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Autore: Astarter    28/03/2015    10 recensioni
Hinata all'inizio di questa trama ha 32 anni.
Alcune settimane dopo essere stata lasciata dal suo ex di cui nemmeno era innamorata ha cominciato un percorso di psicanalisi, acquistando consapevolezza e sicurezza.
Come procederà la sua vita, quando sulla sua strada comparirà il ragazzo più velenoso e insopportabile che abbia mai conosciuto?
*
Le persone dicono che nei momenti difficili s’impara ad apprezzare le piccole cose. Nozioni poetiche e stravaganti come i tramonti, il verso degli uccelli e i vari colori dei fiori delicati.
Beh, Hinata poteva dire con certezza che quelle erano tutte bugie.
Bugie.
"Tu vivi a metà, Hinata" le aveva detto il suo psicanalista.
*
Dal cap. 2:
«Su alzati e fa la figura della povera sfigata, che scappa alla sola vista del suo ex» le disse Sasuke in tono sardonico.
«Forse hai ragione» riprese Hinata, facendosi scura in volto. «Se me ne andassi ora rivelerei il mio turbamento a lui, gli darei importanza. Sono impulsiva a riguardo di queste cose e malgrado sia cambiata, non riesco ancora a celare i miei fastidi. Tuttavia...» continuò, digrignando i denti. «Penso che sia sempre meglio così, che come te che sei uno stronzo!»
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Han, Hanabi Hyuuga, Hiashi Hyuuga, Itachi, Nuovo Personaggio, Sai | Coppie: Hinata/Sasuke
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Avvertenza dell'autrice Astarter / Alessandra
 
Salve cari lettori che mi seguite da anni, volevo dirvi che questa storia la pubblicai qui  per avere pareri, in realtà questo è un mio romanzo. I veri personaggi hanno nomi diversi, nomi occidentali, lei ad esempio si chiama Luna. Il racconto è ambientato in Italia, ma non c'è un nome di una città specifica, quindi chiunque legga percepirà solo che si trova in Italia, dove non si sa. In seguito mi farò viva io, quando finirò di revisionare tutto il romanzo. Desidero pubblicarlo in versione cartacea e online. Vi avvertirò io quindi fino ad allora pazientate.

Voglio dare ugualmente il benvenuto alla lettura di questo prologo a chi non conosce la storia. Posso solo anticipare che vi trovate in una storia realista - psicologica, i protagonisti sono trentenni piuttosto alternativi, diciamo pure metallari-rockettari. Ci saranno contenuti filosofici, mitologici, onirici.
All'inizio di questa trama la protagonista ha 32 anni, lei è spontanea, ansiosa, orgogliosa, malinconica, nevrotica.
Passando al co-protagonista, lui è un tipo: scontroso, diretto, tagliente, calcolatore, stoico, riflessivo - sebbene abbia un carattere complicato - ha i neuroni che gli funzionano anche troppo bene... 
Soprattutto questo ragazzo è una persona "profonda", non arida.





 
Non puoi fuggire da te stesso per sempre, devi fare ritorno e riuscire ad amarti.
Carl Gustave Jung

 

 
CAPITOLO 1
Luna
 
 
 
“Le persone dicono spesso che nei momenti difficili impari ad apprezzare le piccole cose. Nozioni poetiche come i tramonti, il verso degli uccelli e le varie sfumature dei petali di un fiore.”
Hinata  poteva dire con certezza che quelle erano tutte bugie.
Enormi, bugie.
I tramonti si svolgevano tutti quanti in maniera simile, il continuo starnazzare degli uccelli, mentre si riposava era molto fastidioso, i fiori avevano una bellezza effimera che decadeva in breve tempo, appassendo in forme sgraziate e avvizzite, soprattutto quando l’inverno cominciava a far mancare il respiro al mondo.
Pensò all'ultima storia sentimentale che aveva avuto, mentre sistemava meglio la gamba ingessata sui tre cuscini.
Era estate, ma la temperatura s'era abbassata quel giorno, l'aria non era poi così calda e il vento le arrotolava i capelli indietro. Sulla pelle scoperta del suo vestito blu a bretelle poteva sentire i brividi. C'era un ragazzo che stava passeggiando su quel porto con lei. Hinata guardò lui poi le barche ormeggiate.
Lui la fissò con un mezzo sorriso.
-Vuoi andartene?-
-No - aveva risposto scuotendo il capo.

