta, che sì, non sarebbe dovuta essere… ma che non aveva sognato.

-È tutta mattina che me lo chiedo, ma non riesco a capire chi possa essere questo violinista straordinario…-

-Non credo proprio che lei lo conosca- commentò John, commosso.

-Chi è?- insistette Andom.

-Se le dicessi che questo violista non è mai esistito, non direi una menzogna.-

-Non mi piacciono i segreti- sbuffò il vecchietto, facendosi più vicino e fissando gli occhi neri in quelli tremolanti e blu e di John. –I segreti sanno di mutande sporche- sentenziò. –Su parla! Chi diavolo sta suonando?-

John si allontanò leggermente dalla registrazione, che ora crepitava e basta, perché giunta alla fine.

-Lui è il mio segreto.-

 















Inathia's nook:

Benvenuti e benvenute a questa mia nuova follia. E' già da tempo che avevo in mente una trasposizione "sherlockiana" di questo genere... e finalmente ho raccolto il coraggio a otto mani (sì, ce ne vogliono otto per scrivere e pubblicare cose come queste...) ed eccomi qua.

Per metterlo bene in chiaro, mi baserò principalmente sul film "la leggenda del pianista sull'oceano". Trovo che si adatti meglio alla struttura che voglio dare alla storia. Ma questo non significa che il romanzo di Baricco, "Novecento", verrà ignorato. Assolutamente no. Molti pezzi quasi li copierò pari pari... perché trovo lo stile di Baricco bello eltre ogni dire. Quindi, se in alcuni punti vi sembra particolarmente scritto bene, sappiate che non è tutta farina del mio sacco, ecco. Non sto a mettervi asterischi o a segnalarli ogni volta. Fidatevi, si capirà.

Ora, la storia non sarà lunghissima (almeno, non lo è nella mia testa, ma forse finirò per sbrodolare come mio solito... chissà...) e si baserà principalmente su John e Sherlock, ovviamente. Non ci sarà una storia d'amore nel senso fisico del termine, ma le loro dinamiche, la loro chimica... quella cercherò di mettercela tutta. E farò anche più rimandi possibili alla serie, senza però discostarmi troppo dalla sceneggiatura del film o del libro.

La storia verrà narrata attraverso dei flashback di John... quelli saranno in prima persona e in corsivo. Quando si tornerà al presente, la persona sarà la terza e non ci sarà più il corsivo.

Dovrei riuscire ad aggiornare settimanalmente. Di solito ci riesco e dovrei riuscirci anche questa volta.

Questo è più o meno quanto. Non voglio ora andare a caccia di recensioni (chi mi conosce sa che è ovvio che mi facciano piacere, ma "non solo di recensioni vive l'auitrice), però a questa storia tengo in maniera particolare. Ci ho messo davvero tanto a decidere se pubblicarla o meno. Amo Baricco incodizionatamente, amo il film, amo Tim Roth... e ovviamente amo SherlockBBC. Quindi mi farebbe davvero tanto piacere sapere cosa ne pensate. Anche un cordialissimo "vai a casa che è meglio" mi sta bene.

Ok, questo è davvero tutto.

Un bacione e grazie anche solo per essere arrivati fin qua. Alla settimana prossima (se vorrete)

I.L.

  
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