Era il giorno del suo compleanno, l'otto giugno.
Hinata portò le mani nei capelli neri e lunghi, agitati dal vento.
- Avanti Hinata, si vede che hai freddo - sorrise lui. 
Sentì il tono leggero di lui e distolse lo sguardo, decidendo di continuare a passeggiare vicino la barche ancorate.
- Perché siamo qui?-
Lui non le rispose e Hinata cominciò ad agitarsi, inciampando nei sui maledettissimo sandali estivi.
Maledetti sandali, pensò, mentre si trovava sul terreno pieno di ghiaia.
- Ti sei fatta male?-
Hinata sollevò il volto vedendolo allungare il braccio per aiutarla ad alzarsi. In quel momento guardando quei capelli castali e gli occhi nocciola pensò che avesse davvero un bel viso, e forse era per quel viso che stava da più di un anno con lui?
Ricordò una frase che diceva sua sorella.
Per trovare dei lati ottimisti nel carattere di quel tipo ne vuole in quel ragazzo, forse devi scavare parecchio.

- Hinata, lasciamoci.-

Hinata sistemò meglio la sua gamba ingessata sui tre cuscini, bruciava ogni volta che la inclinava un po’, doveva restare in alto, e non era affatto comodo stare in quella posizione per tutto il giorno.
Come una perfetta impedita era caduta grazie al dislivello del marciapiede, mentre usciva dal tabaccaio. La caviglia si era piegata e tutto il peso del corpo era andato lì sopra.
La negoziante era pure uscita per aiutarla, quando l’aveva sentita lamentarsi e lei dopo qualche minuto stringendo i denti aveva sollevato il corpo su un piede, sedendosi in macchina. Era caduta proprio lì di fronte, e la sua auto aveva la stessa altezza del marciapiede alto. Aveva pure guidato per tornare a casa, saltellando dolorante per entrare. Osservò di nuovo la sua gamba, erano passate giù tre settimane da quella caduta, presto le avrebbero tolto il gesso e lei avrebbe dovuto pure fare fisioterapia.
Le stava succedendo di tutto in quei mesi, aveva pure perso il portafoglio a gennaio e ora s’era passata marzo e aprile stesa come un baccalà. E questo perché quando era andata dall’ortopedico per togliere il gesso, quello aveva pensato di mettergliene un altro.
Le serve un gesso da carico ora, le aveva detto.
E così si era ritrovata a indossare quell’orripilante scarpone nero, lo stesso scarpone che quando era piccola e lo vedeva su persone grandi le faceva paura.
 
Sua madre l’aveva convinta a seguire i suoi studenti del doposcuola direttamente in web cam. Ma si era limitata a tenerne una al giorno, le faceva ancora più male la gamba quando restava troppo sulla sedia a rotelle.
Sospirò stanca, quando sua madre le fece la piccola puntura sull’addome per evitare trombosi, visto che era costretta a muoversi poco.
Era davvero una tortura stare in quelle condizioni, trascinare la sedia a rotelle fino al bagno era così frustrante, aveva provato molta empatia in quel tempo per chi su quell’aggeggio ci sarebbe stato per sempre.
I giorni erano cominciati a scivolarle addosso uguali e monotoni, mentre ogni tanto qualche amico si degnava di farle visita.
A un suo amico aveva chiesto di portarle il tabacco visto che sua madre s’era rifiutata di comprarglielo.
Almeno aveva quel diversivo, era così nervosa.
Bel modo di passare la primavera quello!
I mesi erano trascorsi e con diverse difficoltà dopo più di un mese di fisioterapia era tornata a camminare decentemente.
Quella sera stessa si era concessa un’uscita con il solito gruppetto di amici, con lo scopo di svagarsi, ma senza riuscirci. Si sentiva inquinata ogni volta che li sentiva parlare, erano negativi, aveva bisogno di fare nuovi amicizie, ma non era così semplice. Non aveva più vent’anni, né una comitiva.
Stava meglio da sola che con gente dai pensieri così tossici, anche se si sentiva vuota dopo un po’ nel non condividere nulla con nessuno.
Quando aveva problemi sparivano tutti poi, bell’amicizia.
Gli amici più sinceri che aveva ormai erano fuori regione.
Percorse il viale alberato del suo giardino. Sua madre tanto tempo prima aveva fatto piantare dei grandi cespugli tra gli arbusti che però avevano una forma rettangolare così banale a suo avviso.
Se fosse esistito davvero Edward mani di forbici del film di Tim Burton, probabilmente si sarebbe divertito a modellarli con le forme più svariate, facendoli risaltare, si disse.
Almeno avrebbe trovato quella vista interessante.
La sua casa si ergeva sullo sfondo. Il prospetto squadrato era  colorato da un tenue color pesca.
La mattina i fiori delle piante grasse delle fioriere rilucevano sotto i raggi del sole, sua sorella si recava spesso sotto il gazebo per studiare lì e godere della natura, a lei non gliene importava nulla. 
Il giardino della sua villa però non era desolato. Hinata, sentì alle spalle lo zampettare del suoi due labrador bianchi che contenti le erano venuti incontro, scodinzolando.
Hinata sorrise nel vederli, ma non si piegò ad accarezzarli, con giustificazioni interiori riguardanti la scocciatura  di lavare le mani li superò. Ma non era quello il motivo vero, in fondo c’era qualcosa che la bloccava.
Salì i due gradini e si ritrovò davanti alla porta d’ingresso, accanto ad essa c’erano due alte colonne. Aprì la porta di casa e percorse il salotto silenzioso, sentendo il rumore dei suoi tacchi sul pavimento in gres porcellanato. La grande lampada in legno situata vicino alla libreria che prendeva l’intera parete era accesa.
Hinata notò il portatile della sorella sul tavolino in legno massello situato davanti al divano in pelle marrone. Di sicuro i suoi parenti erano a letto da un pezzo. Lasciò quella stanza e aprì  la porta della sala da pranzo.
Ignorò il disordine sul piano cottura. Di sicuro era stato suo padre a fare quel disastro, sua madre probabilmente era già a letto a vedere la sua serie preferita, l’indomani l’avrebbe sentita lamentarsi con suo padre. Di sicuro avrebbero battibeccato con conseguenti battutine durante l’ora di pranzo.
Hinata storse il naso.
Ma come diavolo facevano le persone a sposarsi?
Dovevano avere davvero fegato per sopportarsi a vicenda.
Stufa aprì il frigorifero e prese ciò che le occorreva per preparare un panino. Prima di lasciare la cucina si recò nel bagno che usavano anche come lavanderia e ripulì il volto dal trucco con una salvietta. Quando percorse le stanze a ritroso, afferrò qualche brioche e di nuovo raggiunse il salotto, salendo le scale che si stagliavano proprio al centro di esso. Cercando di non fare troppo rumore, salì i gradini lentamente.
Giunta nel disimpegno aprì la prima porta a sinistra, quella della sua camera. Ormai rilassata sfilò pantaloni, maglia e stivali neri in favore del suo pigiama di cotone. Una volta pronta per dormire, si tuffò nel letto, per poi girarsi sul lato e contemplare i raggi lunari che filtravano dalla finestra. Il sonno faticava a raggiungerla, e la notte quasi pareva seppellirla di pensieri.
A fine febbraio aveva compiuto trentadue anni, e ancora si sentiva nel pieno di una burrasca interiore. Forse i suoi anni potevano apparire molti, ma lei non si sentiva soddisfatta in alcun settore, nemmeno in quello lavorativo. Era davvero frustrata. Gli studenti delle elementari a cui faceva doposcuola erano davvero una magra consolazione, i soldi non erano abbastanza per mantenersi da sola.
Accese una sigaretta e soffiò il fumo sotto la cappa del camino, avvertendo nel suo animo  un’impressione nota e quasi dimenticata, un ricordo mutato in nebbia oltre il quale si trovava il presente.
Sbuffando posò la sigaretta accesa e prese il portatile, mettendolo sulle gambe.

- Buongiorno a tutti - salutò Hinata il giorno dopo con voce cavernosa. 
Hanabi ricambiò con un sorriso.
- Hinata - chiamò sua madre. - Questo pomeriggio hai da fare? - le chiese, come se non si aspettasse una risposta negativa da parte sua.
Lei le rivolse uno sguardo perplesso. Sua madre era pienamente cosciente che ormai erano mesi che non lavorava e non faceva altro che vegetare in una maniera ai limiti del vergognoso, per cui vide quella domanda come una provocazione bella e buona.
- No, perché? - si limitò a ribattere stancamente, prendendo posto davanti al grande tavolo nero.
- Perché tuo padre deve chiederti qualcosa -  le disse, voltandosi verso la direzione del marito.
- Hinata vorrei che fossi tu ad accompagnare l’ingegnere che si occuperà di edificare i nostri terreni fuori città -  affermò perentorio, fissandola con i suoi sottili occhi color ghiaccio.
- Di nuovo?-
Solo venti giorni prima aveva accompagnato un altro ingegnere, l’avevano presa come dama di compagnia?
- Questa volta credo di aver trovato la persona giusta per la costruzione del mio hotel - le rispose secco, riempiendo il suo bicchiere d'acqua.
- D’accordo, non c’è nessun problema – rispose come se non avesse alternative. I suoi genitori la fissavano, come a dire: fa qualcosa e renditi utile, non osare replicare.
- È una mansione semplice – spiegò suo padre. - Non dovrai far altro che aprirgli il cancello e consegnargli questa cartelletta, che non contiene altro che le misurazioni dell’intera area, e i punti dove si dovrà edificare - continuò, tirando fuori i documenti dalla sua ventiquattrore.  - A stasera - concluse girando i tacchi.
Lei guardò la figura del padre. Aveva posato la cartelletta sul tavolo e sua madre ora la stava guardando con un’espressione indecifrabile. La vide spingere i capelli lunghi fino alle spalle indietro.
I suoi genitori erano visivamente una coppia ben assortita almeno d’aspetto, vista la bellezza di entrambi. Peccato che quando litigavano non fossero poi così amorevoli.  
Vide la bocca di sua madre continuare a muoversi, forse aveva detto qualcosa?
Nemmeno aveva sentito. Parlava davvero tanto sua madre, e quando doveva redarguire lei o Hanabi su qualcosa che non andava, tendeva a offendere, pensando di stimolare le sue figlie, quando a Hinata in realtà faceva solo venire voglia di gettarsi dal balcone, per quanto la gettavano a terra le sue critiche.
Suo padre invece era sempre stato più freddo e distaccato, comodamente aveva lasciato tutto il fardello riguardante l’educazione delle figlie alla moglie, e forse era pure per questo che sua madre era diventata una specie di nevrotica senza speranza.
Tornò alle ponderazioni su se stessa, cosa stava facendo nella sua vita?
Quando aveva finito il liceo classico Hinata aveva seguito il flusso, seguendo un percorso universitario affine alla scuola frequentata. Non poteva dire che le avesse fatto schifo la facoltà di lettere, ma c’era qualcosa, un vuoto che non era riuscita a colmare. Una parte di Hinata pensava di non aver seguito affatto il percorso giusto, ma non era certa di sapere quale fosse.
Si era persa negli anni.
Osservò la chioma ribelle di sua sorella in completo contrasto con il suo istinto da maestrina. Non poteva nemmeno parlarle dei suoi disagi, sua sorella tendeva sempre a fare la moralizzatrice degli altri, uscendosene con le sue teorie zen. Peccato che fosse tutta teoria, perché Hanabi calmo non aveva proprio nulla. 

Quindici minuti dopo, con le chiavi dell’utilitaria in mano, Hinata uscì dal garage della sua casa e di diresse nei pressi del centro storico.
Dopo una carrellata di semafori disposti ad una cinquantina di metri l’uno dall’altro, raggiunse delle vie limitrofe. Lo studio del suo psicanalista si trovata in una zona a traffico limitato, per cui una volta scesa dall’auto avrebbe proseguito a piedi. Con un vestito di jeans che le arrivava quasi alle ginocchia, Hinata  lanciò uno sguardo a quella via, cercando di memorizzare il luogo dove aveva parcheggiato l’auto, visto che tutte le strade vicino al centro si somigliavano più o meno in molti aspetti. Quando fu sicura d’aver memorizzato il suo personale punto di riferimento rappresentato da una fontana all’angolo e un parcometro, Luna voltò le spalle al suo veicolo e avanzò a piedi in quei vie nodose, guardando i negozi, le abitazioni che conosceva sin da quando era una bambina. Aveva consumato quelle strade quando ancora usciva con la sua bicicletta per raggiungere la scuola media. Sua nonna materna abitava proprio dietro di essa. Socchiuse per un istante gli occhi, poteva ancora sentire il profumo della torta al limone che lei preparava per lei e i suoi cugini ogni fine settimana.
Era un sentore dolce e inebriante, perché era il profumo della sua infanzia. Non fece caso a quella felicità appena sfiorata in un ricordo, e continuò a perdersi nella sua osservazione. C’era qualcosa di nuovo intorno, un terrazzino sporgente, un parapetto, delle porte antiche e in disuso, luoghi disabitati che recavano un’energia antica.
Raggiunse la piazzetta, osservando tutte le abitazioni caratteristiche intorno. Lo studio si trovava, sotto un porticato in pietra risalente al XV secolo. Sul muro si poteva notare l’edera rampicante. Era di un verde acceso, quasi smeraldo, e adornava la parete come quella di un castello.
Hinata  spostò la coda lunga dei suoi capelli dietro la schiena e suonò il campanello. Dopo aver dato il suo nominativo salì i tre scalini, prendendo posto su una sedia nera. L’ambiente era asettico, pochi quadretti popolavano le pareti bianche, il pavimento era su toni grigi.
In mezzo a delle rigide sedie in plastica c’era un tavolino di legno scuro, su cu era posato un vaso con una finta pianta ornamentale, insieme a delle riviste che servivano ai pazienti per riempire il tempo d’attesa.
“Signora Hyuuga è il suo turno” la informò dopo qualche minuto la segretaria, facendole cenno che era arrivato il momento di entrare.
Signora, ripeté fra sé e sé.
D’improvviso fu subito notte dentro di lei.
Non che potesse aspettarsi un trattamento diverso a trentadue anni suonati. Ormai davanti alla porta bianca bussò due volte, e quando il dottor Della Torre la invitò ad entrare salutò l’uomo, guardandolo con ammirazione. Il suo psicanalista aveva all’incirca una settantina d’anni, ed era un uomo alto e distinto, dalla voce profonda e pacata. Ogni suo movimento traspariva una certa eleganza, facendolo sembrare un intellettuale d’altri tempi.
Hinata ricambiò la stretta di mano che le venne offerta da parte del dottore, soffermando lo sguardo prima sulla sua lunga chioma bianca, sugli occhi sfilati e scuri, contornati da rughe d’espressione, e poi sulla barba dello stesso colore.

Quando tornò  a casa, indossò le scarpe e prese la giacca insieme alla cartellina contenente i documenti che sarebbero serviti all’ingegnere. Uscì di casa, chiuse la porta a chiave, e percorse il selciato del suo giardino a grandi falcate. Varcato infine il cancello, si guardò attorno, alla ricerca di qualcuno che somigliasse ad un ingegnere. Ma nel vialetto non c’era nessuno, a parte lei ed un grosso fuoristrada dai vetri oscurati.
Hinata si avvicinò al veicolo con cautela. Appena aprì la portiera del posto del passeggero, spese qualche istante per osservare la persona al suo interno. La prima cosa che notò fu che al posto del guidatore era seduto un uomo abbastanza giovane. Luna fece scivolare lo sguardo sul suo viso dalla carnagione chiarissima e sui lunghi capelli neri.
Caspita, superavano le spalle ed erano un po’ mossi. Sembravano morbidi.
Doveva essere anche lui sulla trentina.
Forse le sarebbe apparso più avvenente senza quell’aria seria. Quell’espressione poi le ricordava qualcuno.
- Mh – mugugnò il tizio.
Luna sbatté all’improvviso le palpebre.
Che imbarazzo. Era rimasta lì a guardarlo, come una perfetta idiota, mentre lui nemmeno l’aveva degnata di uno sguardo. Si ritrovò ad alzare gli occhi nei suoi, e appena si incontrarono, per una frazione di secondo, il tempo parve paralizzarsi. Erano neri?
No, erano di un blu cobalto piuttosto scuro, come acque profonde che quasi fanno paura.
Le pareva familiare, ma chi era?  
Poi come un fulmine, l’immagine di lei a sedici anni le balenò nella mente.
Lui era il ragazzo che stava con la comitiva dall’altra parte del parco.
Non erano mai stati amici, né conoscenti. Quando le capitava di osservarli, passando con il suo scooter, li ricordava sempre intenti a fumare. Tutte le ragazze della sua comitiva parlavano di lui e un altro suo amico che pareva un po’ simile d’aspetto.
Cavolo, anche allora aveva i capelli lunghi quel tipo.
Aveva assistito a parecchie scene nella piazzetta di conoscenti che si avvicinavano a lui.
Una in particolar modo l’annoiava a morte su fantomatiche considerazioni sul ragazzo, visto che nemmeno era mai riuscita a parlarci e continuava a fantasticare su quando sarebbe passato con la sua vespa.
Quella tipa aveva persino memorizzato gli orari in cui si spostava da lì! Ma non era una gran cosa, c’erano altre sue amiche che guardavano altri ragazzi e tutti i dettagli.  Invece Luna pensava più a cosa inventarsi per poter restare più ore fuori casa che ai ragazzi. Effettivamente la prima volta che si era messa con qualcuno aveva vent’anni.  
Non aveva mai parlato con quel tipo, né gli aveva prestato attenzione, era così surreale che dopo tanti anni ora fosse diventato addirittura l’ingegnere di suo padre.
Sasuke Uchiha, pensò basita.



 
   
 
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